Fratelli nell’ultimo periodo vi ho parlato di come noi pecchiamo , quali sono i nostri peccati,
e per risalire dobbiamo accettarci ,
amarci e odiare i nostri peccati ,
abbiamo visto quale è il cammino
corretto per arrivare ad essere discepolo e mi sembra doveroso dare uno
sguardo e uno studio attento a chi come noi non ha
conosciuto Gesu’ ma che è diventato il Discepolo per eccellenza “ San Paolo” come noi ispiriamo ad
essere. San Paolo,nacque a
Tarso in Cilicia (At 22,3), da genitori ebrei , sembra avesse una sorellla, fin dalla nascita, godette dello stato civile
di cittadino romano (At 22, 25-29; 16,37; 23,27), visto che Tarso era una città romana. vantò di essere israelita anche perche’ proveniva da una città famosa come centro di cultura, filosofia ed e
educazione. Sapeva parlare l’aramaico e
il greco . L’istruzione di Paolo ai piedi di Gamaliele fa pensare che egli si
stesse preparando a diventare un rabbino. Sia l’eredità giudaica della sua
famiglia, sia l’ambiente ellenistico di Tarso lasciarono la loro impronta sul
giovane Paolo. L’impronta rabbinica farisaica è presente soprattutto nelle
lettere polemiche di Paolo, dove egli rifiuta decisamente la legge. L’ incontro con il Signore risorto fu l’esperienza che trasformò Paolo da fariseo
in apostolo. La sua conversione, dopo la Pentecoste, è collegata al tempo probabilmente al martirio di Stefano
quando i testimoni deposero le loro vesti ai piedi di Saulo affinche’ le custodisse , Paolo ci dà un
resoconto in Gal 1, 13-17 ,in Atti (9,
3-19; 22, 6-16, 26, 12-18), e tutte lo descrivono come un’esperienza fortissima
e inattesa, avuta quando egli era al massimo della sua attività di persecutore
dei cristiani. Gesù si rivolge a Paolo
“in lingua ebraica” , Nei tre resoconti
si riscontrino varianti su certi dettagli (i suoi compagni rimasero in piedi
ammutoliti o invece caddero per terra; anch’essi sentirono - oppure no - la
voce) , tuttavia i narratori sono concordi, sul descrivere la loro conversazione:
“Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” –
“Chi sei tu Signore?” –
“Io sono Gesù (di
Nazaret) che tu perseguiti”.
Paolo nel narrare quest’esperienza parla di una rivelazione del Figlio concessagli dal
Padre (Gal1,16). In essa egli vide “Gesù il Signore” (1 Cor 9,1). La sola
differenza tra quella esperienza di Paolo, in cui Gesù gli apparve (1 Cor 15,8)
e l’esperienza dei testimoni ufficiali della risurrezione (At 1,22), fu una
sola: mentre le apparizioni di Cristo Risorto ai Dodici avvennero dopo la sua
morte in croce, la visione di Paolo avvenne, invece, dopo la Pentecoste. Ma la realtà fu la stessa: la visione di
Paolo, infatti, si situò allo stesso livello delle apparizioni ai Dodici, che
avevano seduto il Cristo Risorto. Questa visione rese cieco Saulo e
Anania guarì la sua cecità imponendogli le mani. Paolo fu battezzato e rimase a Damasco “per
alcuni giorni” (At 9,19). Non molto dopo la sua conversione, Paolo si ritirò
nella solitudine e nella meditazione dell’Arabia (Gal 1,17), per prepararsi al
suo futuro ministero. Il suo soggiorno fu breve. Dopo il suo ritorno
dall’Arabia, l’Apostolo si fermò per circa “tre anni” a Damasco (Gal 1,18). Durante
il suo soggiorno a Damasco dimostrò loro che Gesù era il Messia, e verso la
fine di quel soggiorno, si era già conquistato dei discepoli. Alla fine però,
lo costrinsero a lasciare la città. La sua fuga fu organizzata
dai suoi discepoli che lo calarono giù dalle mura della città in un canestro. Si
