domenica 15 settembre 2013

Esodo: norme di tipo religioso e liturgico

Subentrano poi alcune norme di tipo religioso e liturgico.  Ogni sette anni la terra  si lascia riposare per ragioni agricole ma anche umanitarie (così da lasciare aperti i campi e quanto spontaneamente producono ai poveri). ' ’una specie di “sabato della terra"  e riprende  l’obbligo del riposo sabbatico. Alle leggi sul sabato seguono le norme sui pellegrinaggi triennali al santuario.  Un breve accenno va alle feste religiose e liturgiche anche se precedentemente trattate  e ricordiamo La festa degli Azzimi e della Pasqua in cui durante i 7 giorni degli Azzimi si doveva mangiare il pane ricavato solo dalla primizia del nuovo raccolto, senza l’aggiunta di lievito.  Non si fa qui alcun cenno al sacrificio dell’agnello. Anche oggi gli Ebrei celebrano la Pasqua nelle case mangiando piatti tradizionali, intonando canti e raccontando la storia della liberazione dall’Egitto. Il ragazzo più giovane domanda: “Perché questa notte è diversa dalle altre?”, e il padre prende lo spunto per narrare gli eventi biblici dell’esodo. E’ tradizione lasciare un posto vuoto a tavola e mettere da parte un bicchiere di vino per il profeta Elia, di cui si attende la venuta in qualità di araldo dell’era messianica. La vigilia di Pasqua ogni casa ebraica è rovistata attentamente per assicurarsi che non sia rimasto del lievito da qualche parte. Al posto del pane ordinario si consuma un pane piatto  e non lievitato che serve per ricordare il “pane dell’afflizione” mangiato dagli Ebrei schiavi in Egitto, motivo per cui la festa viene anche detta “Festa degli Azzimi”. Oggi non vi è tempio e, quindi, non si offrono sacrifici.
Seguiva la festa di Pentecoste, quella della mietitura e cadeva circa 50 dopo quella degli Azzimi, coincidendo quindi con la mietitura del frumento e dell’orzo. La festa di Pentecoste o delle Settimane ,7 settimane dopo Pasqua, commemora la consegna della Legge da parte di Dio a Mosè sul monte Sinai. Ancora oggi, in occasione di questa festa, nella Sinagoga si leggono i 10 Comandamenti, e alcuni ebrei passano tutta la notte a meditare sulla Legge di Dio. La Sinagoga è decorata con fiori e piante e si consumano cibi a base di latticini.L’ultimo convegno del popolo di Dio è la festa dei Tabernacoli (o festa delle Capannecelebrata nel 7° mese dell’anno: in autunno (settembre-ottobre), a ricordo della permanenza degli Ebrei nel deserto per quarant’anni sotto le tende o capanne, dove Dio ha provveduto a ogni loro necessità. Questa festa era contrassegnata dalla fine della raccolta dell’uva e delle olive. La gente, oggi, si costruisce capanne di rami di palma del giardino, sul balcone o vicino alla Sinagoga, vi consuma i pasti e vi dorme. Queste leggi religiose si concludono con l’ultima nota sul capretto da non cuocere nel latte della madre: è una delle norme alimentari dal simbolismo forse umanitario, essa impedirà successivamente agli Ebrei di mangiare insieme carne e latticini. Il Codice dell’Alleanza promulgato al Sinai è concluso da un lungo paragrafo solenne, simile a un appello rivolto a tutto Israele in marcia verso la terra della libertà. Si ribadisce con calore l’obbligo della fedeltà assoluta all’unico Dio e alla sua parola. Solo così scenderà su Israele la benedizione nei campi e nella famiglia. Solo così l’angelo del Signore sarà accanto come guida, sostegno e segno della presenza divina. Solo così Israele sconfiggerà gli ostacoli che incontrerà sul suo cammino, soprattutto gli avversari, allontanati pittorescamente da “calabroni” che li perseguitano. Ritorna in questo brano l’immagine del “terrore” (23,27) collegata a una delle tante teofanie di Dio, in questo contesto, l’uomo si trova davanti a Colui che è infinitamente più grande. Ma questa grandezza di Dio si manifesta anche nel Suo intervento “contro” qualcuno, in particolare i nemici di Israele, atterriti dalla sua potenza (Es. 15,16; 23,27; Giosuè 2,9). Nell’antichità la guerra fra due popoli era concepita anche come guerra fra le rispettive divinità. Così il terrore dei nemici è un segno della superiorità e unicità del Dio d’Israele. Ma quando il popolo si mostrerà infedele o idolatra, il “terrore” divino sarà tra i suoi stessi membri come segno della punizione divina. L’allontanamento delle popolazioni indigene dalla terra promessa – delle quali si offre il tradizionale elenco più volte citato nella Bibbia – dev’essere, però, progressivo, per impedire che la terra sia desolata e selvatica senza il loro lavoro (è questo un ricordo delle varie difficoltà sperimentate da Israele nella conquista della terra di Canaan). Con questi popoli stranieri Israele non dovrà avere rapporti per non lasciarsi coinvolgere nella loro idolatria.
