Proseguiamo la nostra narrazione nel libro dell’esodo attraverso gli
appunti tratti da don Antonio Schena. L’Esodo prosegue introducendo l’origine della tassa che
ogni ebreo pagava per il mantenimento del Tempio
Ogni persona doveva pagare mezzo siclo, valutato sul “siclo del
santuario” (unità monetaria specifica equivalente a 20ghere.
La ghera era un’unità di peso, la più piccola usata in Palestina e nel mondo
antico, che corrispondeva a circa 0,55 grammi). Con un’ipotetica
determinazione basata su dati posteriori possiamo pensare che si trattasse di
un versamento di quasi sei grammi di metallo prezioso. Ci attende, però, la
descrizione di un altro oggetto liturgico, la “vasca di bronzo”
delle purificazioni rituali.
Nella Bibbia è puro tutto ciò che avvicina a Dio e
favorisce il culto. Impuro è ciò che allontana da Dio e impedisce il culto a
lui dovuto. Nessun israelita poteva presentarsi al Tempio senza essersi lavato
e senza essersi cambiato gli indumenti. Per facilitare la purificazione,
all’esterno del santuario si collocavano delle apposite vasche (1 Re 7, 23-38).
Anche la guerra considerata sacra, rendeva necessaria l’osservanza dei riti di
purificazione (Deut. 23, 10-12).
Bacili o vasche o fontane con simili funzioni, come è noto, sono anche
presenti all’esterno di edifici sacri di molte confessioni religiose. I
sacerdoti, quindi, devono lavarsi le mani e i piedi prima di presentarsi
davanti al Signore; la stessa norma è osservata da tutti i Musulmani, prima di
pregare nelle moschee, ancora oggi. Un grande spazio nelle norme liturgiche che
stiamo esaminando è, però, riservato alla composizione dell’olio
sacro destinato alle consacrazioni. Ungendo con olio il sacerdote
o il re si pensava che nella persona del consacrato si irradiasse l’energia
divina. “Messia” è appunto il termine ebraico che significa “unto”,
“consacrato” e che avrà significati molto alti nella tradizione
biblica, soprattutto quando sarà applicato al re perfetto, discendente della
dinastia davidica. In greco il termine “Messia” sarà tradotto con “Cristo” che
ha lo stesso valore, cioè l’unto” del Signore.
La composizione dell’olio è ora definita in tutti i suoi ingredienti e
nelle rispettive quantità (unità di misura è sempre il siclo che in seguito
equivarrà a 11 grammi e mezzo circa). Ecco, dunque, la mirra fluida
(sostanza gommoresinosa proveniente dall’Arabia) molto più pregiata di quella
solida; ecco il cinnamomo (affine all’alloro); ecco
la cannella (derivante dalla corteccia di cinnamomo) e
la cassia (derivante dalla scorza odorosa ed essiccata
di una pianta simile all’alloro); ecco l’olio d’oliva nella
misura di sei litri (un “hin”).
Con questa miscela aromatica si consacravano tutti gli arredi del
santuario, rendendoli così riservati al solo uso sacro, e i sacerdoti durante
il rito di consacrazione. Ogni altro uso profano era severamente proibito.
Altrettanto accuratamente è definita la composizione dell’incenso da
offrire “sull’altare dei profumi” sopra descritto.
Bruciare l’incenso per profumare i diversi ambienti (tende, templi,
palazzi) è abitudine diffusa in Oriente. Nella simbologia del testo biblico
l’incenso è immagine della preghiera che sale a Dio, come il sacrificio o
l’offerta (Salmo 141,2: “Salga la mia preghiera come incenso
davanti a te, le mie mani alzate come sacrificio della sera”). Ogni giorno, al
mattino e alla sera, era compiuta nel Tempio di Gerusalemme, da parte dei
sacerdoti, l’offerta dell’incenso.
Balsami vari, incensi preziosi ricavati da resine, lo storace (balsamo
fragrante estratto dalla corteccia di un albero); il galbano(resina
di un’ombrellifera siriana) e l’incenso (anch’esso una
resina fragrante), sono ridotti in polvere e bruciati in onore del Signore.
Con questo effluvio di aromi si conclude la lunga serie di norme liturgiche
rivelate da Dio a Mosè sul Sinai. La Tradizione Sacerdotale ha, così, esaltato
e “canonizzato” tutto il sistema liturgico del Tempio di Gerusalemme ponendolo
all’insegna dell’esodo, della rivelazione sinaitica e di Mosè.
Ora Dio designa gli artefici del santuario, Bezabel e Ooliab, “ispirandoli”
col suo spirito di sapienza, di intelligenza e di scienza. C’è, quindi,
un’ispirazione” non solo per annunziare la parola di Dio e scriverla ma anche
per metterla in opera nei suoi contenuti concreti.
Con questa designazione ufficiale si ha l’occasione per elencare
sinteticamente tutto ciò che è stato descritto a proposito del santuario e del
suo arredo liturgico. Il tutto è sigillato da una ripresa della legge del
“sabato”. Il “sabato”, infatti, è il tempo sacro per eccellenza che si vive
all’interno dello spazio del santuario. In questo contesto, la sua osservanza,
è vista come un “segno” della relazione tra Dio e il suo popolo. Stringendo alleanza con Abramo, Dio aveva
chiesto di osservare la “circoncisione”, come segno dell’alleanza.
Si comprenda come questi due precetti siano sempre stati fondamentali nella
storia d’Israele e rivestano ancora oggi una notevole importanza nella vita e
nella fede del pio israelita. Essi esprimono l’identità stessa del popolo, la
sua relazione con Dio e la conseguente “diversità” rispetto a tutti gli altri
popoli. Questa attenzione al precetto del sabato poteva, però, portare anche a
estremi ingiustificati: Gesù ricorderà perentoriamente che il “sabato è fatto
per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, contro coloro che volevano porre
l’osservanza formale del precetto al di sopra dell’amore per il prossimo.
Si conclude, così, questo ampio sistema di norme rituali, presentate da Dio
stesso a Mosè durante il suo lungo soggiorno di 40 giorni sulla vetta del
Sinai. Che esse siano poste sotto l’autorità divina è espresso attraverso
l’immagine del “dito di Dio” che le incide sulle
tavole di pietra della “Testimonianza” divina.
