mercoledì 2 ottobre 2013

conclusione dell'esodo

Proseguiamo la nostra narrazione nel libro dell’esodo attraverso gli appunti tratti da don Antonio Schena. L’Esodo prosegue introducendo l’origine della tassa che ogni ebreo pagava per il mantenimento del Tempio
Ogni persona doveva pagare mezzo siclo, valutato sul “siclo del santuario” (unità monetaria specifica equivalente a 20ghere. La ghera era un’unità di peso, la più piccola usata in Palestina e nel mondo antico, che corrispondeva a circa 0,55 grammi). Con un’ipotetica determinazione basata su dati posteriori possiamo pensare che si trattasse di un versamento di quasi sei grammi di metallo prezioso. Ci attende, però, la descrizione di un altro oggetto liturgico, la “vasca di bronzo” delle purificazioni rituali.
Nella Bibbia è puro tutto ciò che avvicina a Dio e favorisce il culto. Impuro è ciò che allontana da Dio e impedisce il culto a lui dovuto. Nessun israelita poteva presentarsi al Tempio senza essersi lavato e senza essersi cambiato gli indumenti. Per facilitare la purificazione, all’esterno del santuario si collocavano delle apposite vasche (1 Re 7, 23-38). Anche la guerra considerata sacra, rendeva necessaria l’osservanza dei riti di purificazione (Deut. 23, 10-12).
Bacili o vasche o fontane con simili funzioni, come è noto, sono anche presenti all’esterno di edifici sacri di molte confessioni religiose. I sacerdoti, quindi, devono lavarsi le mani e i piedi prima di presentarsi davanti al Signore; la stessa norma è osservata da tutti i Musulmani, prima di pregare nelle moschee, ancora oggi. Un grande spazio nelle norme liturgiche che stiamo esaminando è, però, riservato alla composizione dell’olio sacro destinato alle consacrazioni. Ungendo con olio il sacerdote o il re si pensava che nella persona del consacrato si irradiasse l’energia divina. “Messia” è appunto il termine ebraico che significa “unto”, “consacrato” e che avrà significati molto alti nella tradizione biblica, soprattutto quando sarà applicato al re perfetto, discendente della dinastia davidica. In greco il termine “Messia” sarà tradotto con “Cristo” che ha lo stesso valore, cioè l’unto” del Signore.
La composizione dell’olio è ora definita in tutti i suoi ingredienti e nelle rispettive quantità (unità di misura è sempre il siclo che in seguito equivarrà a 11 grammi e mezzo circa). Ecco, dunque, la mirra fluida (sostanza gommoresinosa proveniente dall’Arabia) molto più pregiata di quella solida; ecco il cinnamomo (affine all’alloro); ecco la cannella (derivante dalla corteccia di cinnamomo) e la cassia (derivante dalla scorza odorosa ed essiccata di una pianta simile all’alloro); ecco l’olio d’oliva nella misura di sei litri (un “hin”).
Con questa miscela aromatica si consacravano tutti gli arredi del santuario, rendendoli così riservati al solo uso sacro, e i sacerdoti durante il rito di consacrazione. Ogni altro uso profano era severamente proibito.
Altrettanto accuratamente è definita la composizione dell’incenso da offrire “sull’altare dei profumi” sopra descritto.
Bruciare l’incenso per profumare i diversi ambienti (tende, templi, palazzi) è abitudine diffusa in Oriente. Nella simbologia del testo biblico l’incenso è immagine della preghiera che sale a Dio, come il sacrificio o l’offerta (Salmo 141,2: “Salga la mia preghiera come incenso davanti a te, le mie mani alzate come sacrificio della sera”). Ogni giorno, al mattino e alla sera, era compiuta nel Tempio di Gerusalemme, da parte dei sacerdoti, l’offerta dell’incenso.
Balsami vari, incensi preziosi ricavati da resine, lo storace (balsamo fragrante estratto dalla corteccia di un albero); il galbano(resina di un’ombrellifera siriana) e l’incenso (anch’esso una resina fragrante), sono ridotti in polvere e bruciati in onore del Signore.
Con questo effluvio di aromi si conclude la lunga serie di norme liturgiche rivelate da Dio a Mosè sul Sinai. La Tradizione Sacerdotale ha, così, esaltato e “canonizzato” tutto il sistema liturgico del Tempio di Gerusalemme ponendolo all’insegna dell’esodo, della rivelazione sinaitica e di Mosè.

Ora Dio designa gli artefici del santuario, Bezabel e Ooliab, “ispirandoli” col suo spirito di sapienza, di intelligenza e di scienza. C’è, quindi, un’ispirazione” non solo per annunziare la parola di Dio e scriverla ma anche per metterla in opera nei suoi contenuti concreti.
Con questa designazione ufficiale si ha l’occasione per elencare sinteticamente tutto ciò che è stato descritto a proposito del santuario e del suo arredo liturgico. Il tutto è sigillato da una ripresa della legge del “sabato”. Il “sabato”, infatti, è il tempo sacro per eccellenza che si vive all’interno dello spazio del santuario. In questo contesto, la sua osservanza, è vista come un “segno” della relazione tra Dio e il suo popolo.  Stringendo alleanza con Abramo, Dio aveva chiesto di osservare la “circoncisione”, come segno dell’alleanza.
Si comprenda come questi due precetti siano sempre stati fondamentali nella storia d’Israele e rivestano ancora oggi una notevole importanza nella vita e nella fede del pio israelita. Essi esprimono l’identità stessa del popolo, la sua relazione con Dio e la conseguente “diversità” rispetto a tutti gli altri popoli. Questa attenzione al precetto del sabato poteva, però, portare anche a estremi ingiustificati: Gesù ricorderà perentoriamente che il “sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, contro coloro che volevano porre l’osservanza formale del precetto al di sopra dell’amore per il prossimo.
Si conclude, così, questo ampio sistema di norme rituali, presentate da Dio stesso a Mosè durante il suo lungo soggiorno di 40 giorni sulla vetta del Sinai. Che esse siano poste sotto l’autorità divina è espresso attraverso l’immagine del “dito di Dio” che le incide sulle tavole di pietra della “Testimonianza” divina.
