Subentrano poi alcune norme di tipo religioso e liturgico. Ogni sette anni la terra si lascia riposare per ragioni agricole ma
anche umanitarie (così da lasciare aperti i campi e quanto spontaneamente
producono ai poveri). ' ’una specie di “sabato della terra" e riprende l’obbligo del riposo sabbatico. Alle leggi sul
sabato seguono le norme sui pellegrinaggi triennali al santuario. Un breve accenno va alle feste religiose e
liturgiche anche se precedentemente trattate
e ricordiamo La festa degli Azzimi e della Pasqua in
cui durante i 7 giorni degli Azzimi si doveva mangiare il pane ricavato solo
dalla primizia del nuovo raccolto, senza l’aggiunta di lievito. Non si fa qui alcun cenno al sacrificio
dell’agnello. Anche oggi gli Ebrei celebrano la Pasqua nelle case mangiando
piatti tradizionali, intonando canti e raccontando la storia della liberazione
dall’Egitto. Il ragazzo più giovane domanda: “Perché
questa notte è diversa dalle altre?”, e il padre prende lo spunto per narrare gli
eventi biblici dell’esodo. E’ tradizione lasciare un posto vuoto a tavola e
mettere da parte un bicchiere di vino per il profeta Elia, di cui si attende la
venuta in qualità di araldo dell’era messianica. La vigilia di Pasqua ogni casa
ebraica è rovistata attentamente per assicurarsi che non sia rimasto del
lievito da qualche parte. Al posto del pane ordinario si consuma un pane piatto
e non lievitato che serve per ricordare
il “pane dell’afflizione” mangiato dagli Ebrei schiavi in Egitto, motivo per cui
la festa viene anche detta “Festa degli Azzimi”. Oggi non vi è tempio e,
quindi, non si offrono sacrifici.
Seguiva la festa di Pentecoste, quella della mietitura e cadeva circa 50
dopo quella degli Azzimi, coincidendo quindi con la mietitura del frumento e
dell’orzo. La festa di Pentecoste o delle Settimane ,7
settimane dopo Pasqua, commemora la consegna della Legge da parte di Dio a Mosè
sul monte Sinai. Ancora oggi, in occasione di questa festa, nella Sinagoga si
leggono i 10 Comandamenti, e alcuni ebrei passano tutta la notte a meditare
sulla Legge di Dio. La Sinagoga è decorata con fiori e piante e si consumano
cibi a base di latticini.L’ultimo convegno del popolo di Dio è la festa
dei Tabernacoli (o festa delle Capanne) celebrata
nel 7° mese dell’anno: in autunno (settembre-ottobre), a ricordo della
permanenza degli Ebrei nel deserto per quarant’anni sotto le tende o capanne,
dove Dio ha provveduto a ogni loro necessità. Questa festa era contrassegnata
dalla fine della raccolta dell’uva e delle olive. La gente, oggi, si costruisce
capanne di rami di palma del giardino, sul balcone o vicino alla Sinagoga, vi
consuma i pasti e vi dorme. Queste leggi religiose si concludono con l’ultima
nota sul capretto da non cuocere nel latte della madre: è una delle norme
alimentari dal simbolismo forse umanitario, essa impedirà successivamente agli
Ebrei di mangiare insieme carne e latticini. Il Codice dell’Alleanza promulgato
al Sinai è concluso da un lungo paragrafo solenne, simile a un appello rivolto
a tutto Israele in marcia verso la terra della libertà. Si ribadisce con calore
l’obbligo della fedeltà assoluta all’unico Dio e alla sua parola. Solo così
scenderà su Israele la benedizione nei campi e nella famiglia. Solo così
l’angelo del Signore sarà accanto come guida, sostegno e segno della presenza
divina. Solo così Israele sconfiggerà gli ostacoli che incontrerà sul suo
cammino, soprattutto gli avversari, allontanati pittorescamente da “calabroni”
che li perseguitano. Ritorna in questo brano l’immagine del “terrore”
(23,27) collegata a una delle tante teofanie di Dio, in questo contesto, l’uomo
si trova davanti a Colui che è infinitamente più grande. Ma questa grandezza di
Dio si manifesta anche nel Suo intervento “contro” qualcuno, in particolare i
nemici di Israele, atterriti dalla sua potenza (Es. 15,16; 23,27; Giosuè 2,9).
Nell’antichità la guerra fra due popoli era concepita anche come guerra fra le
rispettive divinità. Così il terrore dei nemici è un segno della superiorità e
unicità del Dio d’Israele. Ma quando il popolo si mostrerà infedele o idolatra,
il “terrore” divino sarà tra i suoi stessi membri come segno della punizione
divina. L’allontanamento delle popolazioni indigene dalla terra promessa –
delle quali si offre il tradizionale elenco più volte citato nella Bibbia –
dev’essere, però, progressivo, per impedire che la terra sia desolata e
selvatica senza il loro lavoro (è questo un ricordo delle varie difficoltà
sperimentate da Israele nella conquista della terra di Canaan). Con questi
popoli stranieri Israele non dovrà avere rapporti per non lasciarsi coinvolgere
nella loro idolatria.
