Sono trascorsi più di due mesi da quando è
iniziato il lock down. È stato un tempo di dolore, di sofferenza per tutti ma
un tempo abitato dall’amore di Dio attraverso i social , la televisione ,
finalmente adesso possiamo uscire ,
siamo alla seconda fase, è il tempo di imparare a convivere con questo male fin
quando i virologi attraverso un raggio di luce dall’alto non trovino per noi
una soluzione volta a salvare tutto il mondo da questa Pandemia.
È necessario pregare tanto e bene per
tutto il mondo racchiuso in questo dolore, che davvero lo Spirito consolatore
possa asciugare, consolare e riscaldare le lacrime di tutti e di ciascuno.
Nel mondo antico
piangere non significava dimostrarsi deboli, il pianto era una manifestazione
profonda dei propri sentimenti di dolore, frustrazione, nostalgia. Secondo la
mitologia dell’antico Egitto, l’umanità sarebbe scaturita dalle lacrime del dio
Ra. Le lacrime sgorgano dal cuore, si pensava, e per gli antichi il cuore era
la sede dell’intelligenza, delle emozioni, dei sentimenti e dei pensieri. Le Lacrime le troviamo nell’Epopea di
Gigalmesh e così nel mondo omerico, dove il loro valore è testimoniato da
episodi numerosi, sia nell’Iliade che nell’Odissea. Le lacrime di Achille, di
Agamennone, di Ettore, di Diomede, Patroclo, Ulisse esprimono molteplici
sentimenti che non sono dominati dalla debolezza, mai il contrario, esprimono
piena accettazione della propria umanità e quindi irrompono in quella sfera che
rende eroico l’uomo: vivere nonostante la propria finitezza. Piangere riveste
una dimensione tipicamente umana e inesorabile, quella della sofferenza, che
non risparmia nessuno. “Prova pena e tormento per prima cosa”: così, nel Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia (39-42), Giacomo Leopardi descrive il
primo vagito del neonato. Nella prima infanzia si comunica ogni bisogno
attraverso il pianto, che solo più tardi si tradurrà in parola.
Entriamo nel mondo piangendo e tra le
doglie di dolore della nostra mamma e piangendo e/o facendo piangere lasciamo
questo mondo per raggiungere la vita eterna. Molto spesso le lacrime di dolore
si confondono con quelle di commozione e di gioia.
Le lacrime
Le lacrime ricorrono
costantemente nella Bibbia, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, investendo una
gamma di sentimenti talmente ampia da risultare inimitabile nelle altre fonti.
Il pianto investe uomini e donne di ogni condizione. Sono lacrime di pentimento,
di supplica, sofferenza, purificazione, di consolazione, di angoscia ma anche
di condanna, quando Gesù allude al destino riservato ai dannati che andranno là
dove vi sarà “pianto e stridore di denti” (Mt 13,42). Le lacrime sono al centro
del libro delle Lamentazioni. Nei Salmi, in particolare, le lacrime sono
effetto del pentimento o della consolazione, Sono
un linguaggio, una voce molto presente, soprattutto nei Salmi appaiono il segno
della condizione del giusto che soffre, che «non ha altro pane che lacrime di
giorno e di notte» (cfr. Sal 42,4), che «ogni notte piange sul suo letto,
bagnando di lacrime il suo giaciglio» (cfr. Sal 6,7). Ed egli, nella sua
afflizione, è visto e consolato da Dio, dal «Signore che ascolta i suoi
singhiozzi» (cfr. Sal 6,9), che «non resta sordo al suo pianto» (cfr. Sal
39,13). Dio raccoglie le lacrime di ciascuno in un
otre e non ne perde neppure una (56,9).La “via delle lacrime”, conduce al
mistero di Dio e quindi alla salvezza. Ce lo ricorda per prima Rachele: sposa di Giacobbe e madre di Giuseppe e Beniamino, colei
che, come ci racconta il Libro della Genesi, muore nel dare alla luce il suo
secondogenito, cioè Beniamino.