Era pratica usuale scrivere leggi sulla pietra, quasi per indicare la stabilità nell’antico testamento, mentre  la Legge della Nuova Alleanza è  scritta nei cuori, che sono i cuori di carne” (2 Or. 3,3).
E’ giunto ormai il momento di comunicare al popolo e di mettere in esecuzione la rivelazione destinata dal Signore a Israele.  Al dono dell’alleanza e della parola divina Israele reagisce con quel peccato capitale che macchierà spesso la storia del popolo ebraico: l’idolatria.
Jahwè “informa Mosè del peccato del popolo”. Questi versetti provengono necessariamente da una fonte diversa da quella del v. 18 in cui Mosè sembra ignaro di ciò che sta succedendo nell’accampamento.
La narrazione si trasforma in una dura requisitoria contro il peccato d’apostasia (cioè di abbandono della propria fede) dalla purezza religiosa e, indirettamente contro la classe sacerdotale rappresentata da Aronne, dimostratosi incapace di tutelare questa purezza. Il gesto di Israele, accompagnato da una liturgia idolatrica, scatena l’ira divina che vorrebbe distruggere il popolo ribelle. Mosè, allora, si riveste della funzione di intercessore, il cui compito è quello di “addolcire il volto del Signore”. Egli lo fa attraverso una supplica che contiene tre argomenti per placare la giustizia divina. Due ragioni sono “storiche”, cioè appellano alla promessa divina fatta ai patriarchi e alla liberazione dell’esodo, segni di un amore indistruttibile per Israele: neppure il peccato più grave potrà eliminare l’impegno della salvezza assunto solennemente da Dio a favore del suo popolo. L’argomento più curioso è, invece, di tipo “apologetico”, cerca cioè di difendere l’onore di Dio presso gli Egiziani. Costoro, infatti, qualora vedessero Israele sterminato nel deserto, crederebbero che il Dio d’Israele è inesistente e crudele, incapace di salvare il suo popolo: “Li ha fatti uscire con malizia, per ucciderli sui monti”. Mosè riesce, così, a convincere Dio di non applicare la sua rigorosa giustizia e s’avvia verso l’accampamento in festa. Presso gli antichi la danza accompagnava le feste e le celebrazioni sacre.
Mosè, scendendo dal monte, stringe tra le mani le due tavole, “scrittura di Dio” sacra e intoccabile. Lo accompagna il suo futuro successore, Giosuè, quest’ultimo illuso che i canti che si odono siano di guerra e non rituali idolatrici. Di fronte alla festa sguaiata del popolo scatta la reazione veemente di Mosè che spezza le tavole sulla roccia e queste tavole infrante sono il segno evidente della rottura dell’alleanza tra il Signore e Israele. Poi Mosè frantuma e polverizza il vitello d’oro, dissolvendone i resti nell’acqua, dove il popolo si disseta, simbolo questo della loro incorporazione col peccato, penetrato nelle loro più intime fibre.
Dopo il delitto del vitello d’oro, Mosè e Aronne si affrontano in un incontro serrato in cui il Sacerdote Aronne cerca di giustificare il suo comportamento remissivo nei confronti del popolo, desideroso soltanto di rappresentare il Signore in modo concreto e immediato, così come facevano le altre nazioni circostanti. Il popolo, anche adesso che ha sperimentato la collera di Mosè non riesce a frenarsi sulla china dell’idolatria. Mosè, allora, fa scattare il giudizio sul peccato ostinato. Chiama a raccolta tutti i fedeli alla purezza della religione. Al suo fianco si schierano i Leviti, custodi dei santuari locali e poi del Tempio di Gerusalemme, mette in risalto la loro fedeltà a Dio e a Mosè, mentre allude al loro importante ruolo nella comunità religiosa di Israele. C’è, quindi, una distinzione tra il sacerdozio in senso stretto e gli altri membri della comunità liturgica, i Leviti, appunto. Questi ultimi si rivelano zelanti nel difendere la causa della fede pura.
La distinzione qui suggerita rimanda a un’epoca successiva in cui esisteva una separazione di grado e di funzione tra sacerdoti e leviti. Si assiste, secondo lo stile orientale, a una strage santa.
Certo, il cammino verso il perdono divino è ancora lungo, ma è già aperto. Infatti subito dopo Mosè sale sul monte per impetrare da Dio il perdono pieno per il popolo, pronto a desiderare per se la morte, qualora non fosse esaudito. L’essere cancellato dal libro” della vita, significa semplicemente morire. Era convinzione degli antichi che Dio avesse un libro sul quale erano segnate le opere, buone o cattive, di tutti i viventi e le azioni dei giusti, meritevoli di ricompensa, e quelle degli empi, meritevoli di castigo , Siano cancellati dal libro dei viventi e tra i giusti non siano iscritti. Anche nel N.T. è presente questo simbolismo.
Il Signore, placato da Mosè, invita gli Israeliti a proseguire nella marcia verso la terra promessa, guidati dal suo angelo. Dio non smentisce l’impegno assunto con i padri d’Israele. La giustizia divina concede, dunque, una tregua ma avrà la sua attuazione nel “giorno della visita” . Con questa espressione si vuole alludere all’intervento definitivo che il Signore compirà all’interno della storia, quando egli condannerà il male in maniera conclusiva e offrirà in pienezza la sua salvezza. Una distanza ormai s’è frapposta tra il Signore e il popolo di “dura cervice”, cioè ostinato nella ribellione e nel peccato. Dio, infatti, per ora non vuole camminare accanto a Israele ancora impuro, sarà rappresentato solamente dal suo angelo. Gli Israeliti, intanto, si rattristano facendo sbocciare il seme della conversione. Decidono, così, di abbandonare gli ornamenti, segno della festa peccaminosa a cui si erano abbandonati.
Si apre a questo punto in modo inatteso un paragrafo che riporta in scena del santuario.