I confini della terra promessa descritti in Esodo 23,31 sono piuttosto
ampi: delimitano la terra ad est con il Mar Rosso, ad ovest con il Mediterraneo
(“il mare dei Filistei”), a sud con il deserto del Sinai e a nord con l’Eufrate
(“il fiume”). Questi territori sono stati controllati da Israele solo durante i
regni di Davide e Salomone (1 Re 5,1). Concluso con questo appassionato discorso il Codice
delle leggi dell’alleanza con Dio, il popolo sigilla il patto che lo lega al
suo Signore con un grande rito. Il libro dell’alleanza è scritto da Mosè e il
suo contenuto è proclamato a tutto il popolo che assicura il proprio impegno. Mosè
è assistito da Aronne con i suoi figli Nadab e Abiu (futuri sacerdoti) e da una
rappresentanza qualificata del popolo: i “settanta” anziani. Dopo che le parti
si erano impegnate, era redatto un documento che conteneva gli impegni presi e
che era proclamato solennemente. Subito dopo, il patto era sancito con
un’offerta sacrificale.
Intanto il nostro racconto si conclude con Mosè che ritorna, accompagnato
ora da Giosuè, sul monte per ottenere da Dio le tavole ufficiali e definitive
delle leggi che reggono l’alleanza appena stipulata. La vetta del monte è il
punto di incontro tra il Signore e Mosè, mediatore tra la divinità e il popolo.
Lassù appaiono due segni: la nube, che nasconde e che rappresenta
l’insondabile mistero di Dio, e la Gloria che è la stessa
realtà di Dio, raffigurata attraverso il simbolo classico del fuoco ardente. Anche nel capitolo precedente, abbiamo
incontrato un’altra teofania di Dio: Mosè in quei 40 giorni di soggiorno sul
monte – immagine di un tempo perfetto e compiuto, secondo la simbologia delle
cifre – sperimenta l’incontro col mistero divino ma anche col suo svelarsi. E
la rivelazione riguarda ora il culto d’Israele. La minuziosità delle descrizioni degli arredi e
dell’organizzazione del culto fa capire che l’autore del testo (che appartiene
alla Tradizione Sacerdotale) ha in mente le celebrazioni che si svolgevano al
Tempio di Gerusalemme, costruito da Salomone. Il testo, quindi, colloca nel
momento dell’alleanza al Sinai tutte le norme del culto successivo di
Gerusalemme, qui esse sono adattate al santuario mobile del deserto, cioè
all’arca dell’Alleanza. Questo avviene perché il popolo d’Israele riconosceva
come essenziale e fondamentale l’esperienza del Sinai per la sua esistenza e la
sua fede. E’ stato così quasi naturale ricondurre l’inizio della liturgia, che
era una parte importante della vita religiosa, a quel momento storico
privilegiato. In questo modo si confermava che la liturgia, solennemente celebrata
nell’“oggi” del Tempio, esprimeva i valori che erano presenti “allora”.
Infatti, subito dopo la raccolta dei materiali necessari all’allestimento del
santuario (oro, argento, porpora, lino, lana, pelli, legni, olio, aromi,
incenso, pietre preziose), appare l’arca, il centro
di questa grandiosa legge rituale. Essa era una piccola cassa rettangolare di
circa 1,25 metri di lunghezza e 75 cm. di altezza e larghezza. Un modellino
dell’arca è forse abbozzato su un bassorilievo dell’antica sinagoga di Cafarnao
(IV-V sec. d.C.), ove è posta su ruote, segno di un trasporto su carro, come si
dice in 2 Sam.6. L’arca era l’emblema che accompagnava Israele in battaglia e
la sede delle rivelazioni divine in tempo di pace. Davide la trasferirà
solennemente nella sua nuova capitale, Gerusalemme. Nell’arca sarà poi
collocata la “Testimonianza” (‘edut) che designa secondo
la cultura orientale, le clausole di un trattato imposto da un sovrano al suo
vassallo. La “Testimonianza” qui è il Decalogo, scritto sulle tavole di pietra,
chiamate talvolta “tavole della testimonianza” Altrove, l’arca è chiamata “arca
della testimonianza”.
L’arca – chiamata “aron” = “cassa”, o anche “aron ‘edut” =
“arca della testimonianza”, oppure con l’insieme di ciò che
la circondava, “miqdash” = “santuario” o “mishkan” =
“dimora” o “ohel mo-‘ed” = “tenda dell’incontro”
– ha due elementi rilevanti.
Il primo è il “propiziatorio” (kapporet) una lastra d’oro lunga 1,25
metri e larga 75 cm., che copriva l’arca. Il suo nome ebraico (kapporet)
significa “coperchio”, dalla radice ebraica “kapar” = “coprire”,
ma anche “espiare”,“cancellare”. Il “kapporet” (coperchio) è
presentato come distinto dall’arca. Esso interviene, senza l’arca, nel rituale
postesilico del giorno dell’espiazione; e 1 Cronache 28,11 chiama il Santo dei
santi il “luogo per il coperchio”. Sembra che il propiziatorio e i cherubini
che vi erano attaccati, nel tempio postesilico sostituissero l’arca e i
cherubini del tempio si Salomone. La descrizione sacerdotale li ha uniti (v.
21). Jahwè appare sul propiziatorio e là parla a Mosè.
Non sappiamo, però, se questo sia il nome originario di questa tavola d’oro
puro. Alcuni sostengono che ricevette tale nome solo in seguito, a motivo del
rito che si compiva su di essa nel giorno dell’espiazione, quando si cospargeva
la parte superiore dell’arca col sangue delle vittime del sacrificio.