I confini della terra promessa descritti in Esodo 23,31 sono piuttosto ampi: delimitano la terra ad est con il Mar Rosso, ad ovest con il Mediterraneo (“il mare dei Filistei”), a sud con il deserto del Sinai e a nord con l’Eufrate (“il fiume”). Questi territori sono stati controllati da Israele solo durante i regni di Davide e Salomone (1 Re 5,1). Concluso con questo appassionato discorso il Codice delle leggi dell’alleanza con Dio, il popolo sigilla il patto che lo lega al suo Signore con un grande rito. Il libro dell’alleanza è scritto da Mosè e il suo contenuto è proclamato a tutto il popolo che assicura il proprio impegno. Mosè è assistito da Aronne con i suoi figli Nadab e Abiu (futuri sacerdoti) e da una rappresentanza qualificata del popolo: i “settanta” anziani. Dopo che le parti si erano impegnate, era redatto un documento che conteneva gli impegni presi e che era proclamato solennemente. Subito dopo, il patto era sancito con un’offerta sacrificale.
Intanto il nostro racconto si conclude con Mosè che ritorna, accompagnato ora da Giosuè, sul monte per ottenere da Dio le tavole ufficiali e definitive delle leggi che reggono l’alleanza appena stipulata. La vetta del monte è il punto di incontro tra il Signore e Mosè, mediatore tra la divinità e il popolo. Lassù appaiono due segni: la nube, che nasconde e che rappresenta l’insondabile mistero di Dio, e la Gloria che è la stessa realtà di Dio, raffigurata attraverso il simbolo classico del fuoco ardente. Anche nel capitolo precedente, abbiamo incontrato un’altra teofania di Dio: Mosè in quei 40 giorni di soggiorno sul monte – immagine di un tempo perfetto e compiuto, secondo la simbologia delle cifre – sperimenta l’incontro col mistero divino ma anche col suo svelarsi. E la rivelazione riguarda ora il culto d’Israele. La minuziosità delle descrizioni degli arredi e dell’organizzazione del culto fa capire che l’autore del testo (che appartiene alla Tradizione Sacerdotale) ha in mente le celebrazioni che si svolgevano al Tempio di Gerusalemme, costruito da Salomone. Il testo, quindi, colloca nel momento dell’alleanza al Sinai tutte le norme del culto successivo di Gerusalemme, qui esse sono adattate al santuario mobile del deserto, cioè all’arca dell’Alleanza. Questo avviene perché il popolo d’Israele riconosceva come essenziale e fondamentale l’esperienza del Sinai per la sua esistenza e la sua fede. E’ stato così quasi naturale ricondurre l’inizio della liturgia, che era una parte importante della vita religiosa, a quel momento storico privilegiato. In questo modo si confermava che la liturgia, solennemente celebrata nell’“oggi” del Tempio, esprimeva i valori che erano presenti “allora”. Infatti, subito dopo la raccolta dei materiali necessari all’allestimento del santuario (oro, argento, porpora, lino, lana, pelli, legni, olio, aromi, incenso, pietre preziose), appare l’arca, il centro di questa grandiosa legge rituale. Essa era una piccola cassa rettangolare di circa 1,25 metri di lunghezza e 75 cm. di altezza e larghezza. Un modellino dell’arca è forse abbozzato su un bassorilievo dell’antica sinagoga di Cafarnao (IV-V sec. d.C.), ove è posta su ruote, segno di un trasporto su carro, come si dice in 2 Sam.6. L’arca era l’emblema che accompagnava Israele in battaglia e la sede delle rivelazioni divine in tempo di pace. Davide la trasferirà solennemente nella sua nuova capitale, Gerusalemme. Nell’arca sarà poi collocata la “Testimonianza” (‘edut) che designa secondo la cultura orientale, le clausole di un trattato imposto da un sovrano al suo vassallo. La “Testimonianza” qui è il Decalogo, scritto sulle tavole di pietra, chiamate talvolta “tavole della testimonianza” Altrove, l’arca è chiamata “arca della testimonianza”.
L’arca – chiamata “aron” = “cassa”, o anche “aron ‘edut” = “arca della testimonianza”, oppure con l’insieme di ciò che la circondava, “miqdash” = “santuario” o “mishkan” = “dimora” o “ohel mo-‘ed” = “tenda dell’incontro” – ha due elementi rilevanti.
 Il primo è il “propiziatorio” (kapporet) una lastra d’oro lunga 1,25 metri e larga 75 cm., che copriva l’arca. Il suo nome ebraico (kapporet) significa “coperchio”, dalla radice ebraica “kapar” = “coprire”, ma anche “espiare”,“cancellare”. Il “kapporet” (coperchio) è presentato come distinto dall’arca. Esso interviene, senza l’arca, nel rituale postesilico del giorno dell’espiazione; e 1 Cronache 28,11 chiama il Santo dei santi il “luogo per il coperchio”. Sembra che il propiziatorio e i cherubini che vi erano attaccati, nel tempio postesilico sostituissero l’arca e i cherubini del tempio si Salomone. La descrizione sacerdotale li ha uniti (v. 21). Jahwè appare sul propiziatorio e là parla a Mosè.
Non sappiamo, però, se questo sia il nome originario di questa tavola d’oro puro. Alcuni sostengono che ricevette tale nome solo in seguito, a motivo del rito che si compiva su di essa nel giorno dell’espiazione, quando si cospargeva la parte superiore dell’arca col sangue delle vittime del sacrificio.
