mercoledì 19 marzo 2014

L’APOSTOLO..... PAOLO


Fratelli nell’ultimo periodo vi ho parlato di come noi  pecchiamo , quali sono i nostri peccati, e  per risalire dobbiamo accettarci , amarci e odiare i nostri peccati ,  abbiamo visto quale è il cammino  corretto per arrivare ad essere discepolo e mi sembra doveroso dare uno sguardo  e  uno studio attento a chi come noi non ha conosciuto Gesu’  ma che è diventato  il Discepolo per eccellenza  “ San Paolo”  come noi ispiriamo ad essere.  San Paolo,nacque a Tarso in Cilicia (At 22,3), da genitori  ebrei , sembra avesse una sorellla,  fin dalla nascita, godette dello stato civile di cittadino romano (At 22, 25-29; 16,37; 23,27),   visto che  Tarso era una città romana. vantò di  essere israelita anche perche’  proveniva da una città  famosa come centro di cultura, filosofia ed e educazione.  Sapeva parlare l’aramaico e il greco . L’istruzione di Paolo ai piedi di Gamaliele fa pensare che egli si stesse preparando a diventare un rabbino. Sia l’eredità giudaica della sua famiglia, sia l’ambiente ellenistico di Tarso lasciarono la loro impronta sul giovane Paolo. L’impronta rabbinica farisaica è presente soprattutto nelle lettere polemiche di Paolo, dove egli rifiuta decisamente la legge.  L’ incontro con il Signore risorto  fu l’esperienza che trasformò Paolo da fariseo in apostolo.   La sua conversione,  dopo la Pentecoste, è collegata  al tempo probabilmente al martirio di Stefano quando i testimoni deposero le loro vesti ai piedi di Saulo  affinche’ le custodisse , Paolo ci dà un resoconto in  Gal 1, 13-17 ,in Atti (9, 3-19; 22, 6-16, 26, 12-18), e tutte lo descrivono come un’esperienza fortissima e inattesa, avuta quando egli era al massimo della sua attività di persecutore dei cristiani. Gesù si rivolge  a Paolo “in lingua ebraica” ,  Nei tre resoconti si riscontrino varianti su certi dettagli (i suoi compagni rimasero in piedi ammutoliti o invece caddero per terra; anch’essi sentirono - oppure no - la voce) , tuttavia   i narratori sono concordi, sul descrivere  la loro conversazione:
“Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” –
“Chi sei tu Signore?” –
 “Io sono Gesù (di Nazaret) che tu perseguiti”.
Paolo nel narrare quest’esperienza  parla  di una rivelazione del Figlio concessagli dal Padre (Gal1,16). In essa egli vide “Gesù il Signore” (1 Cor 9,1). La sola differenza tra quella esperienza di Paolo, in cui Gesù gli apparve (1 Cor 15,8) e l’esperienza dei testimoni ufficiali della risurrezione (At 1,22), fu una sola: mentre le apparizioni di Cristo Risorto ai Dodici avvennero dopo la sua morte in croce, la visione di Paolo avvenne, invece, dopo la Pentecoste.  Ma la realtà fu la stessa: la visione di Paolo, infatti, si situò allo stesso livello delle apparizioni ai Dodici, che avevano seduto il Cristo Risorto. Questa visione rese cieco  Saulo e  Anania guarì la sua cecità imponendogli le mani.  