Il propiziatorio ha una grande funzione nel rito del giorno
dell’espiazione, (Jom Kippur), festa in cui si compie un sacrificio per
l’espiazione dei peccati del popolo. S. Paolo riprenderà l’immagine del
propiziatorio applicandola a Gesù: “Dio lo ha esposto pubblicamente come
propiziatorio, per mezzo della fede nel suo sangue, per mostrare la sua
giustizia per mezzo della remissione dei peccati”. Il giorno
dell’Espiazione (Jom Kippur) è considerato, oggi, il giorno più
sacro dell’anno religioso ebraico. Cade a conclusione del periodo di penitenza
avviato con il Capodanno (prima festa che cade in
settembre od ottobre e celebra la creazione del mondo da parte di Dio. Nella
Sinagoga si suona il corno di montone per ricordare al popolo di ritornare a
Dio. I dieci giorni successivi sono dedicati all’esame di se stessi e al
pentimento. E’ usanza, ancora oggi, mangiare mele immerse nel miele e augurare
“unbuono e felice anno” agli altri), ed è caratterizzato da preghiere,
digiuno e confessione pubblica dei peccati. Tradizionalmente questo era il
giorno in cui il sommo sacerdote offriva un sacrificio per se e per i peccati
del popolo d’Israele ed entrava nel Santo dei santi del Tempio (in precedenza,
nel tabernacolo, la tenda sacra). Oggi non vi è tempio e non si offrono
sacrifici, e l’espiazione avviene mediante il pentimento e il digiuno: il
fedele passa tutto il giorno nella sinagoga e indossa una veste bianca, quale
simbolo di purezza, a conclusione della giornata, egli si considererà
spiritualmente rinato.
2) Il secondo elemento sono i “cherubini” che
proteggevano il “propiziatorio”. Da ambo i lati dell’arca, due cherubini d’oro
tendevano le ali aperte sopra il propiziatorio. E’ ormai assodato che gli Ebrei
presero la rappresentazione plastica di questi cherubini (esseri metà umani e
metà animali) dai pagani confinanti, presso i quali essi servivano da divinità
secondarie, tutelari del palazzo e del tempio. Nella letteratura biblica sono
usati frequentemente come manifestazioni visibili degli spiriti, ministri e
assistenti al trono di Jahwè.
L’arca e i suoi cherubini alati erano considerati il trono di Jahwè (1 Sam.
4,4). Pertanto l’arca aveva un duplice fine:
1) custodire il decalogo e quindi essere un
costante ricordo dell’Alleanza del Sinai;
2) essere il trono di Jahwè quando
manifestava se stesso al suo popolo e lo confortava con la sua continua
presenza.
La tavola dei pani. Davanti all’arca era collocata una tavola, lunga 1 metro, larga mezzo
metro e alta 75 cm., ricoperta di oro puro, coi piedi uniti tra loro da
traversine a cui si infilavano – come per l’arca – le stanghe destinate al
trasporto della mensa stessa. Su di essa si dovevano lasciare sempre “I pani
della presentazione” cioè i pani personali di Jahwè. L’uso di offrire pane
alla divinità era probabilmente collegato alla benedizione e protezione che
essa doveva garantire al lavoro agricolo. Alla vigilia del sabato vi
si ponevano 12 pani azzimi, e vi si lasciavano fino alla settimana seguente
quando erano sostituiti.
Nell’A.T. si assegnano diversi nomi a questi pani; per es. “pane della
presenza” (1 Sam. 21,7); “pane sacro” (1 Sam. 21,4.6) e “pane
perpetuo” (Num. 4,7). Il suo simbolismo più probabile era quello del
riconoscimento della continua bontà di Jahwè verso il suo popolo.
Nella Bibbia si ha notizia dei pani del santuario di Nob che Davide e i
suoi uomini affamati mangiarono sebbene essi fossero riservati ai sacerdoti (1
Sam. 21, 2-7). Il Candelabro. La descrizione
dell’arredo del santuario d’Israele continua con la presentazione del
candelabro d’oro, la cui immagine tradizionale è quella raffigurata nell’arco
di Tito a Roma (si trattava, però, del candelabro del tempio di Gerusalemme
distrutto nel 70 d.C.)
Descritto in modo molto minuzioso, con rimando a simboli floreali, il
candelabro aveva un tronco centrale da cui si dipartivano sei rami con
altrettanto calici per le lampade così da formare il numero perfetto di sette
lumi, ripresi dalla successiva “memorah” o candelabro a sette bracci giudaico.
Ornato con corolle e fiori, questo manufatto liturgico sarà descritto anche dal
profeta Zaccaria (4, 1-14). Il suo peso è indicato in un talento d’oro puro (il
talento era un’unità di misura per il peso. Con esso si pesavano i metalli preziosi,
argento e oro, e quindi, il talento ne rappresentava il valore. Il valore
esatto di un talento è attestato sui34 Kg. Sappiamo che in Babilonia furono in
uso un talento di 60 Kg. E uno di 30 Kg. Il talento si divideva in mine e
sicli, ma anche qui non è sempre chiara l’equivalenza: mentre in Babilonia pare
che un talento fosse costituito da 60 mine di 60 sicli, in Palestina si
oscillava invece da 50 mine di 60 sicli a 60 mine di 50 sicli). In Esodo 26,8 troveremo un’altra unità di
misura: “il cubito” che corrispondeva a circa 54 cm.Il testo non
dice lo scopo del candelabro. Poteva essere una creazione, riccamente ornata,
ma puramente funzionale o poteva avere per gli Ebrei, un ricco significato
simbolico.
“Dimora” (in ebraico “mishkan”) è il termine con
cui è indicato il “santuario”. Il nome sottolinea la decisione
di Dio di “abitare” in mezzo al suo popolo, anche se la fede d’Israele è ben
consapevole della trascendenza di Dio, cioè del suo essere al di là di ogni
realtà umana (1 Re 8,27: “Ecco: i cieli e i cieli dei cieli non possono
contenerti”).L’autore biblico, pur parlando della tenda sacra che ospiterà
l’arca nel deserto, in realtà ha in mente il tempio che Salomone erigerà a
Gerusalemme: come per la liturgia anche l’origine dell’architettura del Tempio
è collocata nel momento dell’incontro con Dio al Sinai. Il termine “mishkan”
= “dimora” è stato tradotto nella versione latina della “Vulgata” di S.