Il propiziatorio ha una grande funzione nel rito del giorno dell’espiazione, (Jom Kippur), festa in cui si compie un sacrificio per l’espiazione dei peccati del popolo. S. Paolo riprenderà l’immagine del propiziatorio applicandola a Gesù: “Dio lo ha esposto pubblicamente come propiziatorio, per mezzo della fede nel suo sangue, per mostrare la sua giustizia per mezzo della remissione dei peccati”. Il giorno dell’Espiazione (Jom Kippur) è considerato, oggi, il giorno più sacro dell’anno religioso ebraico. Cade a conclusione del periodo di penitenza avviato con il Capodanno (prima festa che cade in settembre od ottobre e celebra la creazione del mondo da parte di Dio. Nella Sinagoga si suona il corno di montone per ricordare al popolo di ritornare a Dio. I dieci giorni successivi sono dedicati all’esame di se stessi e al pentimento. E’ usanza, ancora oggi, mangiare mele immerse nel miele e augurare “unbuono e felice anno” agli altri), ed è caratterizzato da preghiere, digiuno e confessione pubblica dei peccati. Tradizionalmente questo era il giorno in cui il sommo sacerdote offriva un sacrificio per se e per i peccati del popolo d’Israele ed entrava nel Santo dei santi del Tempio (in precedenza, nel tabernacolo, la tenda sacra). Oggi non vi è tempio e non si offrono sacrifici, e l’espiazione avviene mediante il pentimento e il digiuno: il fedele passa tutto il giorno nella sinagoga e indossa una veste bianca, quale simbolo di purezza, a conclusione della giornata, egli si considererà spiritualmente rinato.
2) Il secondo elemento sono i “cherubini che proteggevano il “propiziatorio”. Da ambo i lati dell’arca, due cherubini d’oro tendevano le ali aperte sopra il propiziatorio. E’ ormai assodato che gli Ebrei presero la rappresentazione plastica di questi cherubini (esseri metà umani e metà animali) dai pagani confinanti, presso i quali essi servivano da divinità secondarie, tutelari del palazzo e del tempio. Nella letteratura biblica sono usati frequentemente come manifestazioni visibili degli spiriti, ministri e assistenti al trono di Jahwè.
L’arca e i suoi cherubini alati erano considerati il trono di Jahwè (1 Sam. 4,4). Pertanto l’arca aveva un duplice fine:
1)     custodire il decalogo e quindi essere un costante ricordo dell’Alleanza del Sinai;
2)      essere il trono di Jahwè quando manifestava se stesso al suo popolo e lo confortava con la sua continua presenza.
La tavola dei pani. Davanti all’arca era collocata una tavola, lunga 1 metro, larga mezzo metro e alta 75 cm., ricoperta di oro puro, coi piedi uniti tra loro da traversine a cui si infilavano – come per l’arca – le stanghe destinate al trasporto della mensa stessa. Su di essa si dovevano lasciare sempre “I pani della presentazione” cioè i pani personali di Jahwè. L’uso di offrire pane alla divinità era probabilmente collegato alla benedizione e protezione che essa doveva garantire al lavoro agricolo. Alla vigilia del sabato vi si ponevano 12 pani azzimi, e vi si lasciavano fino alla settimana seguente quando erano sostituiti.
Nell’A.T. si assegnano diversi nomi a questi pani; per es. “pane della presenza” (1 Sam. 21,7); “pane sacro” (1 Sam. 21,4.6) e “pane perpetuo” (Num. 4,7). Il suo simbolismo più probabile era quello del riconoscimento della continua bontà di Jahwè verso il suo popolo.
Nella Bibbia si ha notizia dei pani del santuario di Nob che Davide e i suoi uomini affamati mangiarono sebbene essi fossero riservati ai sacerdoti (1 Sam. 21, 2-7). Il Candelabro. La descrizione dell’arredo del santuario d’Israele continua con la presentazione del candelabro d’oro, la cui immagine tradizionale è quella raffigurata nell’arco di Tito a Roma (si trattava, però, del candelabro del tempio di Gerusalemme distrutto nel 70 d.C.)
Descritto in modo molto minuzioso, con rimando a simboli floreali, il candelabro aveva un tronco centrale da cui si dipartivano sei rami con altrettanto calici per le lampade così da formare il numero perfetto di sette lumi, ripresi dalla successiva “memorah” o candelabro a sette bracci giudaico. Ornato con corolle e fiori, questo manufatto liturgico sarà descritto anche dal profeta Zaccaria (4, 1-14). Il suo peso è indicato in un talento d’oro puro (il talento era un’unità di misura per il peso. Con esso si pesavano i metalli preziosi, argento e oro, e quindi, il talento ne rappresentava il valore. Il valore esatto di un talento è attestato sui34 Kg. Sappiamo che in Babilonia furono in uso un talento di 60 Kg. E uno di 30 Kg. Il talento si divideva in mine e sicli, ma anche qui non è sempre chiara l’equivalenza: mentre in Babilonia pare che un talento fosse costituito da 60 mine di 60 sicli, in Palestina si oscillava invece da 50 mine di 60 sicli a 60 mine di 50 sicli).  In Esodo 26,8 troveremo un’altra unità di misura: “il cubito” che corrispondeva a circa 54 cm.Il testo non dice lo scopo del candelabro. Poteva essere una creazione, riccamente ornata, ma puramente funzionale o poteva avere per gli Ebrei, un ricco significato simbolico. 