recò quindi a Gerusalemme, e questa fu la sua prima visita alla città, dopo la
sua conversione (At 9,26; Gal 1,18). Ciò avvenne nel 40 circa d.C., Barnaba
dissipò la naturale diffidenza dei cristiani di Gerusalemme nei confronti di
Paolo e fece di tutto perché venisse accettato bene. Scopo di questa visita è
secondo Gal 1,18 quello di“consultare Pietro”. Durante la sua visita Paolo ebbe
nel tempio quell’estasi di cui si parla in At 22,17. Una congiura di ellenisti
a lui contrari lo costrinse alla fine, abbandonare Gerusalemme ed egli si recò
a Tarso (At 9,30). Paolo rimase certamente a Tarso dal 40 al 44, ma non si sa
nulla della sua attività in questo periodo. A
quest’epoca molto probabilmente ebbe la visione a cui si riferisce il
testo di 2 Cor 12,2-4 (ca. 43-44 d.C.). Il suo soggiorno a Tarso ebbe termine
quando Barnaba andò a visitarlo per condurlo ad Antiochia, dove si fermò per un
anno intero (At 11, 25-26),impegnato nell’evangelizzazione della città. Da questa città inizia il suo primo viaggio
missionario di (46-49 d.C.), verso la fine del suo itinerario apostolico (49
d.C.) torna a Gerusalemme per il “Concilio”. Il secondo viaggio missionario
avvenne dal (49-52 d.C.). Il terzo viaggio dal (54-57 d.C.). L’ultima visita a
Gerusalemme coincide col suo arresto (58 d.C.). Dopo la nella Fortezza Antonia,
Paolo fu inviato al procuratore della Giudea, Felice, che risiedeva a Cesarea
Marittima. Felice lo tenne in prigione per due anni, 58-60 d.C. Paolo allora
chiese di essere processato a Roma, e arrivò nella capitale nella primavera del
61 d.C. Per due anni fu tenuto agli arresti domiciliari (61-63). Il suo arrivo
a Roma e la possibilità di predicare il vangelo senza alcun impedimento rappresentano
il punto culminante del racconto della diffusione della buona novella da
Gerusalemme fino alla capitale del mondo civilizzato di quell’epoca, essendo Roma
il simbolo dei “confini della terra” (At 1,8). Conscio che il termine della sua
vita era prossimo, Paolo pose Tito a capo della Chiesa cretese e Timoteo a capo
di quella efesina. Le due lettere sarebbero state scritte a quei discepoli e
alle loro Chiese, quando egli stava per affrontare la morte. La 2 Tm fu scritta
nel 67 d.C. ,mentre era in prigione Per altri dettagli sugli ultimi anni della
vita di Paolo dobbiamo dipendere dalla tradizione ecclesiastica posteriore. Eusebio
parla del martirio di Paolo sotto Nerone (64-68 d. C.). Tertulliano fa il confronto
tra la morte di Paolo e quello di Giovanni Battista, e cioè, per decapitazione.L’anno
comunemente preferito per la morte di Paolo è il 67 d.C. verso il termine della
persecuzione di Nerone, come sembra suggerire la narrazione di Eusebio. Paolo fu
sepolto sulla via Ostiense, presso l’odierna basilica si San Paolo fuori le
mura.
LA TEOLOGIA DI PAOLO: Il concetto chiave attorno al quale
deve essere organizzata tutta la teologia paolina è Cristo. La teologia di
Paolo è quindi CRISTOCENTRICA. Ogni
tentativo di cercare un principio organizzativo per la sua teologia a
prescindere dal Cristo è destinato a rimanere inadeguato. E tutto questo ci
riporta ancora alla visione sulla via di Damasco: quel bagliore di luce, che
spense per tre giorni la sua capacità visiva, non era che il simbolo
dell’accecante splendore che invase e penetrò allora la sua anima. Mentre Paolo
perdeva la vista, acquistava occhi nuovi per fissare meglio Cristo. In quel
contatto fisico col Risorto, egli afferrò con un rapido colpo d’occhio le
verità più essenziali ma anche più sconcertanti che nel Cristo si incentrano.
