domenica 31 maggio 2020

il Significato delle lacrime

 Sono trascorsi più di due mesi da quando è iniziato il lock down. È stato un tempo di dolore, di sofferenza per tutti ma un tempo abitato dall’amore di Dio attraverso i social , la televisione , finalmente  adesso possiamo uscire , siamo alla seconda fase, è il tempo di imparare a convivere con questo male fin quando i virologi attraverso un raggio di luce dall’alto non trovino per noi una soluzione volta a salvare tutto il mondo da questa Pandemia.

È necessario pregare tanto e bene per tutto il mondo racchiuso in questo dolore, che davvero lo Spirito consolatore possa asciugare, consolare e riscaldare le lacrime di tutti e di ciascuno.

Nel mondo antico piangere non significava dimostrarsi deboli, il pianto era una manifestazione profonda dei propri sentimenti di dolore, frustrazione, nostalgia. Secondo la mitologia dell’antico Egitto, l’umanità sarebbe scaturita dalle lacrime del dio Ra. Le lacrime sgorgano dal cuore, si pensava, e per gli antichi il cuore era la sede dell’intelligenza, delle emozioni, dei sentimenti e dei pensieri.  Le Lacrime le troviamo nell’Epopea di Gigalmesh e così nel mondo omerico, dove il loro valore è testimoniato da episodi numerosi, sia nell’Iliade che nell’Odissea. Le lacrime di Achille, di Agamennone, di Ettore, di Diomede, Patroclo, Ulisse esprimono molteplici sentimenti che non sono dominati dalla debolezza, mai il contrario, esprimono piena accettazione della propria umanità e quindi irrompono in quella sfera che rende eroico l’uomo: vivere nonostante la propria finitezza. Piangere riveste una dimensione tipicamente umana e inesorabile, quella della sofferenza, che non risparmia nessuno. “Prova pena e tormento per prima cosa”: così, nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (39-42), Giacomo Leopardi descrive il primo vagito del neonato. Nella prima infanzia si comunica ogni bisogno attraverso il pianto, che solo più tardi si tradurrà in parola.

Entriamo nel mondo piangendo e tra le doglie di dolore della nostra mamma e piangendo e/o facendo piangere lasciamo questo mondo per raggiungere la vita eterna. Molto spesso le lacrime di dolore si confondono con quelle di commozione e di gioia.

Le lacrime

Le lacrime ricorrono costantemente nella Bibbia, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, investendo una gamma di sentimenti talmente ampia da risultare inimitabile nelle altre fonti. Il pianto investe uomini e donne di ogni condizione. Sono lacrime di pentimento, di supplica, sofferenza, purificazione, di consolazione, di angoscia ma anche di condanna, quando Gesù allude al destino riservato ai dannati che andranno là dove vi sarà “pianto e stridore di denti” (Mt 13,42). Le lacrime sono al centro del libro delle Lamentazioni. Nei Salmi, in particolare, le lacrime sono effetto del pentimento o della consolazione, Sono un linguaggio, una voce molto presente, soprattutto nei Salmi appaiono il segno della condizione del giusto che soffre, che «non ha altro pane che lacrime di giorno e di notte» (cfr. Sal 42,4), che «ogni notte piange sul suo letto, bagnando di lacrime il suo giaciglio» (cfr. Sal 6,7). Ed egli, nella sua afflizione, è visto e consolato da Dio, dal «Signore che ascolta i suoi singhiozzi» (cfr. Sal 6,9), che «non resta sordo al suo pianto» (cfr. Sal 39,13). Dio raccoglie le lacrime di ciascuno in un otre e non ne perde neppure una (56,9).La “via delle lacrime”, conduce al mistero di Dio e quindi alla salvezza. Ce lo ricorda per prima Rachele: sposa di Giacobbe e madre di Giuseppe e Beniamino, colei che, come ci racconta il Libro della Genesi, muore nel dare alla luce il suo secondogenito, cioè Beniamino.