Paolo fu battezzato e rimase a Damasco “per alcuni giorni” (At 9,19). Non molto dopo la sua conversione, Paolo si ritirò nella solitudine e nella meditazione dell’Arabia (Gal 1,17), per prepararsi al suo futuro ministero. Il suo soggiorno fu breve. Dopo il suo ritorno dall’Arabia, l’Apostolo si fermò per circa “tre anni” a Damasco (Gal 1,18). Durante il suo soggiorno a Damasco dimostrò loro che Gesù era il Messia, e verso la fine di quel soggiorno, si era già conquistato dei discepoli. Alla fine però, lo  costrinsero  a lasciare la città. La sua fuga fu organizzata dai suoi discepoli che lo calarono giù dalle mura della città in un canestro. Si recò quindi a Gerusalemme, e questa fu la sua prima visita alla città, dopo la sua conversione (At 9,26; Gal 1,18). Ciò avvenne nel 40 circa d.C., Barnaba dissipò la naturale diffidenza dei cristiani di Gerusalemme nei confronti di Paolo e fece di tutto perché venisse accettato bene. Scopo di questa visita è secondo Gal 1,18 quello di“consultare Pietro”. Durante la sua visita Paolo ebbe nel tempio quell’estasi di cui si parla in At 22,17. Una congiura di ellenisti a lui contrari lo costrinse alla fine, abbandonare Gerusalemme ed egli si recò a Tarso (At 9,30). Paolo rimase certamente a Tarso dal 40 al 44, ma non si sa nulla della sua attività in questo periodo. A  quest’epoca molto probabilmente ebbe la visione a cui si riferisce il testo di 2 Cor 12,2-4 (ca. 43-44 d.C.). Il suo soggiorno a Tarso ebbe termine quando Barnaba andò a visitarlo per condurlo ad Antiochia, dove si fermò per un anno intero (At 11, 25-26),impegnato nell’evangelizzazione della città.  Da questa città inizia il suo primo viaggio missionario di (46-49 d.C.), verso la fine del suo itinerario apostolico (49 d.C.) torna a Gerusalemme per il “Concilio”. Il secondo viaggio missionario avvenne dal (49-52 d.C.). Il terzo viaggio dal (54-57 d.C.). L’ultima visita a Gerusalemme coincide col suo arresto (58 d.C.). Dopo la nella Fortezza Antonia, Paolo fu inviato al procuratore della Giudea, Felice, che risiedeva a Cesarea Marittima. Felice lo tenne in prigione per due anni, 58-60 d.C. Paolo allora chiese di essere processato a Roma, e arrivò nella capitale nella primavera del 61 d.C. Per due anni fu tenuto agli arresti domiciliari (61-63). Il suo arrivo a Roma e la possibilità di predicare il vangelo senza alcun impedimento rappresentano il punto culminante del racconto della diffusione della buona novella da Gerusalemme fino alla capitale del mondo civilizzato di quell’epoca, essendo Roma il simbolo dei “confini della terra” (At 1,8). Conscio che il termine della sua vita era prossimo, Paolo pose Tito a capo della Chiesa cretese e Timoteo a capo di quella efesina. Le due lettere sarebbero state scritte a quei discepoli e alle loro Chiese, quando egli stava per affrontare la morte. La 2 Tm fu scritta nel 67 d.C. ,mentre era in prigione Per altri dettagli sugli ultimi anni della vita di Paolo dobbiamo dipendere dalla tradizione ecclesiastica posteriore. Eusebio parla del martirio di Paolo sotto Nerone (64-68 d. C.). Tertulliano fa il confronto tra la morte di Paolo e quello di Giovanni Battista, e cioè, per decapitazione.L’anno comunemente preferito per la morte di Paolo è il 67 d.C. verso il termine della persecuzione di Nerone, come sembra suggerire la narrazione di Eusebio. Paolo fu sepolto sulla via Ostiense, presso l’odierna basilica si San Paolo fuori le mura.