 Il Tabernacolo doveva essere al centro dell’accampamento, mentre il Tabernacolo di convegno si doveva erigere fuori del campo, I Leviti erano i ministri del Tabernacolo,  mentre di questa tenda lo era Giosuè. Essa era semplice e piccola, poiché Mosè la drizzò da solo: il Tabernacolo e tutti i suoi arredi richiederanno numerosi portatori. Manca pure la liturgia connessa al Tabernacolo. Questa tenda sembra servire più come luogo di oracoli (Num. 17, 7-9), cioè come posto di convegno; non è una dimora come il Tabernacolo. Quando Mosè cercava il consiglio di Dio, allora entrava in questa tenda ed attendeva la presenza di Jahwè, segnalata dalla discesa della nube su di essa. Una volta stabilitosi nella terra promessa, Israele consulterà Dio nel Tempio.
Gli Isreliti osservavano con riverente timore questi incontri di Jahwè con Mosè, seguendoli di lontano, ciascuno dall’ingresso della propria tenda (vv. 8 e 10). Questo particolare tabernacolo, quindi, era un mezzo singolare nel quale Mosè poteva incontrarsi da solo con Jahwè (Num. 10, 4-8). L’esperienza “a faccia a faccia”, della presenza di Dio, proviene da una fonte diversa da quella di Esodo dove si afferma esplicitamente che nessuno può vedere Dio e continuare a vivere.
Il racconto, che aveva mostrato la durezza della giustizia divina, si placa ora nella celebrazione d’un incontro d’amore e di comunione tra il Signore e il suo fedele.
Mosè è all’interno del santuario, collocato fuori dall’accampamento d’Israele, ed è in dialogo con il Signore. La sua è una domanda ardita: egli vuole sapere quale sarà la “via”, cioè il destino che il Signore ha in mente per il suo popolo, e se lo accompagnerà ancora nel cammino verso la terra promessa, la terra del “riposo” sereno. La risposta breve e positiva di Dio (“camminerò con voi e vi farò riposare”) non convince del tutto Mosè che replica in modo impacciato e confuso, rinnovando la richiesta di quella presenza divina: la differenza tra Israele e gli altri popoli consiste nel fatto che il Signore cammini col suo popolo. E Dio ribadisce la sua promessa di essere vicino a Israele per merito di Mosè che “ha trovato grazia ai suoi occhi”. Dopo il peccato del vitello d’oro, il Signore riprende la sua funzione di guida d’Israele, di suo pastore e salvatore.
Mosè si fa ancora più ardito e chiede di contemplare la “Gloria” divina, cioè la realtà stessa di Dio. Il suo è il desiderio mistico di poter fissare gli occhi nella “Gloria” del Signore senza restarne accecato. E’ l’anelito verso una conoscenza piena del mistero infinito del Signore. Ma nessun uomo può essere in grado di comprendere questo orizzonte immenso di luce: l’uomo non può vedere Dio e restare in vita, ripete la Bibbia, perché c’è un grande abisso tra il Creatore e la creatura. Il Signore, però, sa che il desiderio di Mosè non è una sfida ma esprime un’ansia genuina e allora con tenerezza lo conduce a vedere un bagliore della sua realtà: non sarà il volto, segno ultimo dell’identità, ma le spalle, cioè il passaggio fugace del divino. Stupenda è la scena della piccola grotta in cui è nascosto Mosè. Dio stende la sua mano durante il passaggio perché Mosè non resti incenerito da quel bagliore di luce che è Dio. Solo quando sarà lontano, il Signore si lascerà intravedere dal suo servo fedele.
Dopo l’intercessione di Mosè, il pentimento di Israele, il giudizio e il perdono di Dio, si apre l’alba di una nuova èra. Si rinnova l’alleanza infranta. Si ritrovano, perciò, gli stessi elementi che avevano contraddistinto la prima alleanza, quella descritta nei capitoli 19-34 dell’Esodo: ordine di preparare le tavole e salire sul monte (34, 1-4), l’apparizione divina (vv. 5-9), l’alleanza e la Legge (vv. 10-28), la trasmissione a Israele della Legge (vv. 29-35).
Mosè invoca nella solitudine del monte il nome del Signore ed ecco che Dio si presenta offrendo quasi la sua “carta d’identità”. Si tratta di una stupenda professione di fede messa in bocca a Dio stesso, aperta dal nome divino JHWH  ripetuto due volte e accompagnato subito dagli attributi che definiscono la sua alleanza con Israele, la pietà e la misericordia, la grazia e la fedeltà, titoli che nell’originale ebraico esprimono un’intensità e un’intimità fortissime. Come si diceva nel primo comandamento (Es. 20, 5-6), la giustizia divina è severa e perfetta (“castiga fino alla terza e alla quarta generazione”), ma la sua misericordia e il suo amore sono superiori e infiniti perché si stendono per “mille generazioni”. La giustizia ha un limite, l’amore è illimitato. Mosè allora, chiede che questa strada del perdono sia destinata a Israele, popolo ostinato (“di dura cervice”) ma “eredità” del Signore, cioè sua proprietà personale e inalienabile.
Dopo il peccato d’Israele, espresso nella riduzione del Signore a un idolo della fertilità, simboleggiato nel toro sacro, dopo il perdono e il nuovo incontro di Mosè con Dio, si rinnova solennemente l’alleanza. Gli studiosi sono convinti che questa pagina sia il testo più antico del patto tra Israele e il suo Dio. Non per nulla questo testo appartiene alla tradizione Jahwista, la più antica delle tradizione del Pentateuco. Il Decalogo, che qui è proposto come tavola dei doveri da rispettare da parte di Israele, è di taglio liturgico ed è, perciò, diverso da quello di tipo più morale della prima alleanza (Es. 20).
Al culto pagano celebrato nell’infame liturgia del vitello d’oro si oppone ora il nuovo culto “in spirito e verità”, come si dirà in Gv. 4,24. Anche se le norme qui elencate non sono presentate in un Decalogo in senso stretto, possiamo semplificarle in dieci articoli.
Il primo comandamento è un severo attacco sferrato contro l’idolatria cannacea che tenterà Israele e provocherà la “gelosia” del Signore.