Il profeta Geremia fa riferimento a Rachele rivolgendosi agli Israeliti in esilio per consolarli, con parole piene di emozione e di poesia; cioè prende il pianto di Rachele ma dà speranza: “Così dice il Signore: «Una voce si ode a Rama, un lamento e un pianto amaro: Rachele piange i suoi figlie non vuole essere consolata per i suoi figli, perché non sono più» (Ger 31,15).

In questi versetti, Geremia presenta questa donna del suo popolo, la grande matriarca della sua tribù, in una realtà di dolore e pianto, ma insieme con una prospettiva di vita impensata. Rachele, aveva assunto quella morte perché il figlio potesse vivere, ora invece, rappresentata dal profeta come viva a Rama, lì dove si radunavano i deportati, piange per i figli che in un certo senso sono morti andando in esilio; figli che, come lei stessa dice, “non sono più”, sono scomparsi per sempre. E per questo Rachele non vuole essere consolata. Questo rifiuto esprime la profondità del suo dolore e l’amarezza del suo pianto. Davanti alla tragedia della perdita dei figli, una madre non può accettare parole o gesti di consolazione, che sono sempre inadeguati, mai capaci di lenire il dolore di una ferita che non può e non vuole essere rimarginata. Un dolore proporzionale all’amore. Questo rifiuto di Rachele che non vuole essere consolata ci insegna anche quanta delicatezza ci viene chiesta davanti al dolore altrui. Per parlare di speranza a chi è disperato, bisogna condividere la sua disperazione; per asciugare una lacrima dal volto di chi soffre, bisogna unire al suo il nostro pianto. Solo così le nostre parole possono essere realmente capaci di dare un po’ di speranza, altrimenti meglio il silenzio; la carezza, il gesto e niente parole.

Ogni madre sa tutto questo; e sono tante, anche oggi, le madri che piangono, che non si rassegnano alla perdita di un figlio, inconsolabili davanti a una morte impossibile da accettare. Rachele racchiude in sé il dolore di tutte le madri del mondo, di ogni tempo, e le lacrime di ogni essere umano che piange perdite irreparabili, ma Le lacrime hanno generato speranza. E questo non è facile da capire, ma è vero. Tante volte, nella nostra vita, le lacrime seminano speranza, I figli di Rachele sono i figli di Dio stesso: entrambi si rifiutano di rassegnarsi alla loro scomparsa in paese nemico. Il pianto di Rachele assume un carattere riparatorio e finisce per essere ascoltato da Dio che le fa una promessa consolatrice: "Dice il Signore‘Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene; essi torneranno dal paese nemicoC’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini’ " (Ger 31, 16-17).

Il testo di Geremia è poi ripreso dall’evangelista Matteo e applicato alla strage degli innocenti (cfr 2,16-18). Un testo che ci mette di fronte alla tragedia dell’uccisione di esseri umani indifesi, all’orrore del potere che disprezza e sopprime la vita. I bambini di Betlemme morirono a causa di Gesù. Il pianto non risparmia Dio che piange sul male che regna nel mondo senza rassegnarvisi. Esse svelano una verità umana decisiva: la presenza dell’infinito nel finito", perciò sono una breccia e insieme una grazia.

E Lui, Agnello innocente, sarebbe poi morto, a sua volta, per tutti noi.

Le lacrime di Giacobbe, quelle di Esaù, di Lia o ancora di Giuseppe, per esempio, poi quelle dei Profeti, soprattutto d’Isaia e di Geremia, ma anche quelle del Salmista, incitano così a riflettere sulle diverse emozioni che esse significano.

Mentre il silenzio si consuma nella solitudine, piangere è sempre rivolgersi a qualcuno, sia pure assente o sconosciuto. Le lacrime vegliano su questa destinazione, interpellano una relazione, sperano una visita. Non esiste una risposta chiara al perché della sofferenza, l’unica ragione la troviamo nella liberta’ che Dio ci ha dato nel farci  scegliere il bene o il male.