LA TEOLOGIA DI PAOLO: Il concetto chiave attorno al quale deve essere organizzata tutta la teologia paolina è Cristo. La teologia di Paolo è quindi CRISTOCENTRICA.  Ogni tentativo di cercare un principio organizzativo per la sua teologia a prescindere dal Cristo è destinato a rimanere inadeguato. E tutto questo ci riporta ancora alla visione sulla via di Damasco: quel bagliore di luce, che spense per tre giorni la sua capacità visiva, non era che il simbolo dell’accecante splendore che invase e penetrò allora la sua anima. Mentre Paolo perdeva la vista, acquistava occhi nuovi per fissare meglio Cristo. In quel contatto fisico col Risorto, egli afferrò con un rapido colpo d’occhio le verità più essenziali ma anche più sconcertanti che nel Cristo si incentrano. Tutti gli enigmi dell’Antico Testamento (lui era un fariseo osservante) allora diventavano chiari. Se Gesù è risorto da morte, vuol dire che egli è veramente il Figlio di Dio, e se è il Figlio di Dio, e gli è il Santo e il Giusto per eccellenza e perciò non può essere morto per i suoi peccati, ma per quelli degli uomini. Dunque la sua morte ha un valore di salvezza per tutti (l’aspetto SOTERIOLOGICO, di salvezza, è conseguenza di quello cristologico). La salvezza si otterrà perciò non più attraverso le faticose osservanze legali, ma solo accettando “nella fede” la “buona novella di Gesù Cristo”, cioè il suo Vangelo: “Piacque a Dio di salvare i  credenti con la stoltezza della predicazione (kerygma). Sicché mentre i Giudei chiedono i miracoli e i greci cercano sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani; ma per quelli che sono chiamati, sia Giudei che greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1, 21-25).     I Il  vangelo, quindi, non è solo un annuncio dell’evento redentivo della morte e risurrezione del Cristo, ma è esso stesso una forza che lo comunica a tutti gli uomini, giudei o greci (l’annuncio ha validità universale: Rom 1,16). In un certo senso, è esso stesso un evento redentivo  ogni qualvolta rivolge il suo appello agli uomini. Sorprendentemente, Paolo lo chiama “la potenza di Dio”, proprio come ha chiamato il Cristo stesso (1 Cor 1,24). Ecco perché “predicare Cristo crocifisso” è “predicare il vangelo”. Sia il Cristo che il vangelo portano agli uomini il dono salvifico del Padre. Il vangelo è il mezzo che il Padre ha per rivolgersi agli uomini, sollecitando da loro le risposte della fede e dell’amore. Perciò esso è il “vangelo di Dio” (1 Tess2,2.8.9; 2 Cor 11,7; Rom 1,1;15,16), ma anche il suo “dono”, la sua “grazia” (2 Cor 9, 14-15). Così Paolo può scrivere ai Tessalonicesi che il suo “vangelo non fu predicato solo a parole, ma con potenza, con Spirito santo e con piena convinzione” (1 Tess 1,5; 1 Cor 4,20). Infatti, in quanto “potenza di Dio” il vangelo non è annunciato senza l’assistenza dello Spirito di Dio. In realtà, attraverso questo “vangelo di salvezza” i credenti sono sigillati con lo Spirito Santo della promessa, “caparra della nostra eredità” (Ef 1,13). Attraverso di esso gli uomini sono già salvi (1 Cor 15,2). Pertanto la distinzione tra Ebrei e pagani non ha più alcun senso. Tutto questo demoliva in un istante il suo vecchio mondo spirituale e gli scopriva altre realtà più belle: Cristo, Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto, è dunque il nodo e il senso di tutte le cose e della vita intera. Un altro aspetto del vangelo paolino si vede nel suo modo di concepirlo come un “mistero” o “segreto” (mysterion). Paolo parla del “mistero di Dio” identificandolo con “Gesù crocifisso” (1 Cor 1,17.23). Il suo vangelo è indicato così perché rivela un piano di salvezza concepito dal Padre e nascosto in Lui da tutta l’eternità (1 Cor 2,7). Esso è stato ormai realizzato in Gesù