Era pratica usuale scrivere leggi sulla pietra, quasi per indicare la
stabilità nell’antico testamento, mentre
la Legge della Nuova Alleanza è scritta nei cuori, che sono i cuori di carne”
(2 Or. 3,3).
E’ giunto ormai il momento di comunicare al popolo e di mettere in
esecuzione la rivelazione destinata dal Signore a Israele. Al dono
dell’alleanza e della parola divina Israele reagisce con quel peccato capitale
che macchierà spesso la storia del popolo ebraico: l’idolatria.
Jahwè “informa Mosè del peccato del popolo”. Questi versetti provengono
necessariamente da una fonte diversa da quella del v. 18 in cui Mosè sembra
ignaro di ciò che sta succedendo nell’accampamento.
La narrazione si trasforma in una dura requisitoria contro il peccato
d’apostasia (cioè di abbandono della propria fede) dalla purezza religiosa e, indirettamente
contro la classe sacerdotale rappresentata da Aronne, dimostratosi incapace di
tutelare questa purezza. Il gesto di Israele, accompagnato da una liturgia
idolatrica, scatena l’ira divina che vorrebbe distruggere il popolo ribelle.
Mosè, allora, si riveste della funzione di intercessore, il cui compito è
quello di “addolcire il volto del Signore”. Egli lo fa attraverso una supplica
che contiene tre argomenti per placare la giustizia divina. Due ragioni sono
“storiche”, cioè appellano alla promessa divina fatta ai patriarchi e alla
liberazione dell’esodo, segni di un amore indistruttibile per Israele: neppure
il peccato più grave potrà eliminare l’impegno della salvezza assunto
solennemente da Dio a favore del suo popolo. L’argomento più curioso è, invece,
di tipo “apologetico”, cerca cioè di difendere l’onore di Dio presso gli
Egiziani. Costoro, infatti, qualora vedessero Israele sterminato nel deserto,
crederebbero che il Dio d’Israele è inesistente e crudele, incapace di salvare
il suo popolo: “Li ha fatti uscire con malizia, per ucciderli sui monti”. Mosè
riesce, così, a convincere Dio di non applicare la sua rigorosa giustizia e
s’avvia verso l’accampamento in festa. Presso gli antichi la danza accompagnava
le feste e le celebrazioni sacre.
Mosè, scendendo dal monte, stringe tra le mani le due tavole, “scrittura di
Dio” sacra e intoccabile. Lo accompagna il suo futuro successore, Giosuè,
quest’ultimo illuso che i canti che si odono siano di guerra e non rituali
idolatrici. Di fronte alla festa sguaiata del popolo scatta la reazione
veemente di Mosè che spezza le tavole sulla roccia e queste tavole infrante
sono il segno evidente della rottura dell’alleanza tra il Signore e Israele.
Poi Mosè frantuma e polverizza il vitello d’oro, dissolvendone i resti
nell’acqua, dove il popolo si disseta, simbolo questo della loro incorporazione
col peccato, penetrato nelle loro più intime fibre.
Dopo il delitto del vitello d’oro, Mosè e Aronne si affrontano in un
incontro serrato in cui il Sacerdote Aronne cerca di giustificare il suo
comportamento remissivo nei confronti del popolo, desideroso soltanto di
rappresentare il Signore in modo concreto e immediato, così come facevano le
altre nazioni circostanti. Il popolo, anche adesso che ha sperimentato la collera
di Mosè non riesce a frenarsi sulla china dell’idolatria. Mosè, allora, fa
scattare il giudizio sul peccato ostinato. Chiama a raccolta tutti i fedeli
alla purezza della religione. Al suo fianco si schierano i Leviti, custodi dei
santuari locali e poi del Tempio di Gerusalemme, mette in risalto la loro
fedeltà a Dio e a Mosè, mentre allude al loro importante ruolo nella comunità
religiosa di Israele. C’è, quindi, una distinzione tra il sacerdozio in senso
stretto e gli altri membri della comunità liturgica, i Leviti, appunto. Questi
ultimi si rivelano zelanti nel difendere la causa della fede pura.
La distinzione qui suggerita rimanda a un’epoca successiva in cui esisteva
una separazione di grado e di funzione tra sacerdoti e leviti. Si assiste,
secondo lo stile orientale, a una strage santa.
Certo, il cammino verso il perdono divino è ancora lungo, ma è già aperto.
Infatti subito dopo Mosè sale sul monte per impetrare da Dio il perdono pieno
per il popolo, pronto a desiderare per se la morte, qualora non fosse esaudito.
L’essere cancellato dal libro” della vita, significa semplicemente
morire. Era convinzione degli antichi che Dio avesse un libro sul quale erano
segnate le opere, buone o cattive, di tutti i viventi e le azioni dei giusti,
meritevoli di ricompensa, e quelle degli empi, meritevoli di castigo , Siano
cancellati dal libro dei viventi e tra i giusti non siano iscritti. Anche nel
N.T. è presente questo simbolismo.
Il Signore, placato da Mosè, invita gli Israeliti a proseguire nella marcia
verso la terra promessa, guidati dal suo angelo. Dio non smentisce l’impegno
assunto con i padri d’Israele. La giustizia divina concede, dunque, una tregua
ma avrà la sua attuazione nel “giorno della visita” . Con questa
espressione si vuole alludere all’intervento definitivo che il Signore compirà
all’interno della storia, quando egli condannerà il male in maniera conclusiva
e offrirà in pienezza la sua salvezza. Una distanza ormai s’è frapposta tra il
Signore e il popolo di “dura cervice”, cioè ostinato nella ribellione e
nel peccato. Dio, infatti, per ora non vuole camminare accanto a Israele ancora
impuro, sarà rappresentato solamente dal suo angelo. Gli Israeliti, intanto, si
rattristano facendo sbocciare il seme della conversione. Decidono, così, di
abbandonare gli ornamenti, segno della festa peccaminosa a cui si erano
abbandonati.