Il profeta Geremia fa
riferimento a Rachele rivolgendosi agli Israeliti in esilio per consolarli, con
parole piene di emozione e di poesia; cioè prende il pianto di Rachele ma dà
speranza: “Così dice il Signore: «Una voce si ode a Rama, un lamento e un
pianto amaro: Rachele piange i suoi figlie non vuole essere consolata per i
suoi figli, perché non sono più» (Ger 31,15).
In questi versetti,
Geremia presenta questa donna del suo popolo, la grande matriarca della sua
tribù, in una realtà di dolore e pianto, ma insieme con una prospettiva di vita
impensata. Rachele, aveva assunto quella morte perché il figlio potesse vivere,
ora invece, rappresentata dal profeta come viva a Rama, lì dove si radunavano i
deportati, piange per i figli che in un certo senso sono morti andando in
esilio; figli che, come lei stessa dice, “non sono più”, sono scomparsi per
sempre. E per questo Rachele non vuole essere consolata. Questo rifiuto esprime
la profondità del suo dolore e l’amarezza del suo pianto. Davanti alla tragedia
della perdita dei figli, una madre non può accettare parole o gesti di
consolazione, che sono sempre inadeguati, mai capaci di lenire il dolore di una
ferita che non può e non vuole essere rimarginata. Un dolore proporzionale
all’amore. Questo rifiuto di Rachele che non vuole essere consolata ci insegna
anche quanta delicatezza ci viene chiesta davanti al dolore altrui. Per parlare
di speranza a chi è disperato, bisogna condividere la sua disperazione; per
asciugare una lacrima dal volto di chi soffre, bisogna unire al suo il nostro
pianto. Solo così le nostre parole possono essere realmente capaci di dare un
po’ di speranza, altrimenti meglio il silenzio; la carezza, il gesto e niente
parole.
Ogni madre sa tutto
questo; e sono tante, anche oggi, le madri che piangono, che non si rassegnano
alla perdita di un figlio, inconsolabili davanti a una morte impossibile da
accettare. Rachele racchiude in sé il dolore di tutte le madri del mondo, di
ogni tempo, e le lacrime di ogni essere umano che piange perdite irreparabili, ma Le lacrime hanno generato
speranza. E questo non è facile da capire, ma è vero. Tante volte, nella nostra
vita, le lacrime seminano speranza, I figli di Rachele sono i figli di Dio stesso: entrambi si
rifiutano di rassegnarsi alla loro scomparsa in paese nemico. Il pianto di
Rachele assume un carattere riparatorio e finisce per essere ascoltato da Dio
che le fa una promessa consolatrice: "Dice il Signore: ‘Trattieni
la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso
per le tue pene; essi torneranno dal paese nemico. C’è
una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno
entro i loro confini’ " (Ger 31, 16-17).
Il testo di Geremia è
poi ripreso dall’evangelista Matteo e applicato alla strage degli innocenti
(cfr 2,16-18). Un testo che ci mette di fronte alla tragedia dell’uccisione di
esseri umani indifesi, all’orrore del potere che disprezza e sopprime la vita.
I bambini di Betlemme morirono a causa di Gesù. Il pianto non risparmia Dio che piange sul male che regna nel
mondo senza rassegnarvisi. Esse svelano una verità umana decisiva: la presenza
dell’infinito nel finito", perciò sono una breccia e insieme una grazia.
E Lui, Agnello innocente,
sarebbe poi morto, a sua volta, per tutti noi.
Le lacrime di Giacobbe,
quelle di Esaù, di Lia o ancora di Giuseppe, per esempio, poi quelle dei
Profeti, soprattutto d’Isaia e di Geremia, ma anche quelle del Salmista,
incitano così a riflettere sulle diverse emozioni che esse significano.
Mentre il silenzio si
consuma nella solitudine, piangere è sempre rivolgersi a qualcuno, sia pure
assente o sconosciuto. Le lacrime vegliano su questa destinazione, interpellano
una relazione, sperano una visita. Non esiste
una risposta chiara al perché della sofferenza, l’unica ragione la troviamo
nella liberta’ che Dio ci ha dato nel farci scegliere il bene o il male.