“Dimora” (in ebraico “mishkan”) è il termine con cui è indicato il “santuario”. Il nome sottolinea la decisione di Dio di “abitare” in mezzo al suo popolo, anche se la fede d’Israele è ben consapevole della trascendenza di Dio, cioè del suo essere al di là di ogni realtà umana (1 Re 8,27: “Ecco: i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti”).L’autore biblico, pur parlando della tenda sacra che ospiterà l’arca nel deserto, in realtà ha in mente il tempio che Salomone erigerà a Gerusalemme: come per la liturgia anche l’origine dell’architettura del Tempio è collocata nel momento dell’incontro con Dio al Sinai. Il termine “mishkan” = “dimora” è stato tradotto nella versione latina della “Vulgata” di S. Girolamo con il termine “tabernaculum” (= “tenda”), da cui deriva il termine italiano più corrente di “tabernacolo”.Il santuario o “Dimora” di Dio col suo popolo, è accuratamente definito in tutti i particolari. Nel suo insieme si presenta come una struttura mobile in legno, ricoperta di teli di lino pregiato: il bisso o “lino fine” (stoffa pregiata, impiegata soprattutto per il santuario e il vestiario del sacerdote: Es. 28,6). Nell’Apocalisse il bisso è il tessuto con cui è rivestita la sposa dell’Agnello cioè la Chiesa (19,8). La parola ebraica “shesh”, che indica questa stoffa, è di origine egiziana: dall’Egitto infatti proveniva questo tessuto. Oltre al “bisso” il santuario doveva essere ricoperto anche di “porpora”: in tutta l’antichità era il colore dei vestiti indossati dai principi e dagli alti personaggi. La tintura delle stoffe con la porpora, estratta da un mollusco, era l’attività principale degli abitanti di Tiro in Fenicia (attuale Libano) che intrattennero rapporti di alleanza con Salomone (1 Re 5).
Le misure generali del santuario sono qualificabili sui 15 metri di lunghezza e 5 metri di altezza e larghezza.
dieci teli di “lino fine” e di “porpora” che coprono l’intera struttura sono agganciati tra loro e all’impianto di legno con una serie di cordoni e di fibbie d’oro. Per difendere l’insieme da agenti atmosferici si ricorre anche a teli in pelo di capra: ancora oggi i beduini usano un simile tessuto per le loro tende. Si ha, così, una copertura impermeabile all’acqua, ma anche che lascia traspirare nei periodi estivi. Di fronte a piogge o al caldo particolarmente eccezionali per intensità si ricorre invece alle pelli di montone, alcune colorate di rosso, altre adattate a copertura dell’intero complesso sacro. L’armatura di sostegno della tenda era in legno di “acacia” (non è da confondere con la “robinia” che in alcune regioni d’Italia è chiamata acacia. Ma il materiale di cui si parla nel testo biblico appartiene alla stessa famiglia della “mimosa”, ma ha i fiori bianchi. Cresce ancora oggi nella penisola del Sinai, dove è l’unica pianta che fornisce un legno lavorabile,leggero e resistente). Le assi erano fatte combaciare con sostegni, mentre le basi erano in argento così da non marcire al contatto diretto col terreno. Per noi, sia pure attraverso la puntigliosa descrizione che ci è offerta, non è facile riuscire a ricomporre un modello completo di questo santuario mobile.
Alla base di questo monumento liturgico, che celebrerà i suoi trionfi nel tempio di Gerusalemme, sta il concetto di “sacro” (“qadosh” in ebraico). Esso suppone uno spazio e una sfera di vita e di azione “separati” dal profano, cioè dal resto dell’esistenza e dello spazio quotidiano. Per varcare quest’area consacrata l’uomo deve sottoporsi a una serie di verifiche, cioè di purificazioni rituali e morali, così da essere ammesso all’incontro col divino. Attraverso queste regole di protezione della zona “sacra” si vuole esaltare la trascendenza divina, cioè la sua perfezione e distanza infinita dall’uomo e dal creato. Naturalmente anche c’è il rischio, come dichiareranno i profeti in molti interventi, di isolare eccessivamente il sacro dalla vita quotidiana.Continua la minuziosa raffigurazione del santuario mobile che Israele dovrà allestire nel deserto. Come è facile immaginare, queste puntuali e appassionate descrizioni di assi, veli, oggetti sacri e aree, sono opera della Tradizione Sacerdotale. Immersi nella vita pagana di Babilonia, ove erano stati deportati in seguito alla distruzione di Gerusalemme operata da Nabucodonosor nel 586 a.C., questi autori biblici cercano di tener viva nei loro ascoltatori e lettori la memoria del glorioso passato di Israele, nella speranza di poterlo ben presto rivivere, quando sarebbero rientrati nella terra dei padri. L’arca dell’alleanza è contenuta in una tenda la cui armatura è basata su una serie di assi accuratamente connesse tra loro per mezzo di traverse. Il tutto è rivestito d’oro. A questa struttura lignea è collegato un “velo” che in ebraico è chiamato con un termine di origine mesopotamica, “paroket”: il vocabolo indicava la parte più sacra del tempio, cioè la cella ove era collocata la statua della divinità. Non è, quindi, il telo di copertura dell’armatura, descritto sopra (26, 1-14), ma un velo sacro di porpora e di bisso, destinato a fungere da cortina divisoria tra l’area ove è posta l’arca e il resto della tenda santa, cioè tra il Santo dei Santi (dove si trovava l’arca dell’alleanza, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Ad esso poteva accedere soltanto il Sommo Sacerdote una volta all’anno, in occasione della festa dell’Espiazione) e il Santo (la parte antistante dove si svolgevano la celebrazioni liturgiche). Si ha, così un’ulteriore distinzione nell’ambito della stessa area sacra.