Il Tabernacolo doveva essere al
centro dell’accampamento, mentre il Tabernacolo di convegno si doveva erigere
fuori del campo, I Leviti erano i ministri del Tabernacolo, mentre di questa tenda lo era Giosuè. Essa era
semplice e piccola, poiché Mosè la drizzò da solo: il Tabernacolo e tutti i
suoi arredi richiederanno numerosi portatori. Manca pure la liturgia connessa
al Tabernacolo. Questa tenda sembra servire più come luogo di oracoli (Num. 17,
7-9), cioè come posto di convegno; non è una dimora come il Tabernacolo. Quando
Mosè cercava il consiglio di Dio, allora entrava in questa tenda ed attendeva
la presenza di Jahwè, segnalata dalla discesa della nube su di essa. Una volta
stabilitosi nella terra promessa, Israele consulterà Dio nel Tempio.
Gli Isreliti osservavano con riverente timore questi incontri di Jahwè con
Mosè, seguendoli di lontano, ciascuno dall’ingresso della propria tenda (vv. 8
e 10). Questo particolare tabernacolo, quindi, era un mezzo singolare nel quale
Mosè poteva incontrarsi da solo con Jahwè (Num. 10, 4-8). L’esperienza “a
faccia a faccia”, della presenza di Dio, proviene da una fonte diversa da
quella di Esodo dove si afferma esplicitamente che nessuno può vedere Dio e
continuare a vivere.
Il racconto, che aveva mostrato la durezza della giustizia divina, si placa
ora nella celebrazione d’un incontro d’amore e di comunione tra il Signore e il
suo fedele.
Mosè è all’interno del santuario, collocato fuori dall’accampamento
d’Israele, ed è in dialogo con il Signore. La sua è una domanda ardita: egli
vuole sapere quale sarà la “via”, cioè il destino che il Signore ha in mente
per il suo popolo, e se lo accompagnerà ancora nel cammino verso la terra
promessa, la terra del “riposo” sereno. La risposta breve e positiva di Dio
(“camminerò con voi e vi farò riposare”) non convince del tutto Mosè che
replica in modo impacciato e confuso, rinnovando la richiesta di quella
presenza divina: la differenza tra Israele e gli altri popoli consiste nel
fatto che il Signore cammini col suo popolo. E Dio ribadisce la sua promessa di
essere vicino a Israele per merito di Mosè che “ha trovato grazia ai suoi
occhi”. Dopo il peccato del vitello d’oro, il Signore riprende la sua funzione
di guida d’Israele, di suo pastore e salvatore.
Mosè si fa ancora più ardito e chiede di contemplare la “Gloria”
divina, cioè la realtà stessa di Dio. Il suo è il desiderio mistico di poter
fissare gli occhi nella “Gloria” del Signore senza restarne accecato. E’
l’anelito verso una conoscenza piena del mistero infinito del Signore. Ma
nessun uomo può essere in grado di comprendere questo orizzonte immenso di
luce: l’uomo non può vedere Dio e restare in vita, ripete la Bibbia, perché c’è
un grande abisso tra il Creatore e la creatura. Il Signore, però, sa che il
desiderio di Mosè non è una sfida ma esprime un’ansia genuina e allora con
tenerezza lo conduce a vedere un bagliore della sua realtà: non sarà il volto,
segno ultimo dell’identità, ma le spalle, cioè il passaggio fugace del divino.
Stupenda è la scena della piccola grotta in cui è nascosto Mosè. Dio stende la
sua mano durante il passaggio perché Mosè non resti incenerito da quel bagliore
di luce che è Dio. Solo quando sarà lontano, il Signore si lascerà intravedere
dal suo servo fedele.
Dopo l’intercessione di Mosè, il
pentimento di Israele, il giudizio e il perdono di Dio, si apre l’alba di una
nuova èra. Si rinnova l’alleanza infranta. Si ritrovano, perciò, gli stessi
elementi che avevano contraddistinto la prima alleanza, quella descritta nei
capitoli 19-34 dell’Esodo: ordine di preparare le tavole e salire sul
monte (34, 1-4), l’apparizione divina (vv. 5-9), l’alleanza e la Legge (vv.
10-28), la trasmissione a Israele della Legge (vv. 29-35).
Mosè invoca nella solitudine del monte il nome del Signore ed ecco che Dio
si presenta offrendo quasi la sua “carta d’identità”. Si tratta di una stupenda
professione di fede messa in bocca a Dio stesso, aperta dal nome divino JHWH ripetuto due volte e accompagnato subito dagli
attributi che definiscono la sua alleanza con Israele, la pietà e la
misericordia, la grazia e la fedeltà, titoli che nell’originale ebraico esprimono
un’intensità e un’intimità fortissime. Come si diceva nel primo comandamento
(Es. 20, 5-6), la giustizia divina è severa e perfetta (“castiga fino alla
terza e alla quarta generazione”), ma la sua misericordia e il suo amore sono
superiori e infiniti perché si stendono per “mille generazioni”. La giustizia
ha un limite, l’amore è illimitato. Mosè allora, chiede che questa strada del
perdono sia destinata a Israele, popolo ostinato (“di dura cervice”) ma
“eredità” del Signore, cioè sua proprietà personale e inalienabile.
Dopo il peccato d’Israele, espresso nella riduzione del Signore a un idolo
della fertilità, simboleggiato nel toro sacro, dopo il perdono e il nuovo
incontro di Mosè con Dio, si rinnova solennemente l’alleanza. Gli studiosi sono
convinti che questa pagina sia il testo più antico del patto tra Israele e il
suo Dio. Non per nulla questo testo appartiene alla tradizione Jahwista, la più
antica delle tradizione del Pentateuco. Il Decalogo, che qui è proposto come
tavola dei doveri da rispettare da parte di Israele, è di taglio liturgico ed
è, perciò, diverso da quello di tipo più morale della prima alleanza (Es. 20).
Al culto pagano celebrato nell’infame liturgia del vitello d’oro si oppone
ora il nuovo culto “in spirito e verità”, come si dirà in Gv. 4,24. Anche se le
norme qui elencate non sono presentate in un Decalogo in senso stretto,
possiamo semplificarle in dieci articoli.
Il primo comandamento è un severo attacco sferrato
contro l’idolatria cannacea che tenterà Israele e provocherà la “gelosia” del
Signore.