Il sincretismo religioso, esprime il desiderio di fondere insieme in modo confuso religioni differenti. Abbracciare la religione dei popoli vicini è stata la tentazione più forte per Israele. Il non stringere alleanza con loro e la distruzione di ogni segno dei loro culti sono ammonimenti che Dio rivolge con frequenza al suo popolo (Es. 34,12). L’evento dell’esilio (587-538 a.C.) sarà visto come punizione alla sua idolatria.
L’edificazione di altari di pietra è comune alle religioni dell’antico Oriente. Le stele sacre (in ebraico “massebot”) erano pietre lavorate in forma quadrangolare, rotonde o piramidali, le quali simboleggiavano la divinità maschili della religione dei popoli cananei. I pali sacri, in ebraico “asherim”, dal nome della dèa Ashera, erano alberi oppure tronchi eretti in onore di questa divinità femminile, venerata come fonte e dispensatrice di fecondità e fertilità.
Il “Dio geloso” (“El qanna” in ebraico) si trova cinque volte nella Bibbia. Nella concezione religiosa d’Israele, il culto a Dio è esclusivo. Nel mondo pagano, invece, il culto di un dio si poteva conciliare con quello degli altri dèi. Il Dio della Bibbia non tollera l’apostasia del suo popolo, ne permette che un altro dio si impossessi della sua eredità più preziosa, cioè il popolo che ha scelto .
Il secondo comando divino è affine al precedente e vieta le commistioni con gli altri popoli perché essi trascinerebbero Israele ai loro culti, spesso segnati dalla “prostituzione sacra”, cioè dall’unione sessuale con i sacerdoti e le sacerdotesse dei culti della fertilità. Il peccato del vitello d’oro, come si è detto, apparteneva appunto a questo genere di culti. Un terzo articolo comprende l’osservanza della festa dehli Azzimi (Esodo 12). Un quarto comando riguarda la ben nota consacrazione a Dio dei primogeniti (Esodo 13). Quinto comandamento: le offerte rituali (“non ti presenterai davanti a me a mani vuote”). Sesto impegno: l’osservanza del sabato. Come settimo articolo si ha l’adesione al calendario delle varie solennità, qui ancora tratteggiate sotto il profilo agrario (mietitura e raccolto) ma anche secondo l’impegno del pellegrinaggio dai villaggi al santuario ove è presente il Signore. Come in altri casi, queste norme sono posteriori e suppongono Israele già stanziato nella terra promessa. Con l’ottavo comandamento si ritorna alla Pasqua, distinta dagli Azzimi già descritti. L’offerta delle primizie al Signore potrebbe essere il nono articolo di questo Decalogo, concluso nel decimo comandamento dalla norma alimentare – già incontrata in Es. 23,19 – dell’evitare di “cuocere un capretto nel latte di sua madre”.
Dopo un soggiorno sul monte di 40 giorni e 40 notti, trascorsi nel digiuno, simbolo di un tempo perfetto, Mosè scende dal Sinai trasfigurato. Il suo volto emana una luce abbagliante che intimorisce gli Israeliti e che è riflesso della luce divina, Mosè deve porre sul suo viso un velo (il termine ebraico “masveh” = “velo” è usato solo in Esodo 34, 33-35. Nella 2 Or. 3, 13-16 S. Paolo commenta in chiave cristiana questo brano per distinguere le due alleanze, la prima stretta con Mosè e la seconda, definitiva, con Cristo: “E non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli d’Israele non vedessero la fine di quello che svaniva... fino ad oggi, quando si legge Mosè. Un velo pesa sul loro cuore, ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto”), simile a quello che nascondeva il Santo dei Santi a ogni sguardo profano.
Questo racconto dell’esodo ha stimolato anche l’arte cristiana nella raffigurazione del profilo di Mosè. “Raggio” in ebraico si dice “qeren” ( “il suo viso era raggiante”),  
Archiviato il caso amaro del vitello d’oro, ottenuta dal Signore una nuova legge che fondasse l’alleanza rinnovata, Mosè ora la presenta a tutto il popolo perché la metta in pratica.
La lunga sequenza di norme che ora sono proposte sono di taglio liturgico: si corregge in questo modo la deviazione del culto pagano, praticato da Israele davanti a Dio rappresentato sotto l’immagine del toro, simbolo della fecondità divina.
Là era il Signore che la comunicava a Mosè; mentre qui è lo stesso Mosè che la riferisce alla comunità dei figli d’Israele” (la lingua ebraica usa due termini per indicare la comunità o l’assemblea di Israele. Il primo è “qahal”, che indica l’insieme del popolo biblico radunato; il secondo è “edah”, che è proprio della Tradizione Sacerdotale e si riferisce all’assemblea radunata per il culto. In Esodo 35,1 la presenza di questo secondo termine è motivata dalla legislazione liturgica di cui è destinataria la comunità) perché la esegue fedelmente.
Le varianti che si incontrano rispetto alla prima formulazione riflettono tradizioni diverse che trasmettono, però, la sostanza delle cose in modo parallelo.
Si comincia ribadendo l’osservanza del sabato e del relativo riposo da attività normali, tra le quali si menziona l’accensione del fuoco” (questa prescrizione non ha riscontri in tutta la Bibbia, ne è conosciuta la sua origine. Certamente essa ha lo scopo di rafforzare la proibizione di lavorare di sabato, un divieto rigorosamente rispettato ancora oggi dagli Ebrei osservanti).
Durissima è la pena per ogni violazione del sabato: la pena di morte è un modo per indicare che si è espulsi dalla comunità santa. D’altra parte il sabato per la Tradizione Sacerdotale, sorta durante l’esilio babilonese, era segno dell’identità di Israele in mezzo ai popoli stranieri.
Proclamata questa osservanza capitale, si passa alla raccolta delle offerte volontarie per l’erezione e l’arredo del santuario: metalli, pietre e tessuti pregiati, legni, pelli, olio, aromi sono raccolti e affidati agli artisti perché inizino il lavoro di costruzione della tenda, dell’arca, della tavola dei pani della presentazione, dei tendaggi, dei veli, delle vesti sacerdotali, del candelabro (il candelabro è il piedistallo sul quale erano collocate le lampade a olio. Quello a 7 bracci , in ebraico “menorah”, è diventato simbolo del giudaismo. Nel N.T. la lampada posta sul candeliere è l’immagine della comunità cristiana, che fa risplendere la gloria di Dio davanti al mondo (Mt. 5, 14-16).