Questa divisione in due settori sarà tipica del Tempio di Gerusalemme, oltre quel velo potrà passare solo il Sacerdote una volta l’anno (Lev. 16). Al di là del velo è presente solamente l’arca col suo “propiziatorio” (kapporet), la lastra d’oro sulla quale incombevano i cherubini e che è stata sopra descritta. Il propiziatorio era considerato lo “sgabello dei piedi di Dio”, in pratica il suo trono. Al di qua del velo sono posti la “tavola della presentazione” coi pani e il candelabro, arredi già in precedenza ampiamente descritti. Nel cortile, sempre al di qua del velo, si incontra “l’altare degli olocausti”, che era posto davanti al santuario, all’esterno di esso. All’altare sono associati tutti gli strumenti necessari per compiere il sacrificio. L’altare aveva forma quasi cubica di legno (2,10 metri di lunghezza per 2,10 metri di larghezza e 1,20 di altezza), ma ricoperto di bronzo e con una graticola bronzea per permettere di bruciarvi sopra le vittime sacrificali (“olocausto” è un termine greco usato successivamente per definire questo sacrificio e significa “tutto bruciato” alludendo alla vittima del sacrificio che era completamente bruciata). Da ciascun angolo dell’altare sporgeva una protuberanza a “corno”. I corni costituivano la parte più sacra dell’altare. Su di essi, infatti, si spargeva il sangue delle vittime sacrificali (29,12); i fuggiaschi si aggrappavano ad essi per ottenere il diritto d’asilo (1 Re 1,50; 2,28). Corni simili si trovano sugli altari assiri, cananei e su quelli greci più antichi. Il simbolismo di questi corni non ci è chiaro, ma molti studiosi ritengono concordemente che essi significhino “potenza”, nel nostro contesto “potenza divina”. L’altare, infine, essendo vuoto all’interno, poteva essere trasportato con stanghe. La “Dimora”, cioè la tenda con l’arca e tutto il suo apparato, era protetta da un “recinto”, che delimitava lo spazio intorno al santuario in cui si radunava il popolo durante la celebrazione del culto che il sacerdote compiva all’interno del santuario. Nel Tempio di Gerusalemme all’epoca di Gesù c’erano due cortili. Quello più interno, entro il quale sorgeva il santuario, era riservato agli Israeliti: i pagani non potevano accedervi per non profanare la santità del luogo. Il recinto era circondato da 20 colonne di legno d’acacia, poste a intervallo di circa m. 2,10 l’una dall’altra, le colonne avevano le basi di bronzo, le cui misure sono indicate in cento cubiti (50 metri) di lunghezza e cinquanta cubiti (25 metri) di larghezza.
Questo recinto segnalava ulteriormente la sacralità dell’intera area del santuario. Attorno ad esso, infatti, si stendeva la zona profana, quella dell’accampamento di Israele. Come si è visto, il concetto dominante sarà sempre quello della separazione. Lo spazio sacro è chiuso e perfetto in se ed è segno del mistero di Dio.
Il recinto che proteggeva il complesso sacro della tenda dell’arca, aveva una porta d’accesso, coperta da una cortina preziosamente ricamata, ed era costituito – come si era già detto – da colonne che sorreggevano tendaggi. Si ripetono le misure: 50 m. di lunghezza, 25 di larghezza, 2,50 di altezza.
Il recinto, dal punto di vista architettonico, corrispondeva all’atrio del Tempio di Gerusalemme. I fedeli, intanto, sono invitati ad approntare olio per tenere perennemente accesa la lampada del candelabro posta all’interno della “tenda del convegno”, cioè dell’incontro tra tutto Israele qui convenuto e il suo Signore, e curata dai sacerdoti, Aronne e i suoi figli. Ad Aronne e ai suoi figli è riservato il ministero sacerdotale. Abiu (il cui nome significa: “mio padre è Lui [Dio]) e Nadab (“egli si è mostrato generoso”) avevano avuto un ruolo privilegiato durante la conclusione dell’alleanza al Sinai. Infatti, in Es. 24, 1-9 sono menzionati accanto a Mosè e ad Aronne e ai Settanta anziani ammessi alla visione di Dio sul monte.
Essi però moriranno, puniti da Dio, per una trasgressione di tipo liturgico. La linea del sacerdozio sarà così portata avanti da Eleazaro (“ Dio mi ha aiutato”) che succederà a suo padre come Sommo Sacerdote. Itamar (“terra di palme”), essendo il minore, ha compiti secondari rispetto a quelli di Aronne ed Eleazaro. Da lui, tuttavia, discendono importanti famiglie sacerdotali .
In questo brano l’autore biblico introduce un’accurata descrizione dei paramenti sacerdotali, preparati da abilissimi artigiani (anzi quasi “ispirati” da Dio perché ripieni di “spirito di saggezza”) ed elaborati con oro, porpora e lino fine. Anche questa descrizione riflette le molteplici norme liturgiche in vigore successivamente nel Tempio di Gerusalemme.
Ecco innanzi tutto l’“efod”, che inizialmente doveva essere una specie di perizoma che copriva i fianchi delle divinità e dei sacerdoti ed era retto da due spalline . Ora sembra essere una specie di corpetto con bretelle e con una particolare cintura. La sua funzione era di tipo “oracolare”, cioè serviva per consultare la volontà del Signore. E’ per questo che all’efod sono collegate due pietre d’onice, inserite in castoni d’oro e appesi alle spalline del paramento con due catene d’oro. Su queste pietre sono incisi i nomi delle 12 tribù d’Israele, sei per pietra, così che idealmente il sacerdote, quando si presenterà davanti all’arca, porterà con se davanti al Signore tutto il popolo. Si stabilisce, quindi, tra Dio e Israele un dialogo che è mediato dal sacerdote, il quale rappresenta l’intera comunità. Le vesti sacre sono cariche di simbolismi e di valori religiosi e non hanno una funzione di puro abbigliamento e ornamento. Non per nulla queste due pietre d’onice incise sono chiamate “pietre-memoriale” perché servano di monito, di insegnamento, di messaggio ai figli d’Israele, “ricordando” il loro legame con Dio.