Il sincretismo religioso, esprime il desiderio di
fondere insieme in modo confuso religioni differenti. Abbracciare la religione
dei popoli vicini è stata la tentazione più forte per Israele. Il non stringere
alleanza con loro e la distruzione di ogni segno dei loro culti sono
ammonimenti che Dio rivolge con frequenza al suo popolo (Es. 34,12). L’evento
dell’esilio (587-538 a.C.) sarà visto come punizione alla sua idolatria.
L’edificazione di altari di pietra è comune alle religioni
dell’antico Oriente. Le stele sacre (in ebraico “massebot”)
erano pietre lavorate in forma quadrangolare, rotonde o piramidali, le quali
simboleggiavano la divinità maschili della religione dei popoli cananei. I
pali sacri, in ebraico “asherim”, dal nome della dèa Ashera, erano alberi
oppure tronchi eretti in onore di questa divinità femminile, venerata come
fonte e dispensatrice di fecondità e fertilità.
Il “Dio geloso” (“El qanna” in ebraico) si trova cinque
volte nella Bibbia. Nella concezione religiosa d’Israele, il culto a Dio è
esclusivo. Nel mondo pagano, invece, il culto di un dio si poteva conciliare
con quello degli altri dèi. Il Dio della Bibbia non tollera l’apostasia del suo
popolo, ne permette che un altro dio si impossessi della sua eredità più
preziosa, cioè il popolo che ha scelto .
Il secondo comando divino è affine al precedente e
vieta le commistioni con gli altri popoli perché essi trascinerebbero Israele
ai loro culti, spesso segnati dalla “prostituzione sacra”, cioè dall’unione
sessuale con i sacerdoti e le sacerdotesse dei culti della fertilità. Il
peccato del vitello d’oro, come si è detto, apparteneva appunto a questo genere
di culti. Un terzo articolo comprende l’osservanza
della festa dehli Azzimi (Esodo 12). Un quarto comando
riguarda la ben nota consacrazione a Dio dei primogeniti (Esodo 13).
Quinto comandamento: le offerte rituali (“non ti presenterai
davanti a me a mani vuote”). Sesto impegno:
l’osservanza del sabato. Come settimo articolo si ha
l’adesione al calendario delle varie solennità, qui ancora tratteggiate sotto
il profilo agrario (mietitura e raccolto) ma anche secondo l’impegno del
pellegrinaggio dai villaggi al santuario ove è presente il Signore. Come in
altri casi, queste norme sono posteriori e suppongono Israele già stanziato
nella terra promessa. Con l’ottavo comandamento si
ritorna alla Pasqua, distinta dagli Azzimi già descritti. L’offerta delle
primizie al Signore potrebbe essere il nono articolo di
questo Decalogo, concluso nel decimo comandamento dalla
norma alimentare – già incontrata in Es. 23,19 – dell’evitare di “cuocere un
capretto nel latte di sua madre”.
Dopo un soggiorno sul monte di 40 giorni e 40 notti, trascorsi nel
digiuno, simbolo di un tempo perfetto, Mosè scende dal Sinai trasfigurato. Il
suo volto emana una luce abbagliante che intimorisce gli Israeliti e che è
riflesso della luce divina, Mosè deve porre sul suo viso un velo (il termine
ebraico “masveh” = “velo” è usato solo in Esodo 34, 33-35. Nella 2 Or. 3,
13-16 S. Paolo commenta in chiave cristiana questo brano per distinguere le due
alleanze, la prima stretta con Mosè e la seconda, definitiva, con Cristo: “E
non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli
d’Israele non vedessero la fine di quello che svaniva... fino ad oggi, quando
si legge Mosè. Un velo pesa sul loro cuore, ma quando ci sarà la conversione al
Signore, quel velo sarà tolto”), simile a quello che nascondeva il Santo
dei Santi a ogni sguardo profano.
Questo racconto dell’esodo ha stimolato anche l’arte cristiana nella
raffigurazione del profilo di Mosè. “Raggio” in ebraico si dice “qeren” ( “il
suo viso era raggiante”),
Archiviato il caso amaro del vitello d’oro, ottenuta dal Signore una nuova
legge che fondasse l’alleanza rinnovata, Mosè ora la presenta a tutto il popolo
perché la metta in pratica.
La lunga sequenza di norme che ora sono proposte sono di taglio liturgico:
si corregge in questo modo la deviazione del culto pagano, praticato da Israele
davanti a Dio rappresentato sotto l’immagine del toro, simbolo della fecondità
divina.
Là era il Signore che la comunicava a Mosè; mentre qui è lo stesso Mosè che
la riferisce alla “comunità” dei figli d’Israele”
(la lingua ebraica usa due termini per indicare la comunità o l’assemblea di
Israele. Il primo è “qahal”, che indica l’insieme del popolo biblico
radunato; il secondo è “edah”, che è proprio della Tradizione
Sacerdotale e si riferisce all’assemblea radunata per il culto. In
Esodo 35,1 la presenza di questo secondo termine è motivata dalla
legislazione liturgica di cui è destinataria la comunità) perché la
esegue fedelmente.
Le varianti che si incontrano rispetto alla prima formulazione riflettono
tradizioni diverse che trasmettono, però, la sostanza delle cose in modo
parallelo.
Si comincia ribadendo l’osservanza del sabato e del relativo riposo da
attività normali, tra le quali si menziona l’accensione del fuoco”
(questa prescrizione non ha riscontri in tutta la Bibbia, ne è conosciuta la
sua origine. Certamente essa ha lo scopo di rafforzare la proibizione di
lavorare di sabato, un divieto rigorosamente rispettato ancora oggi dagli Ebrei osservanti).
Durissima è la pena per ogni violazione del sabato: la pena di morte è un
modo per indicare che si è espulsi dalla comunità santa. D’altra parte il
sabato per la Tradizione Sacerdotale, sorta durante l’esilio babilonese, era
segno dell’identità di Israele in mezzo ai popoli stranieri.
Proclamata questa osservanza capitale, si passa alla raccolta
delle offerte volontarie per l’erezione e l’arredo
del santuario: metalli, pietre e tessuti pregiati, legni, pelli,
olio, aromi sono raccolti e affidati agli artisti perché inizino il lavoro di
costruzione della tenda, dell’arca, della tavola dei pani della presentazione,
dei tendaggi, dei veli, delle vesti sacerdotali, del candelabro (il
candelabro è il piedistallo sul quale erano collocate le lampade a olio. Quello
a 7 bracci , in ebraico “menorah”, è diventato simbolo del giudaismo. Nel
N.T. la lampada posta sul candeliere è l’immagine della comunità cristiana, che
fa risplendere la gloria di Dio davanti al mondo (Mt. 5, 14-16).