Tutti gli enigmi dell’Antico Testamento (lui era un fariseo osservante) allora
diventavano chiari. Se Gesù è risorto da morte, vuol dire che egli è veramente
il Figlio di Dio, e se è il Figlio di Dio, e gli è il Santo e il Giusto per
eccellenza e perciò non può essere morto per i suoi peccati, ma per quelli
degli uomini. Dunque la sua morte ha un valore di salvezza per tutti (l’aspetto
SOTERIOLOGICO, di salvezza, è conseguenza di quello cristologico). La salvezza
si otterrà perciò non più attraverso le faticose osservanze legali, ma solo
accettando “nella fede” la “buona novella di Gesù Cristo”, cioè il suo Vangelo:
“Piacque a Dio di salvare i credenti con
la stoltezza della predicazione (kerygma). Sicché mentre i Giudei chiedono i
miracoli e i greci cercano sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso,
scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani; ma per quelli che sono
chiamati, sia Giudei che greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio” (1
Cor 1, 21-25). I Il vangelo, quindi, non è solo un annuncio
dell’evento redentivo della morte e risurrezione del Cristo, ma è esso stesso
una forza che lo comunica a tutti gli uomini, giudei o greci (l’annuncio ha validità
universale: Rom 1,16). In un certo senso, è esso stesso un evento redentivo ogni qualvolta rivolge il suo appello agli
uomini. Sorprendentemente, Paolo lo chiama “la potenza di Dio”, proprio come ha
chiamato il Cristo stesso (1 Cor 1,24). Ecco perché “predicare Cristo
crocifisso” è “predicare il vangelo”. Sia il Cristo che il vangelo portano agli
uomini il dono salvifico del Padre. Il vangelo è il mezzo che il Padre ha per
rivolgersi agli uomini, sollecitando da loro le risposte della fede e dell’amore.
Perciò esso è il “vangelo di Dio” (1 Tess2,2.8.9; 2 Cor 11,7; Rom 1,1;15,16),
ma anche il suo “dono”, la sua “grazia” (2 Cor 9, 14-15). Così Paolo può scrivere
ai Tessalonicesi che il suo “vangelo non fu predicato solo a parole, ma con potenza,
con Spirito santo e con piena convinzione” (1 Tess 1,5; 1 Cor 4,20). Infatti, in
quanto “potenza di Dio” il vangelo non è annunciato senza l’assistenza dello Spirito
di Dio. In realtà, attraverso questo “vangelo di salvezza” i credenti sono sigillati
con lo Spirito Santo della promessa, “caparra della nostra eredità” (Ef 1,13). Attraverso
di esso gli uomini sono già salvi (1 Cor 15,2). Pertanto la distinzione tra
Ebrei e pagani non ha più alcun senso. Tutto questo demoliva in un istante il
suo vecchio mondo spirituale e gli scopriva altre realtà più belle: Cristo,
Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto, è dunque il nodo e il senso di tutte
le cose e della vita intera. Un altro aspetto del vangelo paolino si vede nel
suo modo di concepirlo come un “mistero” o “segreto” (mysterion). Paolo parla
del “mistero di Dio” identificandolo con “Gesù crocifisso” (1 Cor 1,17.23). Il
suo vangelo è indicato così perché rivela un piano di salvezza concepito dal
Padre e nascosto in Lui da tutta l’eternità (1 Cor 2,7). Esso è stato ormai
realizzato in Gesù Cristo ed è stato rivelato ai cristiani attraverso gli
apostoli e i santi profeti della nuova economia. Abbraccia la salvezza di tutto
il genere umano, concedendo ai pagani una partecipazione all’eredità di
Israele. Anche la parziale insensibilità di Israele fa parte di questo
“mistero” (Rom 11,25). Nascosto lungamente in Dio, esso è al di là della
comprensione dei mortali e anche delle autorità di questo mondo. Ma ormai è
stato reso noto “al popolo santo di Dio” e anche a Paolo, affinché egli possa
annunciarlo ai Gentili e portare questi a partecipare all’inesauribile
ricchezza del “mistero del Cristo” (Col 4,3). Attraverso il Cristo la salvezza
arriva a tutti gli uomini mediante la loro incorporazione nel suo corpo, che è
la Chiesa, ed egli ne è il capo (Col 1, 26-27; 2,2; Ef 1,9; 3, 4-10). Il
“mistero” paolino è cristocentrico. Come Paolo identifica Cristo con vangelo, chiamandoli
entrambi “potenza di Dio”, così egli identifica Cristo e il mistero, chiamandoli
“la sapienza di Dio” (1 Cor 2,7; 1,24). In realtà questo mistero del vangelo
(Ef 6,19) è uno e il medesimo: Cristo è “il disegno segreto di Dio” (Col 1,27).