La lunga elencazione di tutti gli oggetti sacri riguardanti la dimora divina in mezzo a Israele, descritta pubblicamente da Mosè davanti a tutta l’assemblea dei figli d’Israele, è ripresa, almeno per quanto concerne i materiali, nel racconto dell’esecuzione.
Gli Israeliti, infatti, dopo aver ascoltato le parole di Mosè, portano le loro offerte secondo le indicazioni ricevute.
Come tutte le antiche religioni, anche la religione ebraica conosce la consuetudine delle offerte e delle collette per il Tempio del Signore e per le necessità della comunità.
Nella Bibbia sono ricordate la colletta fatta da Giuda Maccabeo per offrire un sacrificio di espiazione nel Tempio (2 Maccabei 12,43) e quella organizzata dai deportati a Babilonia per la ricostruzione di Gerusalemme (Baruc 1, 6-7). S. Paolo elogia i cristiani di quella comunità per la colletta da loro organizzata a favore dei poveri della comunità di Gerusalemme.
Prima di tutto sono raccolti gli oggetti d’oro da fondere per le varie coperture protettive e ornamentali da approntare agli oggetti sacri.
Si passa poi ai tessuti, cioè ai due tipi di porpora (la viola e la scarlatta), il lino fino o bisso, i tessuti confezionati con peli di capra, le pelli conciate a tinte.
Le donne offrono anche la loro abilità manuale nel tessere, com’è d’uso ancor oggi in Oriente, e portano i loro filati.
Ai capi è riservato il dono dell’olio, degli aromi e delle pietre preziose per i due capi di abbigliamento propri del sommo sacerdote: l’efod e il pettorale.
La distinzione dei vari donativi e delle classi diverse di persone che li offrono, oltre a rispondere a differenze di ruoli, vuole anche esaltare l’impegno collettivo di tutto il popolo in quest’opera.
Si presentano ora due artisti che dovranno progettare e dirigere i lavori per l’erezione del santuario: Bezaleel della tribù di Giuda e Ooliab della tribù di Dan. Essi sono “ispirati” da Dio stesso che li ricolma della “sapienza del cuore”, cioè di una piena e totale capacità interiore, riguardante l’area sacra e la liturgia.
I due artisti procedono all’esecuzione dei lavori.
L’EDIFICAZIONE DEL SANTUARIO
Bezaleel e Ooliab valutano i materiali offerti dal popolo e scoprono che sono in quantità eccedente, rivelando così una straordinaria generosità e un vivo amore da parte d’Israele per la dimora del Signore in mezzo al suo popolo. Mosè fa, allora, sospendere la raccolta delle offerte. La generosità dell’Israele del deserto diventa, così, un esempio per le generazioni future, soprattutto per quella che ritornerà dall’esilio babilonese e dovrà ricostruire il tempio di Gerusalemme.
Iniziano ora i lavori di costruzione del santuario. Bezaleel fa approntare i dieci teli di lino fine per la copertura della tenda,  L’insieme dei teli forma una superficie di m. 14x20, in modo da coprire l’intera armatura in legno del santuario. I teli sono tenuti insieme da cordoni e fibbie così da costituire un’unica velatura. Si procede poi alla preparazione di teli di tessuti con peli di capra: essi sono undici, uno in più di quelli di lino più pregiato, perché devono scendere fino a fare risvolti protettivi. Il telo di pelo di capra ha, infatti, lo scopo di proteggere dal clima esterno la tenda: si tratta di un tessuto particolarmente resistente e impermeabile, ma anche sufficientemente poroso per assicurare una certa aerazione necessaria per chi era all’interno della tenda.
Anche i teli di capra sono fissati con cordoni e fibbie, non più d’oro – come nel caso dei teli di lino – ma di bronzo. Ultima copertura esterna è quella delle pelli di montoni, destinata a proteggere tutta la tenda sacra dagli agenti atmosferici eccezionali, in particolare dalle piogge che nel vicino Oriente sono rare ma anche torrenziali.
L’accuratezza delle descrizioni e delle misurazioni riflette la particolare attenzione che la Tradizione Sacerdotale manifesta nei confronti del culto, segno dell’identità di Israele in mezzo a popoli stranieri, come avveniva quando la stessa Tradizione si stava formando, cioè durante l’esilio babilonese (VI sec. a.C.).
Dopo i teli, Bezaleel procede alla costruzione dell’impianto in legno della tenda. Si tratta di un’armatura che precedentemente era stata minuziosamente descritta in Es. 26. A margine notiamo che nel nostro testo attuale si menziona la costruzione dei “cherubini lavorati artisticamente” (36,8). Come è noto, questo ornamento dell’arca di origine mesopotamica era l’unica rappresentazione figurativa ammessa dal Libro dell’Esodo in deroga alla rigida norma del Decalogo che proibiva le immagini (20,4). Il nome stesso “cherubinoderiva dall’accadico, una lingua mesopotamica, ove si ha “karibu”, che significa “colui che intercede, prega” e che era applicato a divinità di rango inferiore, destinate a proteggere uomini e cose dagli spiriti del male.
Bezaleel, l’artista ispirato e designato da Dio stesso per l’erezione del santuario mobile di Israele nel deserto, prosegue la sua opera con la preparazione delle assi per l’armatura della tenda dell’arca. Venti assi fissate a quaranta basi d’argento (così da non marcire) costituiscono la parete meridionale; altrettante sono necessarie per quella settentrionale; per il lato a occidente ne servono sei. La tenda, quindi, aveva rettangolo. Altre assi sono tagliate per gli angoli e sono fatte perfettamente combaciare, due per ogni angolo, per un totale di otto assi, anch’esse basate su supporti d’argento. Le traverse hanno, poi, la funzione di tenere saldamente unite le assi. La descrizione è come in quella parallela da noi in precedenza letta in Es. 26, 15-36, particolarmente puntuale anche perché non si tratta solo di un progetto “tecnico”, ma di un edificio liturgico i cui canoni di costruzione devono rispondere pure a criteri rituali e rubricari.