La lunga elencazione di tutti gli oggetti sacri riguardanti la dimora
divina in mezzo a Israele, descritta pubblicamente da Mosè davanti a tutta
l’assemblea dei figli d’Israele, è ripresa, almeno per quanto concerne i
materiali, nel racconto dell’esecuzione.
Gli Israeliti, infatti, dopo aver ascoltato le parole di Mosè, portano le
loro offerte secondo le indicazioni ricevute.
Come tutte le antiche religioni, anche la religione
ebraica conosce la consuetudine delle offerte e delle collette per il Tempio
del Signore e per le necessità della comunità.
Nella Bibbia sono ricordate la colletta fatta da Giuda
Maccabeo per offrire un sacrificio di espiazione nel Tempio (2 Maccabei 12,43)
e quella organizzata dai deportati a Babilonia per la ricostruzione di
Gerusalemme (Baruc 1, 6-7). S. Paolo elogia i cristiani di quella comunità per
la colletta da loro organizzata a favore dei poveri della comunità di
Gerusalemme.
Prima di tutto sono raccolti gli oggetti d’oro da fondere per le varie
coperture protettive e ornamentali da approntare agli oggetti sacri.
Si passa poi ai tessuti, cioè ai due tipi di porpora (la viola e la
scarlatta), il lino fino o bisso, i tessuti confezionati con peli di capra, le
pelli conciate a tinte.
Le donne offrono anche la loro abilità manuale nel tessere, com’è d’uso
ancor oggi in Oriente, e portano i loro filati.
Ai capi è riservato il dono dell’olio, degli aromi e delle pietre preziose
per i due capi di abbigliamento propri del sommo sacerdote: l’efod e il
pettorale.
La distinzione dei vari donativi e delle classi diverse di persone che li
offrono, oltre a rispondere a differenze di ruoli, vuole anche esaltare
l’impegno collettivo di tutto il popolo in quest’opera.
Si presentano ora due artisti che dovranno progettare e dirigere i lavori
per l’erezione del santuario: Bezaleel della tribù di Giuda e Ooliab della
tribù di Dan. Essi sono “ispirati” da Dio stesso che li ricolma della “sapienza
del cuore”, cioè di una piena e totale capacità interiore, riguardante l’area
sacra e la liturgia.
I due artisti procedono all’esecuzione dei lavori.
Bezaleel e Ooliab valutano i materiali offerti dal popolo e scoprono che
sono in quantità eccedente, rivelando così una straordinaria generosità e un
vivo amore da parte d’Israele per la dimora del Signore in mezzo al suo popolo.
Mosè fa, allora, sospendere la raccolta delle offerte. La generosità
dell’Israele del deserto diventa, così, un esempio per le generazioni future,
soprattutto per quella che ritornerà dall’esilio babilonese e dovrà ricostruire
il tempio di Gerusalemme.
Iniziano ora i lavori di costruzione del santuario. Bezaleel fa approntare
i dieci teli di lino fine per la copertura della tenda, L’insieme dei teli forma una superficie di m.
14x20, in modo da coprire l’intera armatura in legno del santuario. I teli sono
tenuti insieme da cordoni e fibbie così da costituire un’unica velatura. Si
procede poi alla preparazione di teli di tessuti con peli di capra: essi sono
undici, uno in più di quelli di lino più pregiato, perché devono scendere fino
a fare risvolti protettivi. Il telo di pelo di capra ha, infatti, lo scopo di
proteggere dal clima esterno la tenda: si tratta di un tessuto particolarmente
resistente e impermeabile, ma anche sufficientemente poroso per assicurare una
certa aerazione necessaria per chi era all’interno della tenda.
Anche i teli di capra sono fissati con cordoni e fibbie, non più d’oro –
come nel caso dei teli di lino – ma di bronzo. Ultima copertura esterna è
quella delle pelli di montoni, destinata a proteggere tutta la tenda sacra
dagli agenti atmosferici eccezionali, in particolare dalle piogge che nel
vicino Oriente sono rare ma anche torrenziali.
L’accuratezza delle descrizioni e delle misurazioni
riflette la particolare attenzione che la Tradizione Sacerdotale manifesta nei
confronti del culto, segno dell’identità di Israele in mezzo a popoli
stranieri, come avveniva quando la stessa Tradizione si stava formando, cioè
durante l’esilio babilonese (VI sec. a.C.).
Dopo i teli, Bezaleel procede alla costruzione dell’impianto in legno della
tenda. Si tratta di un’armatura che precedentemente era stata minuziosamente
descritta in Es. 26. A margine notiamo che nel nostro testo attuale si menziona
la costruzione dei “cherubini lavorati artisticamente” (36,8). Come è noto,
questo ornamento dell’arca di origine mesopotamica era l’unica rappresentazione
figurativa ammessa dal Libro dell’Esodo in deroga alla rigida norma del
Decalogo che proibiva le immagini (20,4). Il nome stesso “cherubino” deriva dall’accadico, una lingua
mesopotamica, ove si ha “karibu”, che significa “colui che intercede, prega” e
che era applicato a divinità di rango inferiore, destinate a proteggere uomini
e cose dagli spiriti del male.
Bezaleel, l’artista ispirato e designato da Dio stesso per l’erezione del
santuario mobile di Israele nel deserto, prosegue la sua opera con la preparazione
delle assi per l’armatura della tenda dell’arca. Venti assi fissate a quaranta
basi d’argento (così da non marcire) costituiscono la parete meridionale;
altrettante sono necessarie per quella settentrionale; per il lato a occidente
ne servono sei. La tenda, quindi, aveva rettangolo. Altre assi sono tagliate
per gli angoli e sono fatte perfettamente combaciare, due per ogni angolo, per
un totale di otto assi, anch’esse basate su supporti d’argento. Le traverse
hanno, poi, la funzione di tenere saldamente unite le assi. La descrizione è
come in quella parallela da noi in precedenza letta in Es. 26, 15-36,
particolarmente puntuale anche perché non si tratta solo di un progetto
“tecnico”, ma di un edificio liturgico i cui canoni di costruzione devono
rispondere pure a criteri rituali e rubricari.