Ma presentando il vangelo come “mistero” Paolo afferma implicitamente che esso
non è mai comunicato agli uomini completamente con i mezzi ordinari di comunicazione.
Poiché il vangelo (mistero) è qualcosa di rivelato, lo si apprende solo per la
fede; e anche quando è rivelato, “la sapienza divina” non rivela mai pienamente
se stessa, c’è sempre una zona di oscurità che non si dissipa mai completamente
per gli uomini. La vita successiva dell’Apostolo fu un atto continuo di fedeltà
e di amore a quella luce, il suo pensiero non fece altro che individuare e
approfondire appassionatamente, dando loro formulazione teologica, quei dati
più immediati ed evidenti che la visione di Damasco con forza accecante gli
proponeva. Paolo considera tre stadi dell’esistenza di Cristo: la sua
preesistenza presso il Padre – la sua umiliazione mediante l’incarnazione e la
morte in croce – la sua glorificazione nella Risurrezione. Particolarmente significativo al riguardo è il passo di Fil 2,
5-11. Di questi tre stadi è soprattutto l’ultimo che ama descrivere e
presentare l’Apostolo, fedele anche in ciò alla visione di Damasco che gli
“rivelò” appunto il Cristo glorioso. La sua Risurrezione lo colloca in uno
stato permanente di vita gloriosa e di operazioni salvifiche, che non possono
mai subire alcuna limitazione di tempo, di spazio, di materialità. Con il
Cristo che risorge è la creazione stessa che riceve una investitura di
sacralità e un impulso verso l’alto. Il cristiano soprattutto, in quel “mistero”
di morte e di vita che è simboleggiato e realizzato dal Battesimo, viene assunto
a partecipare alla gloria e alla luce della risurrezione. Egli perciò deve
vivere sempre in un clima di festosa e trasparente mattinata di Pasqua (Rom 6,
8-10; Col3,1-2). Alla luce di queste considerazioni possiamo capire meglio la
pienezza di significato di alcuni brani cristologici di Paolo. Cristo è al
centro di tutto: Egli è “Immagine del Dio
invisibile, primogenito di ogni creatura, poiché in lui furono create tutte le cose:
quelle nei cieli e quelle sulla terra, le cose visibili e quelle invisibili,
siano essi Troni, o Dominazioni, o Principati, Potestà. Tutte le cose sono
state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose
e tutte le cose hanno in lui consistenza” (Col 1, 15-17). Niente ha dunque ha
senso fuori di Cristo, perché tutto è
stato fatto “in vista di lui”, ed Egli dà coesione, intima forza, “consistenza”
a tutte le cose, sia “visibili” che “invisibili”. Se in forza della Creazione, tutto
il creato gli appartiene, molto di più in forza della Redenzione che il creato
è unito a Lui. L’universo intero, infatti, viene segnato dal suo sangue e
diventa, esso pure, la sua grande “Chiesa” (Col 1, 18-20). Questa centralità di
Cristo, in cui tempo ed eternità si congiungono, è anche meglio espressa nel
grandioso inno di benedizione che apre la lettera agli Efesini (1, 3-10). L’uomo, in particolare, in forza della
Redenzione, viene a trovarsi in un rapporto tale col Cristo Risorto da
diventare un suo membro vivo, un suo “consanguineo”, un “figlio adottivo” di
Dio, proprio in forza di questa assimilazione ontologica a Cristo. Inseriti
“innestati” nel “Figlio”, anche noi diventiamo “figli”: anzi è proprio a questo
che già “prima della fondazione del mondo” ci ha “predestinati” l’amore di Dio.