 E’ possibile però trovarne un senso vedendo la vita di Gesù abbiamo già accennato di Gesu’ che piange col cuore spezzato nel vedere Gerusalemme perché vede i peccati passati, presenti e futuri ( LC 19, 41-42) Dio, nostro Padre amorevole, si intristisce quando vede che ci stiamo allontanando da Lui. Molte spesso, però, abbandoniamo il Suo amore e seguiamo le nostre strade. I nostri peccati fanno piangere Gesù, ma per fortuna le Sue braccia sono sempre aperte per accoglierci quando torniamo da Lui. Cosi come nel figliol prodigo
  - Giovanni 11, 32-36 ci narra Gesù piange dopo aver saputo che un suo caro amico, Lazzaro, è morto.
Nell’episodio di Lazzaro Gesù versa lacrime in un pianto silenzioso, espresso dal verbo κλαίω, mentre il pianto su Gerusalemme è reso con il verbo δακρύω, piangere in modo sonoro, udibile. Gesù vuole farsi sentire da tutti coloro gli stanno attorno: che sappiano, che si ravvedano. La radice dello stesso verbo usato per il pianto per Gerusalemme si trova nella parola che esprime i lamenti angosciosi nel Getsemani. Gli episodi sembrano voler indicare le tre dimensioni dell’uomo, che sono quella dell’io-tu (Gesù-Lazzaro), dell’io-mondo/umanità intera (Gesù-Gerusalemme) e infine dell'io solo di fronte a se stesso e a Dio (Getsemani). In questa prospettiva il significato delle lacrime si rafforza, diventa ancora più potente.

Considerando il contesto dell’Antico Testamento e della tradizione ebraica, che permetteva ed esigeva il pianto funebre purché non parossistico, ed insieme tenendo conto del freno posto da Gesù alle lacrime sui defunti e su se stesso, possiamo dedurre che Maria sotto la Croce si trovava in una posizione paradossale.

Doveva piangere secondo l’uso ebraico e in forza della pressione naturale del sentimento materno, eppure doveva tener conto del monito del Figlio alle donne, con le quali si trovava verosimilmente anche lei sulla via del Calvario: "Non piangete su di me…" (Lc 23, 28).

La Lettera agli Ebrei 5,7 conferma che le lacrime di Gesu’ sono state accompagnate da una veemente supplica a Dio. Ovviamente non c’è bisogno di piangere perché il Signore ci ascolti, ma in questo passo è evidente che Egli è sensibile ai nostri “cuori pentiti. Egli vuole che le nostre preghiere siano un’espressione di ciò che siamo dentro, non a livello superficiale. Il cuore deve quindi abbracciare tutto il nostro essere e nutrirsi delle nostre emozioni, permettendo a Dio di penetrare in tutti gli aspetti della nostra vita.

L’esempio di Cristo, sempre normativo per il cristiano,  ci dice che ciò che conferisce senso alla nostra vita – e può donarci, nonostante tutto e seppure a caro prezzo, la felicità – non sono le sofferenze in sé, ma l’amore che ci impegniamo a donare e accettiamo di ricevere anche quando le sofferenze «si abbattono come onde su di noi e sembrano sommergerci». E’ questa, sottolinea Bianchi, la vera sfida, questa è «la via cristiana, che può però essere sentita come possibilità ragionevole, significativa e umanizzante anche da parte di chi non è credente»..
Nessuno può risolvere il problema della sofferenza né c’è alcuna risposta certa al perché della sofferenza, ma le vie di consolazione sono percorribili, con gli altri e comunque con Dio, il Consolatore. Detto altrimenti, non c’è risposta alla sofferenza, al pianto, ma ci può essere risposta agli uomini e alle donne che soffrono e piangono: una risposta che può venire dagli altri, cioè da noi, e da Dio.
Dio è colui che grida a noi: «Consolate, consolate il mio popolo [. .. ] parlate al suo cuore» (Is 40,1-2; cfr. Os 2,16); è colui che manda il suo Servo a «consolare tutti gli afflitti» (Is 61,2), testo che probabilmente ha ispirato la beatitudine matteana; è colui che invia il Consolatore perché porti consolazione e gioia. Sì, a tutti gli uomini che piangono, nella loro sofferenza Dio promette: «Io vi consolerò» (Is 66,13). Poi li rassicura: «Io cambierò il vostro lutto in gioia, vi consolerò e vi renderò felici, senza afflizioni» (cfr. Ger 31,13). Ovvero: «La vostra sofferenza sarà da me trasfigurata, non andrà perduta»! tuttavia «ci può essere risposta agli uomini e alle donne che soffrono e piangono» e che – come afferma un passo straordinario del libro del Qoelet – il nostro compito non è tanto, o soltanto, quello di interrogarci sul perché delle lacrime, ma soprattutto quello di adoperarci affinché non esistano più «lacrime da nessuno consolate».