Girolamo con il termine “tabernaculum” (= “tenda”), da cui
deriva il termine italiano più corrente di “tabernacolo”.Il santuario o
“Dimora” di Dio col suo popolo, è accuratamente definito in tutti i
particolari. Nel suo insieme si presenta come una struttura mobile in legno,
ricoperta di teli di lino pregiato: il bisso o “lino
fine” (stoffa pregiata, impiegata soprattutto per il santuario e il vestiario
del sacerdote: Es. 28,6). Nell’Apocalisse il bisso è il tessuto con cui è
rivestita la sposa dell’Agnello cioè la Chiesa (19,8). La parola ebraica “shesh”,
che indica questa stoffa, è di origine egiziana: dall’Egitto infatti proveniva
questo tessuto. Oltre al “bisso” il santuario doveva essere ricoperto anche di
“porpora”: in tutta l’antichità era il colore dei vestiti
indossati dai principi e dagli alti personaggi. La tintura delle stoffe con la
porpora, estratta da un mollusco, era l’attività principale degli abitanti di
Tiro in Fenicia (attuale Libano) che intrattennero rapporti di alleanza con
Salomone (1 Re 5).
Le misure generali del santuario sono qualificabili sui 15 metri di lunghezza
e 5 metri di altezza e larghezza.
dieci teli di “lino fine” e di “porpora” che coprono l’intera struttura
sono agganciati tra loro e all’impianto di legno con una serie di cordoni e di
fibbie d’oro. Per difendere l’insieme da agenti atmosferici si ricorre anche a
teli in pelo di capra: ancora oggi i beduini usano un simile tessuto per le
loro tende. Si ha, così, una copertura impermeabile all’acqua, ma anche che
lascia traspirare nei periodi estivi. Di fronte a piogge o al caldo
particolarmente eccezionali per intensità si ricorre invece alle pelli di
montone, alcune colorate di rosso, altre adattate a copertura dell’intero
complesso sacro. L’armatura di sostegno della tenda era in legno di “acacia”
(non è da confondere con la “robinia” che in alcune regioni d’Italia è
chiamata acacia. Ma il materiale di cui si parla nel testo biblico appartiene
alla stessa famiglia della “mimosa”, ma ha i fiori bianchi. Cresce ancora oggi
nella penisola del Sinai, dove è l’unica pianta che fornisce un legno lavorabile,leggero
e resistente). Le assi erano fatte combaciare con sostegni, mentre le basi
erano in argento così da non marcire al contatto diretto col terreno. Per noi,
sia pure attraverso la puntigliosa descrizione che ci è offerta, non è facile
riuscire a ricomporre un modello completo di questo santuario mobile.
Alla base di questo monumento liturgico, che celebrerà i suoi trionfi nel
tempio di Gerusalemme, sta il concetto di “sacro”
(“qadosh” in ebraico). Esso suppone uno spazio e una sfera di vita e di azione
“separati” dal profano, cioè dal resto dell’esistenza e dello spazio
quotidiano. Per varcare quest’area consacrata l’uomo deve sottoporsi a una
serie di verifiche, cioè di purificazioni rituali e morali, così da essere
ammesso all’incontro col divino. Attraverso queste regole di protezione della
zona “sacra” si vuole esaltare la trascendenza divina, cioè la sua perfezione e
distanza infinita dall’uomo e dal creato. Naturalmente anche c’è il rischio,
come dichiareranno i profeti in molti interventi, di isolare eccessivamente il
sacro dalla vita quotidiana.Continua la minuziosa raffigurazione del santuario
mobile che Israele dovrà allestire nel deserto. Come è facile immaginare,
queste puntuali e appassionate descrizioni di assi, veli, oggetti sacri e aree,
sono opera della Tradizione Sacerdotale. Immersi nella vita pagana di
Babilonia, ove erano stati deportati in seguito alla distruzione di Gerusalemme
operata da Nabucodonosor nel 586 a.C., questi autori biblici cercano di tener
viva nei loro ascoltatori e lettori la memoria del glorioso passato di Israele,
nella speranza di poterlo ben presto rivivere, quando sarebbero rientrati nella
terra dei padri. L’arca dell’alleanza è contenuta in una tenda la cui armatura
è basata su una serie di assi accuratamente connesse tra loro per mezzo di
traverse. Il tutto è rivestito d’oro. A questa struttura lignea è collegato un
“velo” che in ebraico è chiamato con un termine di origine
mesopotamica, “paroket”: il vocabolo indicava la parte più sacra del tempio,
cioè la cella ove era collocata la statua della divinità. Non è, quindi, il
telo di copertura dell’armatura, descritto sopra (26, 1-14), ma un velo sacro
di porpora e di bisso, destinato a fungere da cortina divisoria tra l’area ove
è posta l’arca e il resto della tenda santa, cioè tra il Santo
dei Santi (dove si trovava l’arca dell’alleanza, segno della
presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Ad esso poteva accedere soltanto il
Sommo Sacerdote una volta all’anno, in occasione della festa dell’Espiazione) e
il Santo (la parte antistante dove si svolgevano
la celebrazioni liturgiche). Si ha, così un’ulteriore distinzione nell’ambito
della stessa area sacra.