Un altro paramento sacerdotale importante è il “pettorale del giudizio”, in ebraico “hoshen” (“bello”), forse da intendere come “ornamento”. Pare assomigliasse a una specie di borsa quadrata di circa 25 cm. per lato, appesa all’efod mediante catenelle e cordoni. Il pettorale di cui si parla era ricoperto da quattro file di tre pietre preziose, minuziosamente elencate: cornalina, topazio, smeraldo; turchese, zaffiro, diamante; giacinto, agata, ametista ; crisolito, onice, diaspro. E’ incerta l’identificazione delle pietre che il testo vuole indicare. Le pietre preziose non si trovavano in Israele, ma erano importate, come sappiamo dalla storia della regina di Saba (1 Re 10,11). Gli scavi archeologici compiuti in Palestina hanno portato alla luce soprattutto cornalina, ametista, diaspri, agate, onici e cristalli di ogni tipo. E’ facile immaginare il significato di queste pietre incastonate nel pettorale: esse “corrispondono ai nomi delle 12 tribù dei figli d’Israele”, incisi appunto su ciascuna di esse.
Ancora una volta, come nel caso delle due pietre di onice dell’efod, il sacerdote presenta a Dio tutto il popolo, raffigurato proprio nel paramento sacro che egli indossa per il culto. La lista di pietre preziose, come è noto, sarà ripresa dal libro dell’Apocalisse (21, 19-20) nella sua descrizione della Gerusalemme celeste.
La loro precisa identificazione e il significato simbolico che l’antica scienza a esse attribuiva non sono stati ancora definiti. La descrizione del pettorale indossato da Aronne, capostipite del sacerdozio è particolarmente precisa. Basti soltanto seguire la minuzia con cui è definito il modo per agganciarlo alle spalline dell’efod, l’altro paramento precedentemente presentato (per farci un’idea di queste due vesti sacre, potremmo paragonare l’efod ad un piccolo grembiule portato dalla vita in giù ed allacciato di dietro e sopra le spalle. Il pettorale era fissato, in alto, alle due spalline ed, in basso, alla cintura dell’efod).
Catene, cordoni, anelli d’oro fanno sì che il pettorale si annodi all’efod, costituendo un insieme armonico. A questo punto si spiega in modo allusivo il significato del nome “pettorale del giudizio” che questo paramento sacro riceve. Infatti sopra il pettorale, dalla parte del cuore di chi lo indossa, sono inseriti gli “Urim e i Tummim”, letteralmente i “luminosi” e i “perfetti”, anche se il significato dei due termini permane incerto. Si tratta di due “sorti sacre”, forse due pietruzze di colore diverso, la cui funzione era oracolare. A una domanda rivolta alla divinità si otteneva un responso sacro attraverso queste due sorti, a cui si attribuiva un valore convenzionale: forse l’una indicava la risposta positiva e l’altra quella negativa (Davide le consulterà, ad esempio, per attaccare o no battaglia contro Saul: 1 Sam. 23, 9-13). E’ attraverso gli Urim e i Tummim, quindi, che si aveva il giudizio divino sulle imprese umane. Rimane, però, oscura la modo con cui si usava questo oggetto sacro per ottenere i vari responsi divini. C’è in qualche elemento un residuato degli antichi usi magici, praticati da molti popoli e sopravvissuti anche in Israele.Un altro paramento sacerdotale è il “mantello” di porpora, con l’orlo del collo tutto lavorato e i lembi ricamati con disegni di melagrane (pianta molto diffusa in Palestina: i suoi frutti, insieme ad uva e fichi, sono portati agli Israeliti dagli esploratori penetrati nella terra promessa prima dell’ingresso di Israele come indicazione della sua prosperità: Num. 13,23. Il melograno era considerato simbolo della fertilità, della vita per i numerosi semi che ogni frutto contiene. Per questo la metafora del melograno o del suo frutto è frequente nel Cantico dei cantici 4,3.13; 7,13. Per lo stesso motivo, probabilmente era un motivo decorativo presente in molti monumenti assiri e fenici. In Israele, oltreché le vesti del sommo sacerdote, i melograni decoravano anche il Tempio di Salomone: 1 Re 7,20) e accompagnati da campanelli che avevano lo scopo di segnalare la presenza sacra del sacerdote, la cui persona partecipava del mistero divino.