La seconda beatitudine è rivolta agli afflitti, a coloro che piangono: «Beati coloro che piangono, perché saranno consolati» (Mt 5,4). Questa beatitudine si apre a un orizzonte universale, quello di tutta l’umanità, perché in ogni tempo e in ogni terra ci sono stati, ci sono e ci saranno uomini e donne che piangono. Proprio tale ampiezza di orizzonti spaventa e interroga i commentatori, che notano in questa parola di Gesù la mancanza di una portata religiosa, spirituale,.
Ma la domanda resta: da dove verrà la beatitudine per coloro che piangono? Gesù ci ha rivelato che nel giudizio quelli che non hanno conosciuto il pianto, e anzi hanno riso e mai si sono accorti delle lacrime del prossimo, questi piangeranno. Ecco perché in Luca la beatitudine: «Beati voi, che ora piangete, perché riderete» (Lc 6,21), è seguita dall’avvertimento: «Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete» (Lc 6,25). D’altra parte la beatitudine riservata a coloro che piangono non ha una possibilità di realizzazione solo nel giorno del giudizio, ma già qui e ora: già nei loro giorni, sulla terra, quelli che piangono possono conoscere una consolazione che viene dallo Spirito Santo, il Paraclito, il Consolatore (cfr. Gv 14,16.26; 15,26; 16,7), che nell’angoscia è accanto a loro (cfr. Sal 91,15) e dona loro forza e gioia da parte di Dio.

nella sofferenza siamo tentati di diventare più attenti a noi stessi, più egoisti, siamo tentati di cercare una salvezza senza gli altri e magari a scapito degli altri. La sofferenza a volte abbruttisce, rende aggressivi e ci fa assumere comportamenti che, nella loro violenza, ci erano estranei in passato. La sofferenza è una prova terribile, che nessuno di noi può sfuggire. Prima o dopo, e con diversa intensità, noi soffriamo :: soffriamo quando siamo separati dalla madre con il taglio del cordone ombelicale; soffriamo quando dobbiamo lasciare padre, madre e terra e, più in generale, quando dobbiamo lasciare qualcosa che ha rappresentato un valore positivo nella nostra vita; soffriamo quando dobbiamo rinunciare ai sogni di felicità, quando perdiamo la salute, quando perdiamo chi amiamo; soffriamo quando invecchiamo e ci sfuggono le forze e il tempo; soffriamo quando la morte si avvicina e dobbiamo rinunciare a vivere. Sono tutte sofferenze necessarie, senza le quali non si cammina nella vita, sono sofferenze che dobbiamo attraversare e che provocano afflizione, pianto...
Le sofferenze di per sé non sono utili né salvifiche, non sono automaticamente una forma di purificazione, un mezzo per diventare più buoni. Credo però che in esse e attraverso di esse si giochi sempre la salvezza della nostra vita, la ricerca di senso: in particolare, quando le sofferenze si abbattono come onde su di noi e sembrano sommergerci, proprio allora ci è chiesto di impegnarci ad amare e ad accettare di essere amati. (...)
Insomma, siamo chiamati a fare della sofferenza una via di comunione: questa è la sfida, questa è la via cristiana, che può però essere sentita come possibilità ragionevole, significativa e umanizzante anche da parte di chi non è credente.
nella sofferenza affiorano, fino a imporsi, le domande essenziali per l’uomo: «Da dove vengo? Dove vado? Chi sono io? Chi sono gli altri per me?», perché – come dice il Salmo – «l’uomo nel benessere non comprende» (Sal 49,21), è tentato di non discernere.  Quanto alla consolazione possibile a opera di noi uomini, è esemplare l’atteggiamento di Gesù: nei suoi molti incontri con i sofferenti egli non ha mai predicato rassegnazione, non ha mai mostrato atteggiamenti fatalistici o doloristici, non ha mai chiesto di offrire la sofferenza a Dio, non ha mai detto che più uno soffre, più uno è vicino a Dio. Gesù sapeva bene che è l’amore, non la sofferenza, che salva! Per questo si è preso cura dell’umanità sofferente, di chi vedeva piangere, rinnovando una volta di più la sua offerta di amore. Ecco qual è l’opera di consolazione richiesta anche a ciascuno di noi, per quanto ci è possibile: adoperarci affinché non esistano più «lacrime da nessuno consolate» (cfr. Qo 4,1).
Questa duplice opera di consolazione mi pare mirabilmente riassunta in un passo della Seconda lettera di Paolo ai Corinzi: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio» (2Cor 1,3-4).