Questa divisione in due settori sarà tipica del Tempio di Gerusalemme,
oltre quel velo potrà passare solo il Sacerdote una volta l’anno (Lev. 16). Al
di là del velo è presente solamente l’arca col suo “propiziatorio” (kapporet),
la lastra d’oro sulla quale incombevano i cherubini e che è stata sopra
descritta. Il propiziatorio era considerato lo “sgabello dei piedi di Dio”, in
pratica il suo trono. Al di qua del velo sono posti la “tavola della
presentazione” coi pani e il candelabro, arredi già in precedenza ampiamente
descritti. Nel
cortile, sempre al di qua del velo, si incontra “l’altare degli
olocausti”, che era posto davanti al santuario, all’esterno di
esso. All’altare sono associati tutti gli strumenti necessari per compiere il
sacrificio. L’altare aveva forma quasi cubica di legno (2,10 metri di lunghezza
per 2,10 metri di larghezza e 1,20 di altezza), ma ricoperto di bronzo e con
una graticola bronzea per permettere di bruciarvi sopra le vittime sacrificali
(“olocausto” è un termine greco usato successivamente per definire questo
sacrificio e significa “tutto bruciato” alludendo alla vittima del sacrificio
che era completamente bruciata). Da ciascun angolo dell’altare sporgeva una
protuberanza a “corno”. I corni costituivano la parte più sacra dell’altare.
Su di essi, infatti, si spargeva il sangue delle vittime sacrificali (29,12); i
fuggiaschi si aggrappavano ad essi per ottenere il diritto d’asilo (1 Re 1,50;
2,28). Corni simili si trovano sugli altari assiri, cananei e su quelli greci
più antichi. Il simbolismo di questi corni non ci è chiaro, ma molti studiosi
ritengono concordemente che essi significhino “potenza”, nel nostro contesto
“potenza divina”. L’altare, infine, essendo vuoto all’interno, poteva
essere trasportato con stanghe. La “Dimora”, cioè la tenda con l’arca e tutto
il suo apparato, era protetta da un “recinto”, che
delimitava lo spazio intorno al santuario in cui si radunava il popolo durante
la celebrazione del culto che il sacerdote compiva all’interno del santuario.
Nel Tempio di Gerusalemme all’epoca di Gesù c’erano due cortili. Quello più
interno, entro il quale sorgeva il santuario, era riservato agli Israeliti: i
pagani non potevano accedervi per non profanare la santità del luogo. Il
recinto era circondato da 20 colonne di legno d’acacia, poste a intervallo di
circa m. 2,10 l’una dall’altra, le colonne avevano le basi di bronzo, le cui
misure sono indicate in cento cubiti (50 metri) di lunghezza e cinquanta cubiti
(25 metri) di larghezza.
Questo recinto segnalava ulteriormente la sacralità dell’intera area del
santuario. Attorno ad esso, infatti, si stendeva la zona profana, quella
dell’accampamento di Israele. Come si è visto, il concetto dominante sarà
sempre quello della separazione. Lo spazio sacro è chiuso e perfetto in se ed è
segno del mistero di Dio.
Il recinto che proteggeva il complesso sacro della tenda dell’arca, aveva
una porta d’accesso, coperta da una cortina preziosamente ricamata, ed era
costituito – come si era già detto – da colonne che sorreggevano tendaggi. Si
ripetono le misure: 50 m. di lunghezza, 25 di larghezza, 2,50 di altezza.
Il recinto, dal punto di vista architettonico, corrispondeva all’atrio del
Tempio di Gerusalemme. I fedeli, intanto, sono invitati ad approntare olio per
tenere perennemente accesa la lampada del candelabro posta all’interno della
“tenda del convegno”, cioè dell’incontro tra tutto Israele qui convenuto e il
suo Signore, e curata dai sacerdoti, Aronne e i suoi figli. Ad Aronne e ai suoi figli è
riservato il ministero sacerdotale. Abiu (il cui nome
significa: “mio padre è Lui [Dio]) e Nadab (“egli si è
mostrato generoso”) avevano avuto un ruolo privilegiato durante la conclusione
dell’alleanza al Sinai. Infatti, in Es. 24, 1-9 sono menzionati accanto a Mosè
e ad Aronne e ai Settanta anziani ammessi alla visione di Dio sul monte.
Essi però moriranno, puniti da Dio, per una trasgressione di tipo liturgico.
La linea del sacerdozio sarà così portata avanti da Eleazaro (“
Dio mi ha aiutato”) che succederà a suo padre come Sommo Sacerdote. Itamar (“terra
di palme”), essendo il minore, ha compiti secondari rispetto a quelli di Aronne
ed Eleazaro. Da lui, tuttavia, discendono importanti famiglie sacerdotali .
In questo brano l’autore biblico introduce un’accurata descrizione dei
paramenti sacerdotali, preparati da abilissimi artigiani (anzi quasi “ispirati”
da Dio perché ripieni di “spirito di saggezza”) ed elaborati con oro, porpora e
lino fine. Anche questa descrizione riflette le molteplici norme liturgiche in
vigore successivamente nel Tempio di Gerusalemme.
Ecco innanzi tutto l’“efod”, che inizialmente doveva
essere una specie di perizoma che copriva i fianchi delle divinità e dei
sacerdoti ed era retto da due spalline . Ora sembra essere una specie di
corpetto con bretelle e con una particolare cintura. La sua funzione era di
tipo “oracolare”, cioè serviva per consultare la volontà del Signore. E’ per
questo che all’efod sono collegate due pietre d’onice, inserite in castoni
d’oro e appesi alle spalline del paramento con due catene d’oro. Su queste
pietre sono incisi i nomi delle 12 tribù d’Israele, sei per pietra, così che
idealmente il sacerdote, quando si presenterà davanti all’arca, porterà con se
davanti al Signore tutto il popolo. Si stabilisce, quindi, tra Dio e Israele un
dialogo che è mediato dal sacerdote, il quale rappresenta l’intera comunità. Le
vesti sacre sono cariche di simbolismi e di valori religiosi e non hanno una
funzione di puro abbigliamento e ornamento. Non per nulla queste due pietre
d’onice incise sono chiamate “pietre-memoriale” perché servano di
monito, di insegnamento, di messaggio ai figli d’Israele, “ricordando” il loro
legame con Dio.