E’ possibile però trovarne un senso vedendo la
vita di Gesù abbiamo già accennato di Gesu’ che piange col cuore spezzato nel
vedere Gerusalemme perché vede i peccati passati, presenti e futuri ( LC 19, 41-42)
Dio, nostro Padre amorevole, si intristisce quando vede che ci stiamo
allontanando da Lui. Molte spesso, però, abbandoniamo il Suo amore e seguiamo
le nostre strade. I nostri peccati fanno piangere Gesù, ma per fortuna le Sue
braccia sono sempre aperte per accoglierci quando torniamo da Lui. Cosi come
nel figliol prodigo
-
Giovanni 11, 32-36 ci narra Gesù piange dopo aver saputo che un suo caro amico,
Lazzaro, è morto. Nell’episodio
di Lazzaro Gesù versa lacrime in un pianto silenzioso, espresso dal verbo
κλαίω, mentre il pianto su Gerusalemme è reso con il verbo δακρύω, piangere in
modo sonoro, udibile. Gesù vuole farsi sentire da tutti coloro gli stanno
attorno: che sappiano, che si ravvedano. La radice dello stesso verbo usato per
il pianto per Gerusalemme si trova nella parola che esprime i lamenti
angosciosi nel Getsemani. Gli episodi sembrano voler indicare le tre dimensioni
dell’uomo, che sono quella dell’io-tu (Gesù-Lazzaro), dell’io-mondo/umanità
intera (Gesù-Gerusalemme) e infine dell'io solo di fronte a se stesso e a Dio
(Getsemani). In questa prospettiva il significato delle lacrime si rafforza,
diventa ancora più potente.
Considerando il contesto
dell’Antico Testamento e della tradizione ebraica, che permetteva ed esigeva il
pianto funebre purché non parossistico, ed insieme tenendo conto del freno
posto da Gesù alle lacrime sui defunti e su se stesso, possiamo dedurre che
Maria sotto la Croce si trovava in una posizione paradossale.
Doveva piangere secondo
l’uso ebraico e in forza della pressione naturale del sentimento materno,
eppure doveva tener conto del monito del Figlio alle donne, con le quali si
trovava verosimilmente anche lei sulla via del Calvario: "Non
piangete su di me…" (Lc 23, 28).
La
Lettera agli Ebrei 5,7 conferma che le lacrime di Gesu’ sono state accompagnate
da una veemente supplica a Dio. Ovviamente non c’è bisogno di piangere perché
il Signore ci ascolti, ma in questo passo è evidente che Egli è sensibile ai
nostri “cuori pentiti. Egli vuole che le nostre preghiere siano un’espressione
di ciò che siamo dentro, non a livello superficiale. Il cuore deve quindi
abbracciare tutto il nostro essere e nutrirsi delle nostre emozioni,
permettendo a Dio di penetrare in tutti gli aspetti della nostra vita.
L’esempio di Cristo,
sempre normativo per il cristiano, ci
dice che ciò che conferisce senso alla nostra vita – e può donarci, nonostante
tutto e seppure a caro prezzo, la felicità – non sono le sofferenze in sé, ma
l’amore che ci impegniamo a donare e accettiamo di ricevere anche quando le
sofferenze «si abbattono come onde su di noi e sembrano sommergerci». E’
questa, sottolinea Bianchi, la vera sfida, questa è «la via cristiana, che può
però essere sentita come possibilità ragionevole, significativa e umanizzante
anche da parte di chi non è credente»..
Nessuno può risolvere il problema della sofferenza né c’è alcuna risposta certa
al perché della sofferenza, ma le vie di consolazione sono percorribili, con
gli altri e comunque con Dio, il Consolatore. Detto altrimenti, non c’è
risposta alla sofferenza, al pianto, ma ci può essere risposta agli uomini e
alle donne che soffrono e piangono: una risposta che può venire
dagli altri, cioè da noi, e da Dio.