Nel libro del Siracide 45,9 si scrive: “All’orlo della veste (di Aronne), pose melagrane e tanti campanelli d’oro all’intorno, che risuonassero alla cadenza dei suoi passi, perché il tintinnio sentito nel tempio fosse un richiamo per i figli del suo popolo”. Si passa poi a un altro capo dell’abbigliamento sacerdotale: “il turbante” del sommo sacerdote. Esso reca una lamina d’oro su cui è incisa l’iscrizione “Consacrato del Signore” segno della qualità sacra del sacerdote. Presentandosi con questa scritta davanti a Dio, egli potrà ottenere il perdono per le colpe eventualmente commesse durante i riti. Non si parla qui di colpe morali, ma piuttosto di una “trasgressione” liturgica, una violazione delle norme che regolavano il culto. Nell’antichità tali regole erano infatti tenute da tutti in grande considerazione. Aronne, in quanto sommo sacerdote, rappresenta davanti a Dio tutto il popolo. Presentandosi al suo cospetto nel rispetto delle regole rituali egli può chiedere il perdono delle trasgressioni commesse dagli Israeliti. Una “tunica” di bisso, cioè di lino fine, stretta da una cintura ricamata, costituiva un altro elemento delle vesti sacerdotali. I sacerdoti di grado inferiore avevano un copricapo diverso dal turbante del sommo sacerdote.
Infine, si menzionano i “calzoni” di lino, destinati a nascondere le nudità del sacerdote, soprattutto quando egli lavorava attorno all’altare per approntare le vittime dei sacrifici e quanto era necessario per il culto (Es. 20,26).
Descritti i paramenti, ora si presenta il rituale della consacrazione sacerdotale. Un giovane toro, due arieti, pani e focacce azzimi costituiscono la materia del sacrificio solenne da offrire in quell’occasione.
I sacerdoti sono purificati con un lavacro così da poter accedere all’area sacra; sono poi rivestiti dell’abbigliamento rituale sopra descritto. Sono in tal modo, pronti per la grande liturgia della consacrazione che tra poco sarà descritta in tutti i suoi momenti rituali. Una volta purificati ritualmente e rivestiti dei paramenti, i sacerdoti sono consacrati mediante l’olio dell’unzione, la cui composizione sarà minuziosamente definita in Es. 30, 22-23. L’olio sacro è versato sul capo, come si ricorda anche nel Salmo 133,2 ove si parla dell’olio prezioso sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne”.
L’olio di oliva, che era uno dei prodotti più importanti della Palestina, aveva diversi usi nell’antichità. Esso era usato soprattutto nell’alimentazione; poi serviva per l’illuminazione (Es. 27,20), per la cosmesi (Rut 3,3) e come medicamento (Isaia 1,6). Pare che l’unzione con l’olio fosse anche un modo per stringere alleanza nei rapporti fra nazioni o fra re (Osea 12,2). Il suo uso più importante era però legato all’investitura dei re (1 Sam. 10,1) e dei sacerdoti. Con questo gesto si indicava che le persone prescelte ricevevano un incarico particolare, ma soprattutto, che erano “consacrate” a Dio, cioè che entravano a far parte della sfera del sacro, collegato alla presenza particolare di Dio.
Dopo la consacrazione, si celebrano tre sacrifici diversi. Il primo, è un tipico “sacrificio di espiazione” dei peccati. In esso una funzione di rilievo è espletata dal sangue della vittima, il torello: il sangue, segno della vita, è versato alla base e sui quattro corni dell’altare, cioè sui quattro angoli, simbolo della potenza divina (Es. 27,2). Il grasso, considerato la parte più nobile perché segno di abbondanza, è offerto a Dio, mentre il resto della vittima è arso fuori dell’accampamento di Israele, come segno dell’impurità del popolo.
In un normale sacrificio per i peccati, al sacerdote toccava una parte della vittima (Lev. 5,13; 6,22). In questo caso però, non gli è dovuta, perché la vittima è stata immolata per i peccati degli stessi sacerdoti.
Al sacrificio espiatorio dei peccati, celebrato col rito del sangue, segue un secondo atto sacrificale, quello dell’olocausto”. Uno dei due arieti, presentati all’inizio della cerimonia (Es. 29,3), è immolato e il suo sangue asperso sull’altare; fatto a pezzi, è totalmente bruciato perché salga come offerta gradita al Signore, espressione della donazione che Israele fa di se al suo Dio attraverso la mediazione dei sacerdoti. Sul secondo ariete sono imposte le mani, quasi a voler trasferire se stessi nell’animale offerto al Signore.
Col sangue della vittima si compie poi un curioso rito di consacrazione dei sacerdoti, Mosè mette un poco del sangue dell’ariete sul lobo dell’orecchio destro, sul pollice della mano destra e sull’alluce del piede destro di Aronne e di ognuno dei suoi figli per indicare la loro totale consacrazione al Signore, quindi sono rivestiti dei paramenti sacerdotali. L’orecchio, la mano e il piede dei sacerdoti sono bagnati con il sangue della vittima, che è sparso anche sull’altare. Questo gesto vuole richiamare ciò che abbiamo visto fare da Mosè per il popolo in Es. 24: in quel contesto esso significava la consacrazione di tutto il popolo a una relazione privilegiata con Jahwè, secondo l’espressione di Es. 19,6: “Voi sarete per me un regno di sacerdoti”. Nel caso di Aronne e dei suoi figli si tratta invece dell’investitura ad una missione particolare. Si noti che, secondo una cultura diffusa, si privilegia la parte destra del corpo, che ha un valore positivo, contrariamente alla sinistra. La scelta delle parti del corpo da aspergere (capo, piede, mano) vuole probabilmente essere segno della totalità della persona consacrata al Signore.
Il grasso, la coda e la coscia destra (le parti grasse e prelibate) dell’ariete, i pani, le focacce e le schiacciate sono poste sulle palme delle mani dei sacerdoti che li “agiteranno”.
Probabilmente si trattava di un rito particolare, mediante il quale il sacerdote dapprima innalzava agitandole, le parti scelte della vittima verso l’altare, indicando così che erano state offerte a Dio, poi le abbassava verso se stesso, significando che Dio le restituiva ai sacerdoti per il loro sostentamento.