Un altro paramento sacerdotale importante è il “pettorale del
giudizio”, in ebraico “hoshen” (“bello”), forse da intendere come
“ornamento”. Pare assomigliasse a una specie di borsa quadrata di circa 25 cm.
per lato, appesa all’efod mediante catenelle e cordoni. Il pettorale di cui si
parla era ricoperto da quattro file di tre pietre preziose, minuziosamente
elencate: cornalina, topazio, smeraldo; turchese, zaffiro, diamante;
giacinto, agata, ametista ; crisolito, onice, diaspro. E’ incerta
l’identificazione delle pietre che il testo vuole indicare. Le pietre preziose
non si trovavano in Israele, ma erano importate, come sappiamo dalla storia
della regina di Saba (1 Re 10,11). Gli scavi archeologici compiuti in Palestina
hanno portato alla luce soprattutto cornalina, ametista, diaspri, agate, onici
e cristalli di ogni tipo. E’ facile immaginare il significato di queste pietre
incastonate nel pettorale: esse “corrispondono ai nomi delle 12 tribù dei figli
d’Israele”, incisi appunto su ciascuna di esse.
Ancora una volta, come nel caso delle due pietre di onice dell’efod, il
sacerdote presenta a Dio tutto il popolo, raffigurato proprio nel paramento
sacro che egli indossa per il culto. La lista di pietre preziose, come è noto,
sarà ripresa dal libro dell’Apocalisse (21, 19-20) nella sua descrizione della
Gerusalemme celeste.
La loro precisa identificazione e il significato simbolico che l’antica
scienza a esse attribuiva non sono stati ancora definiti. La descrizione del
pettorale indossato da Aronne, capostipite del sacerdozio è particolarmente precisa.
Basti soltanto seguire la minuzia con cui è definito il modo per agganciarlo
alle spalline dell’efod, l’altro paramento precedentemente presentato (per
farci un’idea di queste due vesti sacre, potremmo paragonare l’efod ad un
piccolo grembiule portato dalla vita in giù ed allacciato di dietro e sopra le
spalle. Il pettorale era fissato, in alto, alle due spalline ed, in basso, alla
cintura dell’efod).
Catene, cordoni, anelli d’oro fanno sì che il pettorale si annodi all’efod,
costituendo un insieme armonico. A questo punto si spiega in modo allusivo il
significato del nome “pettorale del giudizio” che questo paramento sacro
riceve. Infatti sopra il pettorale, dalla parte del cuore di chi lo indossa,
sono inseriti gli “Urim e i Tummim”, letteralmente i
“luminosi” e i “perfetti”, anche se il significato dei due termini permane
incerto. Si tratta di due “sorti sacre”, forse due pietruzze di colore diverso,
la cui funzione era oracolare. A una domanda rivolta alla divinità si otteneva
un responso sacro attraverso queste due sorti, a cui si attribuiva un valore
convenzionale: forse l’una indicava la risposta positiva e l’altra quella
negativa (Davide le consulterà, ad esempio, per attaccare o no battaglia contro
Saul: 1 Sam. 23, 9-13). E’ attraverso gli Urim e i Tummim, quindi,
che si aveva il giudizio divino sulle imprese umane. Rimane, però, oscura la
modo con cui si usava questo oggetto sacro per ottenere i vari responsi divini.
C’è in qualche elemento un residuato degli antichi usi magici, praticati da molti
popoli e sopravvissuti anche in Israele.Un altro paramento sacerdotale è il “mantello”
di porpora, con l’orlo del collo tutto lavorato e i lembi ricamati con disegni
di melagrane (pianta molto diffusa in Palestina: i suoi frutti, insieme ad
uva e fichi, sono portati agli Israeliti dagli esploratori penetrati nella
terra promessa prima dell’ingresso di Israele come indicazione della sua
prosperità: Num. 13,23. Il melograno era considerato simbolo della
fertilità, della vita per i numerosi semi che ogni frutto contiene. Per questo
la metafora del melograno o del suo frutto è frequente nel Cantico dei cantici
4,3.13; 7,13. Per lo stesso motivo, probabilmente era un motivo decorativo
presente in molti monumenti assiri e fenici. In Israele, oltreché le vesti del
sommo sacerdote, i melograni decoravano anche il Tempio di Salomone: 1 Re
7,20) e accompagnati da campanelli che avevano lo scopo di segnalare
la presenza sacra del sacerdote, la cui persona partecipava del mistero divino.
Nel libro del Siracide 45,9 si scrive: “All’orlo della veste (di Aronne),
pose melagrane e tanti campanelli d’oro all’intorno, che risuonassero alla
cadenza dei suoi passi, perché il tintinnio sentito nel tempio fosse un
richiamo per i figli del suo popolo”. Si passa poi a un altro capo
dell’abbigliamento sacerdotale: “il turbante” del sommo
sacerdote. Esso reca una lamina d’oro su cui è incisa l’iscrizione “Consacrato
del Signore” segno della qualità sacra del sacerdote. Presentandosi con questa
scritta davanti a Dio, egli potrà ottenere il perdono per le colpe
eventualmente commesse durante i riti. Non si parla qui di colpe
morali, ma piuttosto di una “trasgressione” liturgica, una violazione delle
norme che regolavano il culto. Nell’antichità tali regole erano infatti tenute
da tutti in grande considerazione. Aronne, in quanto sommo sacerdote,
rappresenta davanti a Dio tutto il popolo. Presentandosi al suo cospetto nel
rispetto delle regole rituali egli può chiedere il perdono delle trasgressioni
commesse dagli Israeliti. Una “tunica” di
bisso, cioè di lino fine, stretta da una cintura ricamata, costituiva un altro
elemento delle vesti sacerdotali. I sacerdoti di grado inferiore avevano un
copricapo diverso dal turbante del sommo sacerdote.