Dio è colui che grida a noi: «Consolate, consolate il mio popolo [. .. ]
parlate al suo cuore» (Is 40,1-2; cfr. Os 2,16); è colui che manda il suo Servo
a «consolare tutti gli afflitti» (Is 61,2), testo che probabilmente ha ispirato
la beatitudine matteana; è colui che invia il Consolatore perché porti
consolazione e gioia. Sì, a tutti gli uomini che piangono, nella loro
sofferenza Dio promette: «Io vi consolerò» (Is 66,13). Poi li rassicura: «Io
cambierò il vostro lutto in gioia, vi consolerò e vi renderò felici, senza
afflizioni» (cfr. Ger 31,13). Ovvero: «La vostra sofferenza sarà da me
trasfigurata, non andrà perduta»! tuttavia «ci può essere risposta agli uomini
e alle donne che soffrono e piangono» e che – come afferma un passo
straordinario del libro del Qoelet – il nostro compito non è tanto, o soltanto,
quello di interrogarci sul perché delle lacrime, ma soprattutto quello di adoperarci
affinché non esistano più «lacrime da nessuno consolate».
La seconda beatitudine è
rivolta agli afflitti, a coloro che piangono: «Beati coloro che piangono, perché
saranno consolati» (Mt 5,4). Questa beatitudine si apre a un orizzonte
universale, quello di tutta l’umanità, perché in ogni tempo e in ogni terra ci
sono stati, ci sono e ci saranno uomini e donne che piangono. Proprio tale
ampiezza di orizzonti spaventa e interroga i commentatori, che notano in questa
parola di Gesù la mancanza di una portata religiosa, spirituale,.
Ma la domanda resta: da dove verrà la beatitudine per coloro che piangono? Gesù ci ha rivelato che nel giudizio quelli che non
hanno conosciuto il pianto, e anzi hanno riso e mai si sono
accorti delle lacrime del prossimo, questi piangeranno. Ecco
perché in Luca la beatitudine: «Beati voi, che ora piangete, perché riderete»
(Lc 6,21), è seguita dall’avvertimento: «Guai a voi, che ora ridete, perché
sarete nel dolore e piangerete» (Lc 6,25). D’altra parte la beatitudine
riservata a coloro che piangono non ha una possibilità di realizzazione solo
nel giorno del giudizio, ma già qui e ora: già nei loro giorni, sulla terra,
quelli che piangono possono conoscere una consolazione che viene dallo Spirito Santo,
il Paraclito, il Consolatore (cfr. Gv 14,16.26; 15,26; 16,7), che nell’angoscia
è accanto a loro (cfr. Sal 91,15) e dona loro forza e gioia da parte di Dio.
nella sofferenza siamo
tentati di diventare più attenti a noi stessi, più egoisti, siamo tentati di
cercare una salvezza senza gli altri e magari a scapito degli altri. La
sofferenza a volte abbruttisce, rende aggressivi e ci fa assumere comportamenti
che, nella loro violenza, ci erano estranei in passato. La sofferenza è una
prova terribile, che nessuno di noi può sfuggire. Prima o dopo,
e con diversa intensità, noi soffriamo :: soffriamo quando
siamo separati dalla madre con il taglio del cordone ombelicale; soffriamo
quando dobbiamo lasciare padre, madre e terra e, più in generale, quando
dobbiamo lasciare qualcosa che ha rappresentato un valore positivo nella nostra
vita; soffriamo quando dobbiamo rinunciare ai sogni di felicità, quando
perdiamo la salute, quando perdiamo chi amiamo; soffriamo quando invecchiamo e
ci sfuggono le forze e il tempo; soffriamo quando la morte si avvicina e
dobbiamo rinunciare a vivere. Sono tutte sofferenze necessarie, senza le quali
non si cammina nella vita, sono sofferenze che dobbiamo attraversare e
che provocano afflizione, pianto...
Le sofferenze di per sé non sono utili né salvifiche, non sono
automaticamente una forma di purificazione, un mezzo per diventare più
buoni. Credo
però che in esse e attraverso di esse si giochi sempre la salvezza della nostra
vita, la ricerca di senso: in particolare, quando le sofferenze
si abbattono come onde su di noi e sembrano sommergerci, proprio
allora ci è chiesto di impegnarci ad amare e ad accettare di essere amati.
(...)