Si passa successivamente alla preparazione del velo destinato a dividere i
due settori sacri in cui si articolava il santuario, cioè il Santo dei Santi,
sede dell’arca, e il Santo. Si tratta di un velo di porpora e lino, ricamato
con raffigurazioni di cherubini e retto da quattro colonne d’acacia rivestite
d’oro. Un’analoga cortina dello stesso tessuto, appesa a cinque colonne,
fungeva invece da copertura per l’ingresso della tenda.
Ecco ora la descrizione del lavoro di intaglio dell’oggetto sacro più
importante: l’arca dell’alleanza, cuore del santuario
del deserto. Come già sappiamo, da Esodo 25, 10-20, si tratta di una cassa
rettangolare di m. 1,25x0,75x0,75, rivestita d’oro puro, con anelli alla base così
da poter infilare le stanghe per il trasporto. Doveva, infatti, accompagnare i
figli di Israele nella marcia del deserto, nelle battaglie,
nell’attraversamento del Giordano e così via. Il libro del Deuteronomio 10, 1-5
affermerà diversamente da quanto dice il nostro testo – che fu Mosè a
costruirla. L’arca scomparirà con la distruzione di Gerusalemme nel 586 a.C. e,
stando a quanto dichiara Geremia 3, 16 “non si parlerà più di essa, non se ne
avrà ricordo, non sarà più rimpianta ne rifatta”. Stando a indicazioni che
appaiono qua e là nella Bibbia e che non sono però omogenee, all’interno
dell’arca erano custodite le tavole del Decalogo, una misura di manna in
memoria del dono offerto da Dio nel deserto (Es. 16,34) e il bastone sacro di
Aronne.
Il “propiziatorio”, cioè la lastra d’oro puro connessa
ai cherubini, che la proteggevano con le loro ali, era il coperchio dell’arca
(in ebraico “kapporet” = “coperchio”) ma anche la sede della presenza divina.
E’ per questo che – come già si è avuto occasione di dire – nella solennità del
Kippur il sommo sacerdote incensava il propiziatorio e lo aspergeva col sangue
delle vittime così da ottenere la “copertura” (la stessa radice ebraica) delle
colpe del popolo, cioè il perdono dei peccati. Alla costruzione dell’arca è
associata quella della tavola dei pani della presentazione, le cui indicazioni sono qui riprodotte. Anche
se qui non lo si spiega, questa mensa serviva a presentare a Dio dodici pani,
detti “pani della faccia”, perché erano posti davanti al Signore presente
nell’arca e simboleggiavano le tribù d’Israele.
L’opera degli artisti e dei loro collaboratori nell’erezione della tenda
del convegno, cioè dell’incontro tra Israele e il suo Dio, prosegue ora con la
costruzione del candelabro d’oro massiccio dal
cui fusto si dipartivano sei bracci sorretti da due rami così da avere tre
lampade per parte, completati al centro da un’altra lampada, direttamente
connessa al fusto.
Le lampade erano poste sul candelabro, come loro
naturale supporto, per illuminare in un raggio più esteso (Mt. 5,15: “Non si
accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché
faccia luce a tutti quelli che sono nella casa”). All’epoca del deserto avevano, e costituiva una componente di grande
importanza simbolica all’interno dell’arredouna forma molto semplice, simile
a una conchiglia, con un piccolo becco dal quale usciva lo stoppino acceso. Il
candelabro, invece, era molto più elaborato.
Il candelabro, era riccamente ornato di fiori, corolle, calici a forma di
mandorlo, pesava un talento d’oro puro, circa 34 chilogrammi del santuario. Le
sue sette lampade, sempre ardenti, erano un segno della fede costante
d’Israele, un segno pieno, come è indicato nel numero sacro e perfetto: il
sette.
Stando a un’indicazione del libro dei Numeri , quando era portato durante
le marce, il candelabro era coperto – con tutto il suo apparato di smoccolatoi,
molle e portacenere – da un drappo purpureo.
L’altare dell’incenso modellato in legno d’acacia era naturalmente
ricoperto d’oro, così da permettere la combustione degli aromi che esalavano
verso Dio come segno dell’adorazione e della dedizione d’Israele al suo
Signore. Diversamente dall’altare degli olocausti, rivestito di bronzo e
collocato fuori del santuario, davanti all’ingresso della tenda, questo altare
dell’incenso e dei profumi si ergeva davanti al velo che separava il Santo dei
Santi dal resto della tenda. La sua dotazione era costituita da stanghe per il
trasporto e da “incenso profumato, puro, opera di profumiere”.
A motivo del clima e del caldo gli orientali fanno un
grande uso di profumi, mescolati all’olio o bruciati in recipienti speciali o
fatti evaporare. Ma anche nel culto erano molti impiegati i profumi. Erano
preparati con cura sotto la sorveglianza dei Leviti ed era rigorosamente
vietato farne un uso profano. Anche l’olio necessario alle unzioni sacre era
profumato, secondo ricette precise e costose. Proprio per la complessità del
procedimento di preparazione dei profumi, in tutto il mondo dell’antico Oriente
c’erano servi specializzati in questa mansione. Anche nella Bibbia troviamo la
menzione di persone specializzate in questo compito (Esodo 30,25; 37,29; 1 Sam.
8,13). Il testo di Neemia 3,8 ci ha tramandato anche il nome di una di esse. Si
parla infatti di un certo “Annata, uno dei profumieri” che collaborò all’opera
di ricostruzione delle mura di Gerusalemme dopo l’esilio babilonese.
L’altare degli olocausti, destinato cioè alla combustione integrale della
vittima sacrificale, è descritto sulla falsariga della precedente
raffigurazione presente in Esodo 27, 1-8. Rivestito di bronzo e perciò chiamato
semplicemente “l’altare di bronzo” era quadrato, con lati di 2,50 m. e
un’altezza di 1,50 m. L’accompagnava un ricco arredo di recipienti, palette,
catini, forcelle, bracieri, graticola, anelli e stanghe per il trasporto, tutti
di bronzo. Il rito dell’olocausto richiedeva, infatti, una strumentazione
specifica. Nel Tempio di Gerusalemme un simile sacrificio era offerto ogni
giorno, mattino e sera.