Infine, si menzionano i “calzoni” di lino, destinati a
nascondere le nudità del sacerdote, soprattutto quando egli lavorava attorno
all’altare per approntare le vittime dei sacrifici e quanto era necessario per
il culto (Es. 20,26).
Descritti i paramenti, ora si presenta il
rituale della consacrazione sacerdotale. Un giovane toro, due arieti, pani e
focacce azzimi costituiscono la materia del sacrificio solenne da offrire in
quell’occasione.
I sacerdoti sono purificati con un lavacro così da poter accedere all’area
sacra; sono poi rivestiti dell’abbigliamento rituale sopra descritto. Sono in
tal modo, pronti per la grande liturgia della consacrazione che tra poco sarà
descritta in tutti i suoi momenti rituali. Una volta purificati ritualmente e
rivestiti dei paramenti, i sacerdoti sono consacrati mediante l’olio
dell’unzione, la cui composizione sarà minuziosamente definita in Es. 30,
22-23. L’olio sacro è versato sul capo, come si ricorda anche nel Salmo 133,2
ove si parla dell’olio prezioso sul capo, che scende sulla barba, sulla barba
di Aronne”.
L’olio di oliva, che era uno dei prodotti più importanti della Palestina,
aveva diversi usi nell’antichità. Esso era usato soprattutto
nell’alimentazione; poi serviva per l’illuminazione (Es. 27,20), per la cosmesi
(Rut 3,3) e come medicamento (Isaia 1,6). Pare che l’unzione con l’olio fosse
anche un modo per stringere alleanza nei rapporti fra nazioni o fra re (Osea
12,2). Il suo uso più importante era però legato all’investitura dei re (1 Sam.
10,1) e dei sacerdoti. Con questo gesto si indicava che le persone prescelte
ricevevano un incarico particolare, ma soprattutto, che erano “consacrate” a
Dio, cioè che entravano a far parte della sfera del sacro, collegato alla
presenza particolare di Dio.
Dopo la consacrazione, si celebrano tre sacrifici diversi. Il primo, è un
tipico “sacrificio di espiazione” dei peccati. In esso una
funzione di rilievo è espletata dal sangue della vittima, il torello: il
sangue, segno della vita, è versato alla base e sui quattro corni dell’altare,
cioè sui quattro angoli, simbolo della potenza divina (Es. 27,2). Il grasso,
considerato la parte più nobile perché segno di abbondanza, è offerto a Dio,
mentre il resto della vittima è arso fuori dell’accampamento di Israele, come
segno dell’impurità del popolo.
In un normale sacrificio per i peccati, al sacerdote toccava una parte
della vittima (Lev. 5,13; 6,22). In questo caso però, non gli è dovuta, perché
la vittima è stata immolata per i peccati degli stessi sacerdoti.
Al sacrificio espiatorio dei peccati, celebrato col rito del sangue, segue
un secondo atto sacrificale, quello dell’olocausto”. Uno
dei due arieti, presentati all’inizio della cerimonia (Es. 29,3), è immolato e
il suo sangue asperso sull’altare; fatto a pezzi, è totalmente bruciato perché
salga come offerta gradita al Signore, espressione della donazione che Israele
fa di se al suo Dio attraverso la mediazione dei sacerdoti. Sul secondo ariete
sono imposte le mani, quasi a voler trasferire se stessi nell’animale offerto
al Signore.
Col sangue della vittima si compie poi un curioso rito di consacrazione dei
sacerdoti, Mosè mette un poco del sangue dell’ariete sul lobo dell’orecchio
destro, sul pollice della mano destra e sull’alluce del piede destro di Aronne
e di ognuno dei suoi figli per indicare la loro totale consacrazione al
Signore, quindi sono rivestiti dei paramenti sacerdotali. L’orecchio, la
mano e il piede dei sacerdoti sono bagnati con il sangue della
vittima, che è sparso anche sull’altare. Questo gesto vuole richiamare ciò che
abbiamo visto fare da Mosè per il popolo in Es. 24: in quel contesto esso
significava la consacrazione di tutto il popolo a una relazione privilegiata
con Jahwè, secondo l’espressione di Es. 19,6: “Voi sarete per me un regno di
sacerdoti”. Nel caso di Aronne e dei suoi figli si tratta invece
dell’investitura ad una missione particolare. Si noti che, secondo una cultura
diffusa, si privilegia la parte destra del corpo, che ha un valore positivo,
contrariamente alla sinistra. La scelta delle parti del corpo da aspergere
(capo, piede, mano) vuole probabilmente essere segno della totalità della
persona consacrata al Signore.
Il grasso, la coda e la coscia destra (le parti grasse e prelibate)
dell’ariete, i pani, le focacce e le schiacciate sono poste sulle palme delle
mani dei sacerdoti che li “agiteranno”.
Probabilmente si trattava di un rito particolare,
mediante il quale il sacerdote dapprima innalzava agitandole, le parti scelte
della vittima verso l’altare, indicando così che erano state offerte a Dio, poi
le abbassava verso se stesso, significando che Dio le restituiva ai sacerdoti
per il loro sostentamento.