Insomma, siamo chiamati a fare della sofferenza una via di comunione: questa è
la sfida, questa è la via cristiana, che può però essere sentita come possibilità
ragionevole, significativa e umanizzante anche da parte di chi non è credente.
nella sofferenza affiorano, fino a imporsi, le domande essenziali per l’uomo:
«Da dove vengo? Dove vado? Chi sono io? Chi sono gli altri per me?», perché –
come dice il Salmo – «l’uomo nel benessere non comprende» (Sal 49,21), è
tentato di non discernere. Quanto alla
consolazione possibile a opera di noi uomini, è esemplare
l’atteggiamento di Gesù: nei suoi molti incontri con i sofferenti
egli non ha mai predicato rassegnazione, non ha mai mostrato atteggiamenti
fatalistici o doloristici, non ha mai chiesto di offrire la sofferenza a Dio,
non ha mai detto che più uno soffre, più uno è vicino a Dio. Gesù sapeva
bene che è l’amore, non la sofferenza, che salva! Per
questo si è preso cura dell’umanità sofferente, di chi vedeva piangere,
rinnovando una volta di più la sua offerta di amore. Ecco qual è l’opera di
consolazione richiesta anche a ciascuno di noi, per quanto ci è possibile: adoperarci
affinché non esistano più «lacrime da nessuno consolate» (cfr.
Qo 4,1).
Questa duplice opera di consolazione mi pare mirabilmente riassunta in un passo
della Seconda lettera di Paolo ai Corinzi: «Sia benedetto Dio, Padre del
Signore nostro Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni
consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo
anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la
consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio» (2Cor 1,3-4).
Pietro
piange per essersi accorto di aver tradito Gesù, di essere venuto meno alla
fiducia che gli era stato accordato. Ed è un pianto amaro, un pianto pesante,
che lo prostra nella sofferenza. Ma quelle lacrime purificano la sua coscienza,
il suo cuore immerso nella notte del peccato. Quel pianto lo lava dalle colpe.
Per piangere Pietro dovette uscire fuori, si appartò. Quello di Pietro non è un
pianto plateale, da teatro. Quel pianto in solitudine e lontano dagli altri gli
permette di vivere ancora più intensamente il suo rapporto con il Signore. Il
pianto dell’Apostolo fuori e lontano dagli altri è una preghiera. Piangendo,
Pietro prega. Come la preghiera di Davide, quando anche lui, dopo averla fatta
grossa, pianse e pregò: “Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande
bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio
peccato. Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro
di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho
fatto” (Salmo 50)
Papa
Francesco in una delle sue omelie ci chiede ” Il pianto è nelle nostre
preghiere?”
Maria Maddalena piange
quando lava i piedi di Gesù con le sue lacrime e piange Pietro quando al cantar
del gallo realizza il suo tradimento. Le lacrime più preziose sono certamente
quelle della Vergine: quelle di una madre per il Figlio e per ciascuno dei suoi
figli.
Da una parte si vedeva
inclusa nella profezia di Zaccaria, che Giovanni applicherà a Cristo crocifisso
[cfr. Gv 19, 37], la quale prevedeva ed autorizzava un pianto universale
su di lui, a cominciare dalla madre che prorompe in lacrime per la morte
violenta del suo primogenito: "Guarderanno a colui che hanno
trafitto. Ne faranno il lutto come si fa lutto per un
figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito" (Zac
12, 10).
E dall’altra parte Maria
si sente spinta dalle parole del Figlio a dirottare l’oggetto delle
sue lacrime da Gesù innocente al mondo peccatore, in particolare a Gerusalemme
ingrata e chiusa alla visita divina su cui Gesù stesso aveva pianto [cfr.
Lc 19, 4].
Il piangere di Maria evita
l’esagerazione e il difetto, e si risolve in un pianto sommesso e allargato
alle dimensioni del mondo. Ella piange il suo primogenito secondo l’uso
ebraico, evitando il parossismo, ma esterna con le lacrime il suo dolore di
madre colpita nel più caro degli affetti.
Maria piange per un
comprensibile sfogo della natura, ma si eleva al piano salvifico seguendo Gesù
nell’orientare il pianto verso il peccato, causa della rovina dell’uomo ma di
cui egli si è caricato per espiarlo. Ella si unisce al suo Unigenito offrendo
le sofferenze per la redenzione del mondo.