Accostata all’altare degli olocausti era una vasca bronzea per l’acqua
delle purificazione rituali: essa era stata preparata con bronzo lucido, simile
a quello che nell’antichità era usato per gli specchi femminili. In questo caso
erano state le donne, che prestavano servizio all’ingresso del santuario, a
offrire i loro specchi per la realizzazione del manufatto.
Tutta l’area attorno alla tenda era recintata, come si diceva già in Esodo
27, 9-19. La cortina che segnava la frontiera tra lo spazio santo e quello
profano era costituita da colonne che reggevano i tendaggi. Di tutto si offre
una puntigliosa descrizione con misure, materiali, disposizione, struttura
dell’insieme che aveva un perimetro di 50x25 m. Era questa l’area in cui
sostava il popolo durante le liturgie, essendo la tenda del convegno riservata
ai sacerdoti. Nel Tempio di Gerusalemme, nella forma più ampia a noi nota, cioè
quella di Erode, il recinto si allargherà in atri o cortili, distinti secondo
le persone che vi potevano accedere, cioè uomini, donne e persino pagani.
Continua la descrizione del recinto che separava l’area consacrata al culto
da quella profana ove sorgeva l’accampamento dei figli d’Israele. Nel suo
perimetro si apriva una porta protetta da un velo ricamato, alto 10 m e largo
2,50 m, e costituita da quattro colonne lignee rivestite nelle basi – come le
altre colonne del recinto – e nei relativi uncini, picchetti e aste trasversali
con materiale resistente come il bronzo e l’argento per impedire la corrosione
del legno. A questo punto, all’interno della lunga descrizione dell’opera
dell’architetto-capo Bezaleel, sostanzialmente ricalcata su quella già vista
nei capitoli 25-31 dell’Esodo, si inserisce un’aggiunta inedita.
In essa entrano in scena i Leviti che, sotto la direzione di un figlio di
Aronne, Itamar (che riapparirà solo in Numeri4,33), elaborano un computo dei
metalli usati nell’erezione della dimora del Signore. Si tratta di una specie
di rendiconto delle spese sostenute nell’impresa e redatto sulla base dei dati risultati
dalle opere eseguite dal direttore dei lavori, Bezaleel, e del suo assistente
Ooliab, responsabile degli intagli, dei disegni e dei ricami. La somma finale
risulta di 29 talenti (ogni talento era di circa 34 chilogrammi) e 730 sicli
(il talento valeva 3.000 sicli) d’oro. L’argento, invece, è quantificato in 100
talenti e 1.775 sicli, cioè mezzo siclo (detto “beka” che è una misura di peso
equivalente a circa 6 grammi. La Bibbia non è uniforme nella determinazione dei
pesi e delle misure) a testa per i 603.550 ebrei censiti come oblatori. Al di
là dell’instabilità dei numeri, tipica di tutti gli antichi documenti – Bibbia
compresa – e degli eventuali valori allusivi ad essi sottintesi, è ovvio che
queste cifre mastodontiche riflettono una diversa situazione storica, forse
quella dell’epoca monarchica posteriore. Si vuole, quindi, anche in questo caso
cercare di ricondurre al Sinai tutto l’Israele biblico, soprattutto quello
dell’epoca salomonica, quando sorse appunto il primo tempio.
Il rendiconto si articola poi nelle varie voci: 100 talenti d’argento per i
vari basamenti, 1.775 sicli per gli uncini, le cime e le aste trasversali delle
colonne del recinto del santuario. Si calcola anche l’impiego di bronzo in 70
talenti e 2.400 sicli, e la relativa applicazione è dettagliata con minuzia.
Anche in questo caso riusciamo a scoprire un aspetto sorprendente della parola
di Dio. Essa non teme di penetrare persino nei meandri quotidiani, nei bilanci,
nei costi, nelle misurazioni, nelle questioni più concrete, rivelando che tutta
la realtà può essere illuminata, santificata, trasfigurata e nascondere in se
un significato più alto, un bagliore divino.
Con la descrizione dettagliata e accurata
dei paramenti che il sommo sacerdote indossa, si vuole esprimere “la gloria e
la maestà” (Esodo 28,2) che egli ha come rappresentante e servitore di Dio. Le
pietre preziose, su cui sono scolpiti i nomi delle dodici tribù dei figli
d’Israele, richiamano la funzione del sacerdote d’essere anche rappresentante
del popolo, di cui espia i peccati. Il vestito nel mondo antico è segno della
dignità e dell’onore in cui è tenuta la persona. Le vesti sacerdotali descritte
con tanta ricchezza di particolari esprimono esse pure questa concezione che
nell’A.T. è sempre presente.
Il sacerdozio israelitico non era una vocazione, che richiedeva una
chiamata speciale di Dio: era una delle funzioni ereditarie; neppure esisteva
un cerimoniale particolare usato di volta in volta per l’investitura dei
sacerdoti. Questa avveniva semplicemente al primo contatto con le loro
funzioni, che li dissociavano dal profano e li consacravano all’esclusivo
servizio dell’altare. Il rito di “riempire le mani” (Esodo 29, 24-25)
consisteva nel porre tra le palme del sacerdote, al momento della sua entrata in
funzione, le porzioni della vittima destinate ad essere collocate sull’altare
davanti al Signore. La Bibbia afferma che il sacerdozio ereditario fu affidato
alla tribù di Levi durante il soggiorno nel deserto, al momento dell’episodio
del vitello d’oro (Esodo 32,29). Il profeta Ezechiele distingue i sacerdoti,
figli di Zadoq, che prestano servizio all’altare, dai Leviti, che prestano
servizio negli altri locali del Tempio.
I paramenti sono in porpora, secondo le due qualità commerciali più note,
quella viola e la scarlatta, un tessuto molto costoso, tinto con la sostanza
estratta da un mollusco marino diffuso lungo la costa fenicia. La porpora,
insieme col lino fine (il bisso), è il tessuto più usato per l'arredo del
santuario. Confluiscono qui indicazioni liturgiche posteriori.