Quest’ultima considerazione già ci fa intravedere un’altra dimensione non meno affascinante
del Cristo, l’aspetto ECCLESIOLOGICO: egli si comunica spiritualmente ai suoi
fedeli e prolunga e dilata in essi la sua vita. In tal modo è come una
misteriosa moltiplicazione che egli fa di se stesso. E’ la dottrina del “Corpo mistico”,
anche questa già enunciata nella risposta del Risorto sulla via di Damasco: “Io
sono il Gesù che tu perseguiti”. C’è dunque identificazione fra il Cristo e i cristiani!
E questa identificazione non nasce da una giustapposizione o compensazione
dell’uno con gli altri, ma da un “completamento” per cui il Cristo non sarebbe
“tutto” senza i cristiani, così come il capo senza il corpo. Cristo è appunto
il “Capo” e i cristiani sono le “membra”. “Capo e “membra” a loro volta formano
il “Corpo”, armonicamente disposto nelle sue funzioni. E si noti che Cristo è
detto “Capo” non tanto nel senso di superiorità, per affermare una sua
posizione egemonica o di comando nella Chiesa, quanto piuttosto in senso “organico”
e “fisiologico”, da rapportarsi alle cognizioni mediche correnti a quel tempo:
dal “capo” infatti deriva in tutto l’organismo il flusso della vita e si dipana
tutta l’articolazione dei centri nervosi. Ora è dal “Capo”, Cristo, che “Tutto
il corpo riceve armonia e compattezza mediante ogni specie di giuntura che
somministra nutrimento secondo l’energia propria a ogni singola parte; è così
che il corpo opera la propria crescita per l’edificazione di se stesso nella
carità (Efes 4,16). La Chiesa è
appunto questo organismo meraviglioso che, ricevendo influsso vitale da Cristo,
si amplifica sempre più, “cresce” in solidità spirituale e anche in quantità numerica.
E questa crescita della Chiesa significa una massa sempre maggiore di umanità e
di realtà terrestri che vengono permeati dalla forza lievitante della grazia: nella
Chiesa perciò è il Cristo, fatto “Spirito vivificante” (1 Cor 15,45), che si completa
e si attua sempre di più. Non a torto dunque l’Apostolo potrà chiamare la Chiesa,
oltre che “Corpo”, anche “pienezza” di Cristo (“tò plèroma”), “che tutte le cose
riempie di ogni bene” (Efes 1,23). In tale prospettiva teologica non è solo la
fede che si illumina e si consolida, ma è la vita di ogni giorno che riceve
alimento e dinamismo. Pensiamo solo ai rapporti verso gli altri: amando il
prossimo, il cristiano ama se stesso e soprattutto ama Cristo che, secondo la
dottrina del “Corpo mistico”, quasi si travasa in ogni redento. Ed è esattamente
a questo principio che l’Apostolo continuamente si rifà per esortare i fedeli a
vivere nella scambievole carità (Rom 12, 4-5. 15-16; 1 Cor 12,27). Né meno
pertinente è l’applicazione di questa dottrina al vizio della impurità: il fornicatore
non offende soltanto se stesso, quanto Cristo, di cui noi tutti siamo le membra
vive (1 Cor 6,15. 19-20). E non solo la vita morale che viene permeata dalla
realtà di questa dottrina teologica del Cristo “totale”, ma la stessa vita
spirituale ne viene strutturata in una duplice maniera:
- primo, nel senso che il cristiano avverte di vivere una
vita non sua, non autonoma, ma la stessa vita del suo Capo, che in lui presente
in maniera organica;
- secondo, nel senso che il cristiano avverte pure che la
sua vita di amore e di grazia deve viverla in sintonia con tutti i fratelli
sparsi per il modo. Parlando della sua esperienza spirituale, l’Apostolo poteva
dire: “Ormai non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). E’
chiaro che questo vale anche come impegno programmatico per ogni cristiano: è
la “fede” intensa, che sempre fiorisce nell’amore, a realizzare questo innesto
di vita soprannaturale che ora agisce misteriosamente nell’interno degli
spiriti, ma che domani sboccerà negli splendori della gloria (Col 3, 2-4). Ma
in questa sua intimità con Cristo, il cristiano non può estraniarsi dai “fratelli”,
ogni cristiano, infatti, è “debitore” verso tutti della grazia e dei doni
ricevuti da Dio. Anche Paolo diceva di essere “debitore verso i Greci e i
barbari, verso i sapienti e gli ignoranti” (Rom 1,14). In un organismo vivente,
ogni membro vive per il concorso di tutti i membri. E’ esattamente questo il
principio che viene ricordato per regolare l’uso dei carismi (1 Cor 12, 4-7).