Generalmente, la Chiesa
attribuisce a Maria una sofferenza profonda, esternata in un pianto sommesso. è
la linea seguita dallo Stabat Mater, in cui l’interiore patire
della Vergine "si ravviva e si umanizza in un contemplare velato di
lacrime". Il pianto di Maria non è disperato, non solo perché sa che il
Figlio muore per la salvezza degli uomini, ma pure perché crede nella promessa
della risurrezione. Maria diviene così il modello del pianto cristiano, un
paradigma particolarmente efficace per cristianizzare il cordoglio funebre. Da
San Giovanni Crisostomo a San Luca di Bova ritorna la polemica contro il perdurare
del costume pagano del cordoglio funebre. Più che prediche e canoni occorreva
un modello con funzione trasfiguratrice del lamento rituale.
Il grande strumento
pedagogico del nuovo ethos cristiano di fronte alla morte fu
la figura della Mater dolorosa, così integralmente umana nel suo
dolore per il Figlio morto, e tuttavia così interiore e raccolta nel suo
silenzioso "stare" velato di lacrime davanti alla Croce.
Nel brano dell’agire del samaritano nel Vangelo, ma in modo particolare
l’ultima parte. Il giorno seguente,
estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò
che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.
Sappiamo che il prossimo più prossimo per noi sposi è la persona che
abbiamo accanto. Prima ancora dei figli stessi. Queste parole di Gesù sono una
potenza.. Quando l’altro/a non può pagare, non ne è capace, non è pronto, non è
in grado di farsi dono dobbiamo pagare noi per lui/ lei . Questo è la forza e
lo scandalo dell’amore. Scandalo perchè risulta indigesto e ingiusto, non è
facile da accettare e digerire. Forza perchè chi riesce ad amare in questo modo
diventa davvero luce per il mondo. Questo vale per le piccole divisioni come
per le grandi. C’è chi, però, è stato chiamato a pagare davvero tanto. Chi abbandonato
continua ad offrire la sua vita nella fedeltà ad una persona che,
oggettivamente, non merita un dono tanto grande. Eppure, per la Grazia di
Cristo, lo fa, per le ferite e l’egoismo dell’altro che causano dolore a tutti..
Tutti volti di uno stesso amore grande. Tutti volti che si somigliano.
Somigliano a quel volto del crocefisso, al volto di chi ha dato la vita per gli
altri. Per questo sono bellissimi.
Stanno pagando non solo per loro, ma affinché, fosse anche all’ultimo
respiro, la persona che Dio gli affidato per prepararsi alla vita eterna, possa
trovare la forza e la volontà di dire finalmente il suo sì a Gesù. Stanno
pagando per la salvezza di entrambi. Questo genera scandalo, ma questa è la
grandezza del matrimonio cristiano, questa è la grandezza di una fede che crede
in un Dio che si fa uccidere per pagare ogni nostro misero errore. Senza nessun
nostro merito, ma solo per sacrificio d’amore.
E per concludere ci terrei a
porre a postare quest’ultimo brano del
vangelo
“Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala
si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la
pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e
dall’altro discepolo, quello che Gesù amava [San Giovanni evangelista], e disse
loro: ‘Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno
posto!’ Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al
sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce
di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra,
ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel
sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato
posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte”.
Il sudario piegato ha a che vedere con una dinamica quotidiana tra
padrone e servo – dinamica che ogni bambino ebreo conosceva bene. Il servo,
quando preparava la tavola perché il padrone mangiasse, cercava di essere
sicuro di farlo esattamente nel modo desiderato dal suo signore.
Dopo che era stata preparata la tavola, il servo rimaneva ad aspettare
fuori dal campo visivo del padrone fino a che questi non aveva terminato di
mangiare. Il padrone quindi si alzava, si puliva le dita, la bocca e la barba,
appallottolava il tovagliolo e lo lasciava sulla tavola. Il tovagliolo
appallottolato voleva dire “Ho finito”.
Se il padrone si fosse alzato e avesse lasciato il tovagliolo piegato al
lato del piatto, il servo non avrebbe osato toccare la tavola, perché lasciare
il telo piegato avrebbe significato: “Tornerò!”.
Ed allora possiamo esser certi che al Suo ritorno “…ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” (21, 3-4).
tratto da varie fonti
Omelie di Papa Francesca, spiegazioni tratte dal Significato delle lacrime nella Bibbia tratto da articoli su Avvenire, Messaggero etc etc
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