Si attua così il terzo rito, quello di “comunione” :
la vittima è consumata sia da Dio sia dal fedele, idealmente assisi in pace e
in intimità alla stessa mensa, ed è per questo che il sacrificio è detto di
“comunione” o “pacifico”. Dopo una parentesi sulle vesti sacre e sulla loro
trasmissibilità ereditaria (si tratta di un’inserzione fuori contesto), si
conclude il sacrificio di comunione col pasto sacro a cui si accennava. Aronne
e i suoi figli espressione del collegio sacerdotale, si nutrono della carne
prelevata dall’ariete offerto e dei pani azzimi. Solo loro hanno il diritto di
partecipare a questo banchetto, non i “profani”, cioè i membri delle altre
tribù. Gli avanzi del banchetto (carne e pane azzimo) non si potevano
conservare fino al mattino seguente: si dovevano bruciare terminato il pasto. La
solenne celebrazione della consacrazione sacerdotale durava sette giorni
durante i quali si rinnovavano gli stessi riti sopra descritti. A proposito del
terzo sacrificio, quello di comunione, si ricordi che esso era stato evocato
anche durante l’atto solenne di stipulazione dell’alleanza col Signore al
Sinai. Si diceva, infatti, che i capi d’Israele “videro il Signore e tuttavia
mangiarono e bevvero” (Es. 24,11). Dopo la consacrazione dei sacerdoti, ecco
quella dell’altare, altrettanto complessa. Per sette giorni si celebra un
sacrificio espiatorio, per purificare l’altare così da renderlo sacro e adatto
al culto. Materia del sacrificio sono due agnelli di un anno, l’uno per il rito
mattutino, l’altro per quello vespertino. Si ricorda anche che tale
celebrazione si doveva compiere “ogni giorno per sempre”, con evidente
allusione al culto quotidiano che si celebrava nel Tempio di Gerusalemme.
Agli agnelli si accompagnano focacce preparate con un decimo di “efa”
(più di tre litri e mezzo, poiché un’efa equivale a circa 36 litri) di farina,
impastata con un quarto di “in” (un litro e mezzo; un in
equivale alla sesta parte di un’efa, cioè a circa 6 litri) di olio o offerte di
un quarto di in di vino (circa 1,58 litri).
Ancora una volta l’autore biblico sottolinea che si tratta di un sacrificio
“perenne”, cioè offerto ogni giorno nel santuario del Signore. Anche se la
pratica dei sacrifici quotidiani è senz’altro antica, tuttavia sembra che, in
genere, si tratti di un olocausto solo alla mattina e dell’offerta d’un pasto
alla sera (2 Re 16,15). In Ezechiele 46,13-15 e in Lev. 6,5 si parla solo d’un
olocausto mattutino. Quindi la consuetudine di olocausti mattutini e vespertini
e l’inserzione di questa legislazione sembrano aggiunte posteriori.
L’espressione: “Io sono il signore, loro Dio” richiama l’alleanza che Dio
ha stabilito con il suo popolo e il Suo intervento per liberare Israele dalla
schiavitù . In questo modo la celebrazione liturgica è l’azione di lode e di
grazia che il popolo deve rendere a Dio riconoscendo tutto ciò che Egli ha
compiuto in suo favore. Si
passa ora alla descrizione dell’altro altare, quello detto dei profumi, cioè
dell’incenso che è offerto alla divinità. Si tratta di un uso attestato presso
tutti i popoli orientali, tant’è vero che l’archeologia ha messo in luce altari
o incensieri destinati a simili riti in molte località del vicino Oriente. L’incenso
compare anche nel N.T. tra i doni che i magi offrono a Gesù (Mt. 2,11). Così
come è descritto, l’altare si presenta simile a un parallelepipedo di legno
d’acacia, alto un metro e di mezzo metro per lato, rivestito d’oro, con anelli
per le stanghe del trasporto e con i corni ai quattro angoli, come per l’altare
degli olocausti. Collocato davanti al velo che nascondeva l’arca della
testimonianza, cioè al di qua del Santo dei Santi, l’area più sacra della tenda
del convegno, l’altare era destinato alla combustione degli aromi vari e degli
incensi offerti a Dio.
Ogni mattina e ogni sera il sacerdote, dopo aver controllato e alimentato
le lampade del candelabro, offriva un sacrificio di incenso al Signore, simbolo
della lode perenne di Israele. L’orante del Salmo 141,2 esclama:
“Salga la mia preghiera come incenso davanti a te”. Una volta all’anno il sommo
sacerdote con un rito espiatorio, cioè ungendo col sangue delle vittime i corni
dell’altare, purificava e riconsacrava l’altare, arredo significativo del
santuario. La descrizione della tenda del convegno e degli oggetti sacri è
interrotta dalla menzione di un censimento dei figli d’Israele destinato a
determinare il contributo da offrire per l’erezione del santuario. Il testo
parlando del censimento del popolo d’Israele, menziona la possibilità che ad
esso siano associati dei “flagelli”. La concezione evoca
immediatamente la collera di Dio, essendo Lui l’unico sovrano che può censire
il suo popolo, dato che questo era un atto tipico di governo e di potere. E’
quanto accade a Davide: Davide ordina il censimento del popolo, ma questo si
rivela come un grave peccato che comporta un intervento punitivo di Dio, il
quale manda tre giorni di peste nel paese.
Ma col pagamento d’un “riscatto per la propria persona”
il censito sperava di sfuggire ad una brutta sorte.
Tratto da http://www.corsobiblico.it/ di Don Antonio Schena
Tratto da http://www.corsobiblico.it/ di Don Antonio Schena
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