Si passa successivamente alla preparazione del velo destinato a dividere i due settori sacri in cui si articolava il santuario, cioè il Santo dei Santi, sede dell’arca, e il Santo. Si tratta di un velo di porpora e lino, ricamato con raffigurazioni di cherubini e retto da quattro colonne d’acacia rivestite d’oro. Un’analoga cortina dello stesso tessuto, appesa a cinque colonne, fungeva invece da copertura per l’ingresso della tenda.


Ecco ora la descrizione del lavoro di intaglio dell’oggetto sacro più importante: l’arca dell’alleanza, cuore del santuario del deserto. Come già sappiamo, da Esodo 25, 10-20, si tratta di una cassa rettangolare di m. 1,25x0,75x0,75, rivestita d’oro puro, con anelli alla base così da poter infilare le stanghe per il trasporto. Doveva, infatti, accompagnare i figli di Israele nella marcia del deserto, nelle battaglie, nell’attraversamento del Giordano e così via. Il libro del Deuteronomio 10, 1-5 affermerà diversamente da quanto dice il nostro testo – che fu Mosè a costruirla. L’arca scomparirà con la distruzione di Gerusalemme nel 586 a.C. e, stando a quanto dichiara Geremia 3, 16 “non si parlerà più di essa, non se ne avrà ricordo, non sarà più rimpianta ne rifatta”. Stando a indicazioni che appaiono qua e là nella Bibbia e che non sono però omogenee, all’interno dell’arca erano custodite le tavole del Decalogo, una misura di manna in memoria del dono offerto da Dio nel deserto (Es. 16,34) e il bastone sacro di Aronne.
Il “propiziatorio”, cioè la lastra d’oro puro connessa ai cherubini, che la proteggevano con le loro ali, era il coperchio dell’arca (in ebraico “kapporet” = “coperchio”) ma anche la sede della presenza divina. E’ per questo che – come già si è avuto occasione di dire – nella solennità del Kippur il sommo sacerdote incensava il propiziatorio e lo aspergeva col sangue delle vittime così da ottenere la “copertura” (la stessa radice ebraica) delle colpe del popolo, cioè il perdono dei peccati. Alla costruzione dell’arca è associata quella della tavola dei pani della presentazione,  le cui indicazioni sono qui riprodotte. Anche se qui non lo si spiega, questa mensa serviva a presentare a Dio dodici pani, detti “pani della faccia”, perché erano posti davanti al Signore presente nell’arca e simboleggiavano le tribù d’Israele.
L’opera degli artisti e dei loro collaboratori nell’erezione della tenda del convegno, cioè dell’incontro tra Israele e il suo Dio, prosegue ora con la costruzione del candelabro d’oro massiccio dal cui fusto si dipartivano sei bracci sorretti da due rami così da avere tre lampade per parte, completati al centro da un’altra lampada, direttamente connessa al fusto.
Le lampade erano poste sul candelabro, come loro naturale supporto, per illuminare in un raggio più esteso (Mt. 5,15: “Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa”). All’epoca del deserto avevano, e costituiva una componente di grande importanza simbolica all’interno dell’arredouna forma molto semplice, simile a una conchiglia, con un piccolo becco dal quale usciva lo stoppino acceso. Il candelabro, invece, era molto più elaborato.
Il candelabro, era riccamente ornato di fiori, corolle, calici a forma di mandorlo, pesava un talento d’oro puro, circa 34 chilogrammi del santuario. Le sue sette lampade, sempre ardenti, erano un segno della fede costante d’Israele, un segno pieno, come è indicato nel numero sacro e perfetto: il sette.
Stando a un’indicazione del libro dei Numeri , quando era portato durante le marce, il candelabro era coperto – con tutto il suo apparato di smoccolatoi, molle e portacenere – da un drappo purpureo.
L’altare dell’incenso modellato in legno d’acacia era naturalmente ricoperto d’oro, così da permettere la combustione degli aromi che esalavano verso Dio come segno dell’adorazione e della dedizione d’Israele al suo Signore. Diversamente dall’altare degli olocausti, rivestito di bronzo e collocato fuori del santuario, davanti all’ingresso della tenda, questo altare dell’incenso e dei profumi si ergeva davanti al velo che separava il Santo dei Santi dal resto della tenda. La sua dotazione era costituita da stanghe per il trasporto e da “incenso profumato, puro, opera di profumiere”.
A motivo del clima e del caldo gli orientali fanno un grande uso di profumi, mescolati all’olio o bruciati in recipienti speciali o fatti evaporare. Ma anche nel culto erano molti impiegati i profumi. Erano preparati con cura sotto la sorveglianza dei Leviti ed era rigorosamente vietato farne un uso profano. Anche l’olio necessario alle unzioni sacre era profumato, secondo ricette precise e costose. Proprio per la complessità del procedimento di preparazione dei profumi, in tutto il mondo dell’antico Oriente c’erano servi specializzati in questa mansione. Anche nella Bibbia troviamo la menzione di persone specializzate in questo compito (Esodo 30,25; 37,29; 1 Sam. 8,13). Il testo di Neemia 3,8 ci ha tramandato anche il nome di una di esse. Si parla infatti di un certo “Annata, uno dei profumieri” che collaborò all’opera di ricostruzione delle mura di Gerusalemme dopo l’esilio babilonese.
L’altare degli olocausti, destinato cioè alla combustione integrale della vittima sacrificale, è descritto sulla falsariga della precedente raffigurazione presente in Esodo 27, 1-8. Rivestito di bronzo e perciò chiamato semplicemente “l’altare di bronzo” era quadrato, con lati di 2,50 m. e un’altezza di 1,50 m. L’accompagnava un ricco arredo di recipienti, palette, catini, forcelle, bracieri, graticola, anelli e stanghe per il trasporto, tutti di bronzo. Il rito dell’olocausto richiedeva, infatti, una strumentazione specifica. Nel Tempio di Gerusalemme un simile sacrificio era offerto ogni giorno, mattino e sera.