Cristo ed è stato rivelato ai cristiani attraverso gli apostoli e i santi profeti della nuova economia. Abbraccia la salvezza di tutto il genere umano, concedendo ai pagani una partecipazione all’eredità di Israele. Anche la parziale insensibilità di Israele fa parte di questo “mistero” (Rom 11,25). Nascosto lungamente in Dio, esso è al di là della comprensione dei mortali e anche delle autorità di questo mondo. Ma ormai è stato reso noto “al popolo santo di Dio” e anche a Paolo, affinché egli possa annunciarlo ai Gentili e portare questi a partecipare all’inesauribile ricchezza del “mistero del Cristo” (Col 4,3). Attraverso il Cristo la salvezza arriva a tutti gli uomini mediante la loro incorporazione nel suo corpo, che è la Chiesa, ed egli ne è il capo (Col 1, 26-27; 2,2; Ef 1,9; 3, 4-10). Il “mistero” paolino è cristocentrico. Come Paolo identifica Cristo con vangelo, chiamandoli entrambi “potenza di Dio”, così egli identifica Cristo e il mistero, chiamandoli “la sapienza di Dio” (1 Cor 2,7; 1,24). In realtà questo mistero del vangelo (Ef 6,19) è uno e il medesimo: Cristo è “il disegno segreto di Dio” (Col 1,27). Ma presentando il vangelo come “mistero” Paolo afferma implicitamente che esso non è mai comunicato agli uomini completamente con i mezzi ordinari di comunicazione. Poiché il vangelo (mistero) è qualcosa di rivelato, lo si apprende solo per la fede; e anche quando è rivelato, “la sapienza divina” non rivela mai pienamente se stessa, c’è sempre una zona di oscurità che non si dissipa mai completamente per gli uomini. La vita successiva dell’Apostolo fu un atto continuo di fedeltà e di amore a quella luce, il suo pensiero non fece altro che individuare e approfondire appassionatamente, dando loro formulazione teologica, quei dati più immediati ed evidenti che la visione di Damasco con forza accecante gli proponeva. Paolo considera tre stadi dell’esistenza di Cristo: la sua preesistenza presso il Padre – la sua umiliazione mediante l’incarnazione e la morte in croce – la sua glorificazione nella Risurrezione. Particolarmente  significativo al riguardo è il passo di Fil 2, 5-11. Di questi tre stadi è soprattutto l’ultimo che ama descrivere e presentare l’Apostolo, fedele anche in ciò alla visione di Damasco che gli “rivelò” appunto il Cristo glorioso. La sua Risurrezione lo colloca in uno stato permanente di vita gloriosa e di operazioni salvifiche, che non possono mai subire alcuna limitazione di tempo, di spazio, di materialità. Con il Cristo che risorge è la creazione stessa che riceve una investitura di sacralità e un impulso verso l’alto. Il cristiano soprattutto, in quel “mistero” di morte e di vita che è simboleggiato e realizzato dal Battesimo, viene assunto a partecipare alla gloria e alla luce della risurrezione. Egli perciò deve vivere sempre in un clima di festosa e trasparente mattinata di Pasqua (Rom 6, 8-10; Col3,1-2). Alla luce di queste considerazioni possiamo capire meglio la pienezza di significato di alcuni brani cristologici di Paolo. Cristo è al centro di tutto: Egli è  “Immagine del Dio invisibile, primogenito di ogni creatura, poiché in lui furono create tutte le cose: quelle nei cieli e quelle sulla terra, le cose visibili e quelle invisibili, siano essi Troni, o Dominazioni, o Principati, Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte le cose hanno in lui consistenza” (Col 1, 15-17). Niente ha dunque ha senso fuori di Cristo, perché tutto  è stato fatto “in vista di lui”, ed Egli dà coesione, intima forza, “consistenza” a tutte le cose, sia “visibili” che “invisibili”. Se in forza della Creazione,   tutto il creato gli appartiene, molto di più in forza della Redenzione che il creato è unito a Lui. L’universo intero, infatti, viene segnato dal suo sangue e diventa, esso pure, la sua grande “Chiesa” (Col 1, 18-20). Questa centralità di Cristo, in cui tempo ed eternità si congiungono, è anche meglio espressa nel grandioso inno di benedizione che apre la lettera agli Efesini (1, 3-10).  