Pietro piange per essersi accorto di aver tradito Gesù, di essere venuto meno alla fiducia che gli era stato accordato. Ed è un pianto amaro, un pianto pesante, che lo prostra nella sofferenza. Ma quelle lacrime purificano la sua coscienza, il suo cuore immerso nella notte del peccato. Quel pianto lo lava dalle colpe. Per piangere Pietro dovette uscire fuori, si appartò. Quello di Pietro non è un pianto plateale, da teatro. Quel pianto in solitudine e lontano dagli altri gli permette di vivere ancora più intensamente il suo rapporto con il Signore. Il pianto dell’Apostolo fuori e lontano dagli altri è una preghiera. Piangendo, Pietro prega. Come la preghiera di Davide, quando anche lui, dopo averla fatta grossa, pianse e pregò: “Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato. Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto” (Salmo 50)

Papa Francesco in una delle sue omelie ci chiede ” Il pianto è nelle nostre preghiere?”

Maria Maddalena piange quando lava i piedi di Gesù con le sue lacrime e piange Pietro quando al cantar del gallo realizza il suo tradimento. Le lacrime più preziose sono certamente quelle della Vergine: quelle di una madre per il Figlio e per ciascuno dei suoi figli.

Da una parte si vedeva inclusa nella profezia di Zaccaria, che Giovanni applicherà a Cristo crocifisso [cfr. Gv 19, 37], la quale prevedeva ed autorizzava un pianto universale su di lui, a cominciare dalla madre che prorompe in lacrime per la morte violenta del suo primogenito: "Guarderanno a colui che hanno trafittoNe faranno il lutto come si fa lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito" (Zac 12, 10).

E dall’altra parte Maria si sente spinta dalle parole del Figlio a dirottare l’oggetto delle sue lacrime da Gesù innocente al mondo peccatore, in particolare a Gerusalemme ingrata e chiusa alla visita divina su cui Gesù stesso aveva pianto [cfr. Lc 19, 4].

Il piangere di Maria evita l’esagerazione e il difetto, e si risolve in un pianto sommesso e allargato alle dimensioni del mondo. Ella piange il suo primogenito secondo l’uso ebraico, evitando il parossismo, ma esterna con le lacrime il suo dolore di madre colpita nel più caro degli affetti.

Maria piange per un comprensibile sfogo della natura, ma si eleva al piano salvifico seguendo Gesù nell’orientare il pianto verso il peccato, causa della rovina dell’uomo ma di cui egli si è caricato per espiarlo. Ella si unisce al suo Unigenito offrendo le sofferenze per la redenzione del mondo.