Accostata all’altare degli olocausti era una vasca bronzea per l’acqua delle purificazione rituali: essa era stata preparata con bronzo lucido, simile a quello che nell’antichità era usato per gli specchi femminili. In questo caso erano state le donne, che prestavano servizio all’ingresso del santuario, a offrire i loro specchi per la realizzazione del manufatto.
Tutta l’area attorno alla tenda era recintata, come si diceva già in Esodo 27, 9-19. La cortina che segnava la frontiera tra lo spazio santo e quello profano era costituita da colonne che reggevano i tendaggi. Di tutto si offre una puntigliosa descrizione con misure, materiali, disposizione, struttura dell’insieme che aveva un perimetro di 50x25 m. Era questa l’area in cui sostava il popolo durante le liturgie, essendo la tenda del convegno riservata ai sacerdoti. Nel Tempio di Gerusalemme, nella forma più ampia a noi nota, cioè quella di Erode, il recinto si allargherà in atri o cortili, distinti secondo le persone che vi potevano accedere, cioè uomini, donne e persino pagani.
Continua la descrizione del recinto che separava l’area consacrata al culto da quella profana ove sorgeva l’accampamento dei figli d’Israele. Nel suo perimetro si apriva una porta protetta da un velo ricamato, alto 10 m e largo 2,50 m, e costituita da quattro colonne lignee rivestite nelle basi – come le altre colonne del recinto – e nei relativi uncini, picchetti e aste trasversali con materiale resistente come il bronzo e l’argento per impedire la corrosione del legno. A questo punto, all’interno della lunga descrizione dell’opera dell’architetto-capo Bezaleel, sostanzialmente ricalcata su quella già vista nei capitoli 25-31 dell’Esodo, si inserisce un’aggiunta inedita.
In essa entrano in scena i Leviti che, sotto la direzione di un figlio di Aronne, Itamar (che riapparirà solo in Numeri4,33), elaborano un computo dei metalli usati nell’erezione della dimora del Signore. Si tratta di una specie di rendiconto delle spese sostenute nell’impresa e redatto sulla base dei dati risultati dalle opere eseguite dal direttore dei lavori, Bezaleel, e del suo assistente Ooliab, responsabile degli intagli, dei disegni e dei ricami. La somma finale risulta di 29 talenti (ogni talento era di circa 34 chilogrammi) e 730 sicli (il talento valeva 3.000 sicli) d’oro. L’argento, invece, è quantificato in 100 talenti e 1.775 sicli, cioè mezzo siclo (detto “beka” che è una misura di peso equivalente a circa 6 grammi. La Bibbia non è uniforme nella determinazione dei pesi e delle misure) a testa per i 603.550 ebrei censiti come oblatori. Al di là dell’instabilità dei numeri, tipica di tutti gli antichi documenti – Bibbia compresa – e degli eventuali valori allusivi ad essi sottintesi, è ovvio che queste cifre mastodontiche riflettono una diversa situazione storica, forse quella dell’epoca monarchica posteriore. Si vuole, quindi, anche in questo caso cercare di ricondurre al Sinai tutto l’Israele biblico, soprattutto quello dell’epoca salomonica, quando sorse appunto il primo tempio.
Il rendiconto si articola poi nelle varie voci: 100 talenti d’argento per i vari basamenti, 1.775 sicli per gli uncini, le cime e le aste trasversali delle colonne del recinto del santuario. Si calcola anche l’impiego di bronzo in 70 talenti e 2.400 sicli, e la relativa applicazione è dettagliata con minuzia. Anche in questo caso riusciamo a scoprire un aspetto sorprendente della parola di Dio. Essa non teme di penetrare persino nei meandri quotidiani, nei bilanci, nei costi, nelle misurazioni, nelle questioni più concrete, rivelando che tutta la realtà può essere illuminata, santificata, trasfigurata e nascondere in se un significato più alto, un bagliore divino.
Con la descrizione dettagliata e accurata dei paramenti che il sommo sacerdote indossa, si vuole esprimere “la gloria e la maestà” (Esodo 28,2) che egli ha come rappresentante e servitore di Dio. Le pietre preziose, su cui sono scolpiti i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele, richiamano la funzione del sacerdote d’essere anche rappresentante del popolo, di cui espia i peccati. Il vestito nel mondo antico è segno della dignità e dell’onore in cui è tenuta la persona. Le vesti sacerdotali descritte con tanta ricchezza di particolari esprimono esse pure questa concezione che nell’A.T. è sempre presente.
Il sacerdozio israelitico non era una vocazione, che richiedeva una chiamata speciale di Dio: era una delle funzioni ereditarie; neppure esisteva un cerimoniale particolare usato di volta in volta per l’investitura dei sacerdoti. Questa avveniva semplicemente al primo contatto con le loro funzioni, che li dissociavano dal profano e li consacravano all’esclusivo servizio dell’altare. Il rito di “riempire le mani” (Esodo 29, 24-25) consisteva nel porre tra le palme del sacerdote, al momento della sua entrata in funzione, le porzioni della vittima destinate ad essere collocate sull’altare davanti al Signore. La Bibbia afferma che il sacerdozio ereditario fu affidato alla tribù di Levi durante il soggiorno nel deserto, al momento dell’episodio del vitello d’oro (Esodo 32,29). Il profeta Ezechiele distingue i sacerdoti, figli di Zadoq, che prestano servizio all’altare, dai Leviti, che prestano servizio negli altri locali del Tempio.
I paramenti sono in porpora, secondo le due qualità commerciali più note, quella viola e la scarlatta, un tessuto molto costoso, tinto con la sostanza estratta da un mollusco marino diffuso lungo la costa fenicia. La porpora, insieme col lino fine (il bisso), è il tessuto più usato per l'arredo del santuario. Confluiscono qui indicazioni liturgiche posteriori.