Il “bene comune” viene realizzato con il concorso di tutti, come un edificio
che si costruisce con il perfetto combaciamento di innumerevoli pietre (Ef
2,19-22). Queste immagini: “familiari di Dio – suo edificio – sua abitazione”
ci dicono come i cristiani devono vivere “ecclesialmente” la loro avventura
terrena, in attesa della gloria (Efes 4, 1-6). Questa unione e fusione di
sentimenti però è soltanto una pallida immagine della perfetta unità che
regnerà nei cieli, quando Dio sarà davvero “tutto in tutti” (1 Cor 15,28) e
Cristo consegnerà al Padre il “regno” (1 Cor 15,24) cos’ faticosamente con quietato
col suo Sangue. Ma questa inaugurazione della perenne, intramontabile “liturgia”
celeste sarà preceduta dal glorioso “ritorno” di Cristo, che verrà a raccogliere
i suoi eletti dai quattro venti, “vivificando” gli stessi corpi nella “risurrezione”
finale: sarà così tutto l’essere dell’uomo, anima e corpo, spirito e sentimenti,
che parteciperà alla felicità senza fine. Inebriato dalla contemplazione di
queste stupende realtà (ESCATOLOGICHE), si capisce come Paolo sogni e quasi
affretti col desiderio il “giorno” della “Parusia” del Signore, pur ignorando
quando di fatto esso verrà: sa solo che verrà “come un ladro di notte” (1 Tess
5,2). Questa “tensione escatologica”, sia individuale che collettiva, permea
tutto l’epistolario paolino e illumina dei suoi riflessi tutta la vita cristiana:
il vero credente è colui che attende con l’animo inondato di gioia il Signore
che attende con l’animo inondato di gioia il Signore che può ritornare da un
momento all’altro, con l’unica preoccupazione di “essere trovato degno” al suo
arrivo. Tutta la sua vita è stata una “corsa” pazza nella stadio del mondo (ha
percorso ben 7800 km a piedi e 9000 in nave con i mezzi di comunicazione di
quei tempi), per “afferrare” il grande trofeo: Cristo Signore. All’infuori di
lui, il resto gli è apparso come “spazzatura”. E Cristo che vive in noi ed è
noi, è per tutti i credenti la “speranza” della gloria (Col 1,27) che mai
tramonterà: Egli che è “lo stesso ieri, oggi e nei secoli futuri” (Ebr 13,8). Questo
il messaggio più luminoso e consolante, che a distanza di quasi duemila anni il
grande Apostolo lancia ancora ai credenti di oggi con l’esempio della sua vita
e la luce delle sue lettere. “protendendosi” in avanti “dimenticando le cose
che ci stanno dietro”, per “guadagnare Cristo”, nel quale soltanto è “vita,
salvezza, speranza” per gli uomini di tutti i tempi.
Tratto da sito di Don Antonio Schena
Tratto da sito di Don Antonio Schena
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