Si attua così il terzo rito, quello di “comunione” : la vittima è consumata sia da Dio sia dal fedele, idealmente assisi in pace e in intimità alla stessa mensa, ed è per questo che il sacrificio è detto di “comunione” o “pacifico”. Dopo una parentesi sulle vesti sacre e sulla loro trasmissibilità ereditaria (si tratta di un’inserzione fuori contesto), si conclude il sacrificio di comunione col pasto sacro a cui si accennava. Aronne e i suoi figli espressione del collegio sacerdotale, si nutrono della carne prelevata dall’ariete offerto e dei pani azzimi. Solo loro hanno il diritto di partecipare a questo banchetto, non i “profani”, cioè i membri delle altre tribù. Gli avanzi del banchetto (carne e pane azzimo) non si potevano conservare fino al mattino seguente: si dovevano bruciare terminato il pasto. La solenne celebrazione della consacrazione sacerdotale durava sette giorni durante i quali si rinnovavano gli stessi riti sopra descritti. A proposito del terzo sacrificio, quello di comunione, si ricordi che esso era stato evocato anche durante l’atto solenne di stipulazione dell’alleanza col Signore al Sinai. Si diceva, infatti, che i capi d’Israele “videro il Signore e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es. 24,11). Dopo la consacrazione dei sacerdoti, ecco quella dell’altare, altrettanto complessa. Per sette giorni si celebra un sacrificio espiatorio, per purificare l’altare così da renderlo sacro e adatto al culto. Materia del sacrificio sono due agnelli di un anno, l’uno per il rito mattutino, l’altro per quello vespertino. Si ricorda anche che tale celebrazione si doveva compiere “ogni giorno per sempre”, con evidente allusione al culto quotidiano che si celebrava nel Tempio di Gerusalemme.
Agli agnelli si accompagnano focacce preparate con un decimo di “efa” (più di tre litri e mezzo, poiché un’efa equivale a circa 36 litri) di farina, impastata con un quarto di “in” (un litro e mezzo; un in equivale alla sesta parte di un’efa, cioè a circa 6 litri) di olio o offerte di un quarto di in di vino (circa 1,58 litri).
Ancora una volta l’autore biblico sottolinea che si tratta di un sacrificio “perenne”, cioè offerto ogni giorno nel santuario del Signore. Anche se la pratica dei sacrifici quotidiani è senz’altro antica, tuttavia sembra che, in genere, si tratti di un olocausto solo alla mattina e dell’offerta d’un pasto alla sera (2 Re 16,15). In Ezechiele 46,13-15 e in Lev. 6,5 si parla solo d’un olocausto mattutino. Quindi la consuetudine di olocausti mattutini e vespertini e l’inserzione di questa legislazione sembrano aggiunte posteriori.
L’espressione: “Io sono il signore, loro Dio” richiama l’alleanza che Dio ha stabilito con il suo popolo e il Suo intervento per liberare Israele dalla schiavitù . In questo modo la celebrazione liturgica è l’azione di lode e di grazia che il popolo deve rendere a Dio riconoscendo tutto ciò che Egli ha compiuto in suo favore. Si passa ora alla descrizione dell’altro altare, quello detto dei profumi, cioè dell’incenso che è offerto alla divinità. Si tratta di un uso attestato presso tutti i popoli orientali, tant’è vero che l’archeologia ha messo in luce altari o incensieri destinati a simili riti in molte località del vicino Oriente. L’incenso compare anche nel N.T. tra i doni che i magi offrono a Gesù (Mt. 2,11). Così come è descritto, l’altare si presenta simile a un parallelepipedo di legno d’acacia, alto un metro e di mezzo metro per lato, rivestito d’oro, con anelli per le stanghe del trasporto e con i corni ai quattro angoli, come per l’altare degli olocausti. Collocato davanti al velo che nascondeva l’arca della testimonianza, cioè al di qua del Santo dei Santi, l’area più sacra della tenda del convegno, l’altare era destinato alla combustione degli aromi vari e degli incensi offerti a Dio.
Ogni mattina e ogni sera il sacerdote, dopo aver controllato e alimentato le lampade del candelabro, offriva un sacrificio di incenso al Signore, simbolo della lode perenne di Israele. L’orante del Salmo 141,2 esclama: “Salga la mia preghiera come incenso davanti a te”. Una volta all’anno il sommo sacerdote con un rito espiatorio, cioè ungendo col sangue delle vittime i corni dell’altare, purificava e riconsacrava l’altare, arredo significativo del santuario. La descrizione della tenda del convegno e degli oggetti sacri è interrotta dalla menzione di un censimento dei figli d’Israele destinato a determinare il contributo da offrire per l’erezione del santuario. Il testo parlando del censimento del popolo d’Israele, menziona la possibilità che ad esso siano associati dei “flagelli”. La concezione evoca immediatamente la collera di Dio, essendo Lui l’unico sovrano che può censire il suo popolo, dato che questo era un atto tipico di governo e di potere. E’ quanto accade a Davide: Davide ordina il censimento del popolo, ma questo si rivela come un grave peccato che comporta un intervento punitivo di Dio, il quale manda tre giorni di peste nel paese.

Ma col pagamento d’un “riscatto per la propria persona” il censito sperava di sfuggire ad una brutta sorte.                         
Tratto da  http://www.corsobiblico.it/    di Don Antonio Schena         

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