Il primo capo dell’abbigliamento e l’efod, che, originariamente era un perizoma poi divenuto una specie di corpetto di gran rilievo simbolico. Rispetto alla descrizione precedente (Esodo 28, 6-8), ora si aggiunge un particolare: il tessuto di porpora dell’efod era striato da sottili strisce d’oro. Tutto il resto – spalline, cintura, le due pietre d’onice con i nomi incisi delle dodici tribù – c’è già noto dal cap. 28.
I paramenti sacerdotali, oltre all’efod, comprendono anche il pettorale, già descritto in Esodo 28, 15-30 con dovizia di particolari che sono qui ripetuti. Questa specie di borsa quadrata di poco più di 20 cm per lato era sospesa alle spalline dell’efod e reggeva dodici pietre preziose, simbolo delle tribù d’Israele presentate dal sommo sacerdote al Signore. La serie di gemme è oggetto di discussione tra gli studiosi, essendo piuttosto rari i vocaboli che le definiscono. Non ci deve stupire se le traduzioni differiscano nell’elencazione di queste pietre disposte su quattro file: cornalina, topazio, smeraldo, turchese, zaffiro, diamante, giacinto, agata, ametista, crisolito, onice, diaspro. Il collegamento del pettorale con l’efod è assicurato da tutto un complesso di catenelle, castoni, anelli e legacci, così da costituire quasi un unico paramento. Quest’insieme costituiva l’insegna più alta di tutto l’abbigliamento liturgico.
Si descrive poi il manto sacerdotale, i cui orli sono ornati con melagrane e recano appesi campanelli che, come si è già detto in Esodo 28, 33-35, avevano la funzione di segnalare la presenza sacra del sacerdote e forse anche allontanare col loro tintinnio gli spiriti del male, convocando contemporaneamente l’assemblea dei figli d’Israele per il culto. Le tuniche di lino, il turbante del sommo sacerdote, i copricapo degli altri sacerdoti, i calzoni anch’esso di lino, le cinture ricamate, la lamina d’oro del turbante “pontificale” con la scritta “Consacrato del Signore” concludono questa lunga descrizione dell’abbigliamento sacerdotale confezionato dagli artigiani d’Israele per la celebrazione del culto nel santuario del deserto, ma anche e soprattutto nel futuro tempio di Gerusalemme.



Con la sfilata delle vesti sacerdotali si chiude anche l’opera d’allestimento del santuario.
Ora avviene la consegna ufficiale di tutti i materiali sacri a Mosè. Si ha, in tal modo, un’ultima occasione per offrire al lettore l’elenco completo degli oggetti e delle strutture che componevano la dimora di Dio in mezzo al suo popolo pellegrino nel deserto. Mosè controlla la legittimità di tutto quest’apparato valido per il culto e impartisce la sua solenne benedizione.
E’ giunto il momento dell’erezione e della consacrazione del santuario, ora che Bezaleel e i suoi collaboratori ne hanno approntato tutti gli elementi. Il primo giorno del primo mese del secondo anno (v. 2 e 17), in altre parole nove mesi dopo l’arrivo al Sinai, ove si era giunti il terzo mese del primo anno (Esodo 19,1), si procede all’erezione della dimora divina.
E’ questa l’occasione che l’autore biblico coglie per far sfilare ancora una volta davanti ai nostri occhi i vari elementi e oggetti del santuario: l’arca della Testimonianza, sede della presenza divina, la tavola dei pani, il candelabro, l’altare d’oro dell’incenso e quello di bronzo dell’olocausto, la vasca per le abluzioni, l’olio dell’unzione sacra e le vesti sacerdotali.
Mosè stesso partecipa alla messa in opera della tenda santa dirigendola e agendo in prima persona. Si ripropone, così, per l’ennesima volta la sequenza ben nota delle varie componenti: l’arca che è coperta col propiziatorio, la tavola con i pani, il candelabro con le sue sette lampade, l’altare dell’incenso davanti al velo che separa il Santo dei Santi, ove ha sede l’arca, dal resto della tenda, l’altare dell’olocausto, collocato davanti all’ingresso della tenda santa all’interno del recinto, la vasca colma d’acqua lustrale, e infine il recinto che separava l’area sacra dall’accampamento del popolo.
 Ecco, alla fine, apparire la presenza divina. Essa è segnalata dalla nube che nasconde e indica al tempo stesso la Gloria, in pratica lo sfolgorare della divinità. La Gloria, che è la stessa realtà divina, s’insedia nella dimora sacra invadendola. Cala il sipario sul libro dell’Esodo proprio con questa scena di gran suggestione: il popolo è in marcia nel deserto ma, accanto, viaggia anche il Signore. Il segno della sua presenza è la nube che avvolge il santuario mobile e il fuoco che durante la notte sfavilla. E’ espressa, in questa maniera, la raffigurazione del Dio liberatore e guida nell’itinerario verso la libertà.
Si chiude, così, anche la nostra lettura del secondo libra della Bibbia. Attraverso le sue pagine abbiamo scoperto un volto di Dio luminoso e misterioso. Egli è il liberatore che sottrae Israele, suo “figlio primogenito” (Esodo 4,22), dall’oppressione; è colui che costituisce come popolo santo, sua personale “proprietà” ed “eredità”, un pugno di uomini schiavi, alleandosi con loro in un patto solenne, sancito al Sinai; è il Dio padre che si cura del figlio assetato, affamato e assaltato dai nemici; è il Dio giusto che esige l’impegno morale del Decalogo e quello sociale del Codice dell’alleanza, che punisce il peccato idolatrico d’Israele e tutte le sue ribellioni e “mormorazioni”; ma è anche il Dio “pieno di pietà e misericordia, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà” (Esodo 34,6); è il Dio santo e puro che dev’essere incontrato nello spazio sacro del santuario; ma è anche il Dio che cammina accanto al suo popolo lungo le piste assolate del deserto.
Il libro dell’Esodo non è, dunque, un testo di memorie celebrative di eventi antichi. E’, invece, un appello rivolto al popolo di Dio di tutti i tempi perché senta la presenza divina che lo guida verso la libertà.




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