Il primo capo dell’abbigliamento e l’efod, che,
originariamente era un perizoma poi divenuto una specie di corpetto di gran
rilievo simbolico. Rispetto alla descrizione precedente (Esodo 28, 6-8), ora si
aggiunge un particolare: il tessuto di porpora dell’efod era striato da sottili
strisce d’oro. Tutto il resto – spalline, cintura, le due pietre d’onice con i
nomi incisi delle dodici tribù – c’è già noto dal cap. 28.
I paramenti sacerdotali, oltre all’efod, comprendono anche il pettorale,
già descritto in Esodo 28, 15-30 con dovizia di particolari che sono qui
ripetuti. Questa specie di borsa quadrata di poco più di 20 cm per lato era
sospesa alle spalline dell’efod e reggeva dodici pietre preziose, simbolo delle
tribù d’Israele presentate dal sommo sacerdote al Signore. La serie di gemme è
oggetto di discussione tra gli studiosi, essendo piuttosto rari i vocaboli che
le definiscono. Non ci deve stupire se le traduzioni differiscano
nell’elencazione di queste pietre disposte su quattro file: cornalina, topazio,
smeraldo, turchese, zaffiro, diamante, giacinto, agata, ametista, crisolito,
onice, diaspro. Il collegamento del pettorale con l’efod è assicurato da tutto
un complesso di catenelle, castoni, anelli e legacci, così da costituire quasi
un unico paramento. Quest’insieme costituiva l’insegna più alta di tutto
l’abbigliamento liturgico.
Si descrive poi il manto sacerdotale, i cui orli
sono ornati con melagrane e recano appesi campanelli che, come si è già detto
in Esodo 28, 33-35, avevano la funzione di segnalare la presenza sacra del
sacerdote e forse anche allontanare col loro tintinnio gli spiriti del male,
convocando contemporaneamente l’assemblea dei figli d’Israele per il culto.
Le tuniche di lino, il turbante del
sommo sacerdote, i copricapo degli altri sacerdoti, i calzoni anch’esso di
lino, le cinture ricamate, la lamina d’oro del turbante “pontificale” con la
scritta “Consacrato del Signore” concludono questa lunga descrizione
dell’abbigliamento sacerdotale confezionato dagli artigiani d’Israele per la
celebrazione del culto nel santuario del deserto, ma anche e soprattutto nel
futuro tempio di Gerusalemme.
Con la sfilata delle vesti sacerdotali si chiude anche l’opera
d’allestimento del santuario.
Ora avviene la consegna ufficiale di tutti i materiali sacri a Mosè. Si ha,
in tal modo, un’ultima occasione per offrire al lettore l’elenco completo degli
oggetti e delle strutture che componevano la dimora di Dio in mezzo al suo
popolo pellegrino nel deserto. Mosè controlla la legittimità di tutto
quest’apparato valido per il culto e impartisce la sua solenne benedizione.
E’ giunto il momento dell’erezione e della
consacrazione del santuario, ora che Bezaleel e i suoi collaboratori ne hanno
approntato tutti gli elementi. Il primo giorno del primo mese del secondo anno
(v. 2 e 17), in altre parole nove mesi dopo l’arrivo al Sinai, ove si era
giunti il terzo mese del primo anno (Esodo 19,1), si procede all’erezione della
dimora divina.
E’ questa l’occasione che l’autore biblico coglie per far sfilare ancora
una volta davanti ai nostri occhi i vari elementi e oggetti del santuario:
l’arca della Testimonianza, sede della presenza divina, la tavola dei pani, il
candelabro, l’altare d’oro dell’incenso e quello di bronzo dell’olocausto, la
vasca per le abluzioni, l’olio dell’unzione sacra e le vesti sacerdotali.
Mosè stesso partecipa alla messa in opera della tenda santa dirigendola e
agendo in prima persona. Si ripropone, così, per l’ennesima volta la sequenza
ben nota delle varie componenti: l’arca che è coperta col propiziatorio, la
tavola con i pani, il candelabro con le sue sette lampade, l’altare
dell’incenso davanti al velo che separa il Santo dei Santi, ove ha sede l’arca,
dal resto della tenda, l’altare dell’olocausto, collocato davanti all’ingresso
della tenda santa all’interno del recinto, la vasca colma d’acqua lustrale, e
infine il recinto che separava l’area sacra dall’accampamento del popolo.
Ecco, alla fine, apparire la presenza divina. Essa è segnalata dalla
nube che nasconde e indica al tempo stesso la Gloria, in pratica lo sfolgorare
della divinità. La Gloria, che è la stessa realtà divina, s’insedia nella
dimora sacra invadendola. Cala il sipario sul libro dell’Esodo proprio con
questa scena di gran suggestione: il popolo è in marcia nel deserto ma,
accanto, viaggia anche il Signore. Il segno della sua presenza è la nube che
avvolge il santuario mobile e il fuoco che durante la notte sfavilla. E’
espressa, in questa maniera, la raffigurazione del Dio liberatore e guida nell’itinerario
verso la libertà.
Si chiude, così, anche la nostra lettura del secondo libra della Bibbia.
Attraverso le sue pagine abbiamo scoperto un volto di Dio luminoso e
misterioso. Egli è il liberatore che sottrae Israele, suo “figlio primogenito”
(Esodo 4,22), dall’oppressione; è colui che costituisce come popolo santo, sua
personale “proprietà” ed “eredità”, un pugno di uomini schiavi, alleandosi con
loro in un patto solenne, sancito al Sinai; è il Dio padre che si cura del
figlio assetato, affamato e assaltato dai nemici; è il Dio giusto che esige
l’impegno morale del Decalogo e quello sociale del Codice dell’alleanza, che
punisce il peccato idolatrico d’Israele e tutte le sue ribellioni e
“mormorazioni”; ma è anche il Dio “pieno di pietà e misericordia, lento all’ira
e ricco di grazia e di fedeltà” (Esodo 34,6); è il Dio santo e puro che
dev’essere incontrato nello spazio sacro del santuario; ma è anche il Dio che
cammina accanto al suo popolo lungo le piste assolate del deserto.
Il libro dell’Esodo non è, dunque, un testo di memorie celebrative di
eventi antichi. E’, invece, un appello rivolto al popolo di Dio di tutti i
tempi perché senta la presenza divina che lo guida verso la libertà.
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