Generalmente, la Chiesa attribuisce a Maria una sofferenza profonda, esternata in un pianto sommesso. è la linea seguita dallo Stabat Mater, in cui l’interiore patire della Vergine "si ravviva e si umanizza in un contemplare velato di lacrime". Il pianto di Maria non è disperato, non solo perché sa che il Figlio muore per la salvezza degli uomini, ma pure perché crede nella promessa della risurrezione. Maria diviene così il modello del pianto cristiano, un paradigma particolarmente efficace per cristianizzare il cordoglio funebre. Da San Giovanni Crisostomo a San Luca di Bova ritorna la polemica contro il perdurare del costume pagano del cordoglio funebre. Più che prediche e canoni occorreva un modello con funzione trasfiguratrice del lamento rituale.

Il grande strumento pedagogico del nuovo ethos cristiano di fronte alla morte fu la figura della Mater dolorosa, così integralmente umana nel suo dolore per il Figlio morto, e tuttavia così interiore e raccolta nel suo silenzioso "stare" velato di lacrime davanti alla Croce.

Nel brano dell’agire del samaritano nel Vangelo, ma in modo particolare l’ultima parte. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.

Sappiamo che il prossimo più prossimo per noi sposi è la persona che abbiamo accanto. Prima ancora dei figli stessi. Queste parole di Gesù sono una potenza.. Quando l’altro/a non può pagare, non ne è capace, non è pronto, non è in grado di farsi dono dobbiamo pagare noi per lui/ lei . Questo è la forza e lo scandalo dell’amore. Scandalo perchè risulta indigesto e ingiusto, non è facile da accettare e digerire. Forza perchè chi riesce ad amare in questo modo diventa davvero luce per il mondo. Questo vale per le piccole divisioni come per le grandi. C’è chi, però, è stato chiamato a pagare davvero tanto. Chi abbandonato continua ad offrire la sua vita nella fedeltà ad una persona che, oggettivamente, non merita un dono tanto grande. Eppure, per la Grazia di Cristo, lo fa, per le ferite e l’egoismo dell’altro che causano dolore a tutti.. Tutti volti di uno stesso amore grande. Tutti volti che si somigliano. Somigliano a quel volto del crocefisso, al volto di chi ha dato la vita per gli altri. Per questo sono bellissimi.

Stanno pagando non solo per loro, ma affinché, fosse anche all’ultimo respiro, la persona che Dio gli affidato per prepararsi alla vita eterna, possa trovare la forza e la volontà di dire finalmente il suo sì a Gesù. Stanno pagando per la salvezza di entrambi. Questo genera scandalo, ma questa è la grandezza del matrimonio cristiano, questa è la grandezza di una fede che crede in un Dio che si fa uccidere per pagare ogni nostro misero errore. Senza nessun nostro merito, ma solo per sacrificio d’amore.

E per concludere  ci terrei a porre  a postare quest’ultimo brano del vangelo

 “Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava [San Giovanni evangelista], e disse loro: ‘Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!’ Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte”.

Il sudario piegato ha a che vedere con una dinamica quotidiana tra padrone e servo – dinamica che ogni bambino ebreo conosceva bene. Il servo, quando preparava la tavola perché il padrone mangiasse, cercava di essere sicuro di farlo esattamente nel modo desiderato dal suo signore.

Dopo che era stata preparata la tavola, il servo rimaneva ad aspettare fuori dal campo visivo del padrone fino a che questi non aveva terminato di mangiare. Il padrone quindi si alzava, si puliva le dita, la bocca e la barba, appallottolava il tovagliolo e lo lasciava sulla tavola. Il tovagliolo appallottolato voleva dire “Ho finito”.

Se il padrone si fosse alzato e avesse lasciato il tovagliolo piegato al lato del piatto, il servo non avrebbe osato toccare la tavola, perché lasciare il telo piegato avrebbe significato: “Tornerò!”.

Ed allora possiamo esser certi che al Suo ritorno  “…ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” (21, 3-4).

tratto da varie fonti 
Omelie di Papa Francesca, spiegazioni tratte dal Significato delle lacrime nella Bibbia  tratto da articoli su Avvenire, Messaggero etc etc


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