L’uomo, in particolare, in forza della Redenzione, viene a trovarsi in un rapporto tale col Cristo Risorto da diventare un suo membro vivo, un suo “consanguineo”, un “figlio adottivo” di Dio, proprio in forza di questa assimilazione ontologica a Cristo. Inseriti “innestati” nel “Figlio”, anche noi diventiamo “figli”: anzi è proprio a questo che già “prima della fondazione del mondo” ci ha “predestinati” l’amore di Dio. Quest’ultima considerazione già ci fa intravedere un’altra dimensione non meno affascinante del Cristo, l’aspetto ECCLESIOLOGICO: egli si comunica spiritualmente ai suoi fedeli e prolunga e dilata in essi la sua vita. In tal modo è come una misteriosa moltiplicazione che egli fa di se stesso. E’ la dottrina del “Corpo mistico”, anche questa già enunciata nella risposta del Risorto sulla via di Damasco: “Io sono il Gesù che tu perseguiti”. C’è dunque identificazione fra il Cristo e i cristiani! E questa identificazione non nasce da una giustapposizione o compensazione dell’uno con gli altri, ma da un “completamento” per cui il Cristo non sarebbe “tutto” senza i cristiani, così come il capo senza il corpo. Cristo è appunto il “Capo” e i cristiani sono le “membra”. “Capo e “membra” a loro volta formano il “Corpo”, armonicamente disposto nelle sue funzioni. E si noti che Cristo è detto “Capo” non tanto nel senso di superiorità, per affermare una sua posizione egemonica o di comando nella Chiesa, quanto piuttosto in senso “organico” e “fisiologico”, da rapportarsi alle cognizioni mediche correnti a quel tempo: dal “capo” infatti deriva in tutto l’organismo il flusso della vita e si dipana tutta l’articolazione dei centri nervosi. Ora è dal “Capo”, Cristo, che “Tutto il corpo riceve armonia e compattezza mediante ogni specie di giuntura che somministra nutrimento secondo l’energia propria a ogni singola parte; è così che il corpo opera la propria crescita per l’edificazione di se stesso nella carità (Efes 4,16).        La Chiesa è appunto questo organismo meraviglioso che, ricevendo influsso vitale da Cristo, si amplifica sempre più, “cresce” in solidità spirituale e anche in quantità numerica. E questa crescita della Chiesa significa una massa sempre maggiore di umanità e di realtà terrestri che vengono permeati dalla forza lievitante della grazia: nella Chiesa perciò è il Cristo, fatto “Spirito vivificante” (1 Cor 15,45), che si completa e si attua sempre di più. Non a torto dunque l’Apostolo potrà chiamare la Chiesa, oltre che “Corpo”, anche “pienezza” di Cristo (“tò plèroma”), “che tutte le cose riempie di ogni bene” (Efes 1,23). In tale prospettiva teologica non è solo la fede che si illumina e si consolida, ma è la vita di ogni giorno che riceve alimento e dinamismo. Pensiamo solo ai rapporti verso gli altri: amando il prossimo, il cristiano ama se stesso e soprattutto ama Cristo che, secondo la dottrina del “Corpo mistico”, quasi si travasa in ogni redento. Ed è esattamente a questo principio che l’Apostolo continuamente si rifà per esortare i fedeli a vivere nella scambievole carità (Rom 12, 4-5. 15-16; 1 Cor 12,27). Né meno pertinente è l’applicazione di questa dottrina al vizio della impurità: il fornicatore non offende soltanto se stesso, quanto Cristo, di cui noi tutti siamo le membra vive (1 Cor 6,15. 19-20). E non solo la vita morale che viene permeata dalla realtà di questa dottrina teologica del Cristo “totale”, ma la stessa vita spirituale ne viene strutturata in una duplice maniera:
- primo, nel senso che il cristiano avverte di vivere una vita non sua, non autonoma, ma la stessa vita del suo Capo, che in lui presente in maniera organica;

- secondo, nel senso che il cristiano avverte pure che la sua vita di amore e di grazia deve viverla in sintonia con tutti i fratelli sparsi per il modo. Parlando della sua esperienza spirituale, l’Apostolo poteva dire: “Ormai non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). E’ chiaro che questo vale anche come impegno programmatico per ogni cristiano: è la “fede” intensa, che sempre fiorisce nell’amore, a realizzare questo innesto di vita soprannaturale che ora agisce misteriosamente nell’interno degli spiriti, ma che domani sboccerà negli splendori della gloria (Col 3, 2-4). Ma in questa sua intimità con Cristo, il cristiano non può estraniarsi dai “fratelli”, ogni cristiano, infatti, è “debitore” verso tutti della grazia e dei doni ricevuti da Dio. Anche Paolo diceva di essere “debitore verso i Greci e i barbari, verso i sapienti e gli ignoranti” (Rom 1,14). In un organismo vivente, ogni membro vive per il concorso di tutti i membri. E’ esattamente questo il principio che viene ricordato per regolare l’uso dei carismi (1 Cor 12, 4-7). Il “bene comune” viene realizzato con il concorso di tutti, come un edificio che si costruisce con il perfetto combaciamento di innumerevoli pietre (Ef 2,19-22). Queste immagini: “familiari di Dio – suo edificio – sua abitazione” ci dicono come i cristiani devono vivere “ecclesialmente” la loro avventura terrena, in attesa della gloria (Efes 4, 1-6). Questa unione e fusione di sentimenti però è soltanto una pallida immagine della perfetta unità che regnerà nei cieli, quando Dio sarà davvero “tutto in tutti” (1 Cor 15,28) e Cristo consegnerà al Padre il “regno” (1 Cor 15,24) cos’ faticosamente con quietato col suo Sangue. Ma questa inaugurazione della perenne, intramontabile “liturgia” celeste sarà preceduta dal glorioso “ritorno” di Cristo, che verrà a raccogliere i suoi eletti dai quattro venti, “vivificando” gli stessi corpi nella “risurrezione” finale: sarà così tutto l’essere dell’uomo, anima e corpo, spirito e sentimenti, che parteciperà alla felicità senza fine. Inebriato dalla contemplazione di queste stupende realtà (ESCATOLOGICHE), si capisce come Paolo sogni e quasi affretti col desiderio il “giorno” della “Parusia” del Signore, pur ignorando quando di fatto esso verrà: sa solo che verrà “come un ladro di notte” (1 Tess 5,2). Questa “tensione escatologica”, sia individuale che collettiva, permea tutto l’epistolario paolino e illumina dei suoi riflessi tutta la vita cristiana: il vero credente è colui che attende con l’animo inondato di gioia il Signore che attende con l’animo inondato di gioia il Signore che può ritornare da un momento all’altro, con l’unica preoccupazione di “essere trovato degno” al suo arrivo. Tutta la sua vita è stata una “corsa” pazza nella stadio del mondo (ha percorso ben 7800 km a piedi e 9000 in nave con i mezzi di comunicazione di quei tempi), per “afferrare” il grande trofeo: Cristo Signore. All’infuori di lui, il resto gli è apparso come “spazzatura”. E Cristo che vive in noi ed è noi, è per tutti i credenti la “speranza” della gloria (Col 1,27) che mai tramonterà: Egli che è “lo stesso ieri, oggi e nei secoli futuri” (Ebr 13,8). Questo il messaggio più luminoso e consolante, che a distanza di quasi duemila anni il grande Apostolo lancia ancora ai credenti di oggi con l’esempio della sua vita e la luce delle sue lettere. “protendendosi” in avanti “dimenticando le cose che ci stanno dietro”, per “guadagnare Cristo”, nel quale soltanto è “vita, salvezza, speranza” per gli uomini di tutti i tempi.
Tratto da sito di Don Antonio Schena

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