In Esodo vedremo la più grande esperienza vissuta da Israele,
quella dell’incontro tra il Signore e il suo popolo in una montagna detta di
Mosè nel sud della penisola sinottica, ai cui piedi sorge ora il monastero
bizantino di Santa Caterina.
Le parole che Dio indirizza a Mosè sono rette da due pronomi fondamentali.
C’è innanzi tutto l’“io” di Dio che evoca i suoi atti di liberazione (“quello
che ho fatto all’Egitto... ho portato voi su ali di aquila... vi ho condotti
fino a me... mia voce... mia alleanza... mia proprietà... mia è tutta la
terra... voi sarete per me...).
Al dono divino Israele deve rispondere e il “voi”
segna l’adesione nella fede, nell’alleanza, nella consacrazione al Signore. Il
popolo ebraico è definito “proprietà” personale del Signore: il
termine ebraico qui usato, “segullah” indica, nel linguaggio profano, la
proprietà personale della casa reale. Il re domina su tutto lo Stato, ma oltre
a ciò, ha come sua proprietà una porzione di territorio, che ha una condizione
diversa, privilegiata.
L’immagine applicata a Dio indica che Egli è sovrano su tutti i popoli, ma
che ha un rapporto particolare con il popolo d’Israele, che è come sua
“proprietà personale”.
E’ per questo che Israele è una “nazione santa” (che partecipa,
cioè, della qualità propria ed esclusiva di Dio: la santità), è un “regno
di sacerdoti” , cioè una comunità che ha una funzione
sacerdotale nei confronti di tutti gli altri popoli della terra. Come i
sacerdoti benedicono e parlano al popolo in nome di Dio, così Israele deve
consacrare tutte le nazioni, rivelando loro la parola di Dio.
Israele e i sacerdoti stessi devono purificarsi, lavandosi le vesti in
segno di purità rituale per l’incontro con Dio. La purificazione richiesta al
popolo rientra in una visione religiosa che sente fortemente la differenza fra
il divino e l’umano. Per fare esperienza di Dio, del sacro, l’uomo si deve “separare”
da tutto ciò che è impuro e profano, cioè contrastante il sacro, e “santificarsi”.
Infatti il verbo usato in ebraico e che noi traducevamo “santificare”
significava originariamente “separare”.
Essi devono inoltre, con tutte le loro cose stare in distanza di sicurezza,
essendo il luogo santo del Sinai concepito come un terreno minato, carico
dell’energia divina che è intoccabile da mano umana. Chi viola questo perimetro
invalicabile è votato alla morte, segno della “scomunica” dalla comunità dei
figli d’Israele. Essi non lo potranno neppure toccare per non essere inquinati
(vv. 12-13). L’insistenza in vari modi espressa, sul pericolo che comporta ogni
violazione dell’area sacra, vuole appunto esaltare il mistero di Dio. In questo
colloquio Dio consegna a Mose’ il decalogo che Gesu’ nel vangelo conferma
Il termine greco “Decalogo” significa “dieci parole” e riassumono
e proclamano le leggi di Dio: “Queste parole pronunciò il Signore, parlando a
tutta la vostra assemblea, sul monte, dal fuoco, dalla nube e dall’oscurità,
con voce poderosa, e non aggiunse altro. Le scrisse su due tavole di pietra e
le diede a me” (Deut. 5,22). Perciò queste due tavole sono chiamate “la Testimonianza”
(Es. 25,16). Esse contengono, infatti, le clausole dell’alleanza conclusa tra
Dio e il suo popolo. Queste “tavole della Testimonianza” (Es. 31,18; 32,15;
34,29) devono essere collocate nell’arca” (Es. 25,16; 40, 1-2).
I Comandamenti ricevono il loro pieno significato all’interno
dell’Alleanza. Secondo la Scrittura, l’agire morale dell’uomo prende tutto il
proprio senso nella e per l’alleanza. La prima delle “dieci parole” ricorda
l’iniziativa d’amore di Dio per il suo popolo: poiché l’uomo, per castigo del
peccato, era venuto dal paradiso della libertà alla schiavitù di questo mondo,
per questo la prima parola del Decalogo tratta della libertà dicendo: “Io sono
il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto dalla condizione
di schiavitù”
I Comandamenti propriamente detti vengono in secondo luogo: essi esprimono
le implicanze dell’appartenenza a Dio stabilita attraverso l’Alleanza.
L’osservanza morale è la risposta all’iniziativa d’amore del Signore. E’
riconoscenza, omaggio a Dio, cooperazione al suo piano che persegue nella
storia
I Dieci Comandamenti enunciano le esigenze dell’amore di Dio e del
prossimo. I primi tre si riferiscono principalmente all’amore
di Dio e gli altri sette all’amore del prossimo.
Queste “dieci parole” si distribuiscono lungo due direzioni: le prime tre
sono “verticali” perché regolano i rapporti tra Dio e l’uomo, le altre sette
sono “orizzontali” e riguardano i rapporti col prossimo.
I Comandamenti dal 4° al 10°, costituiscono proposizioni essenziali della
legge naturale; pertanto li troviamo anche in codici più antichi del II
millennio a.C. : il codice Eshnunna, il codice di Lipit-Ishtar, i codici
hittiti, il codice di Hammurrabi. Tuttavia notiamo qui una differenza
fondamentale: nelle leggi di altri popoli del vicino Oriente la violazione di
esse costituisce un reato contro i propri simili; nella Bibbia, invece, è colpa
verso Dio. Notiamo quindi un’orientamento del tutto nuovo.
IL PRIMO COMANDAMENTO : Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto
uscire dal paese d’Egitto dalla condizione di schiavitù, “Non avrai
altri dèi davanti a me”:
La tradizione cristiana riconoscerà in Gesù Cristo l’immagine perfetta del
Padre e ne accetterà la raffigurazione, intendendo però, l’immagine solo a modo
di “segno” della realtà divina inafferrabile.
L’ingiunzione divina comportava il divieto di qualsiasi rappresentazione di
Dio fatta dalla mano dell’uomo. Il Deut. 4, 15-16 spiega: “Poiché non
vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco, state
bene in guardia per la vostra vita, perché non vi corrompiate e non vi facciate
l’immagine di qualche idolo...”. E’ il Dio assolutamente trascendente
che si è rivelato a Israele.
Tuttavia fin dall’A.T. , Dio ha ordinato o permesso di fare immagini che
simbolicamente hanno condotto alla salvezza operata dal Verbo incarnato: così
il serpente di rame , l’arca dell’Alleanza e
i cherubini .Fondandosi sul mistero del Verbo incarnato, il 7°
Concilio ecumenico a Nicea (nel 787), ha giustificato, contro gli iconoclasti,
il culto delle icone: quelle di Cristo, ma anche quelle della Madre di Dio,
degli angeli e di tutti i santi. Incarnandosi, il figlio di Dio ha inaugurato
una nuova “economia” delle immagini. Il culto cristiano delle immagini non è
contrario al 1° Comandamento che proscrive gli idoli. In effetti, l’onore reso
ad un’immagine appartiene a chi vi è rappresentato, e chi venera l’immagine,
venera la realtà di chi in essa è riprodotto..
IL SECONDO COMANDAMENTO riguarda l’uso del nome divino. L’espressione “invano”
del v. 7 in questo contesto sembra significare: “non farai cattivo uso
del nome del Signore Dio tuo”. Si proibisce così il falso giuramento nel
nome di Dio e di appellarsi a Lui per rafforzare maledizioni o formule magiche.
Infatti, l’uso di nomi divini per tale scopo è comune ai popoli vicini a
Israele. I pagani ritenevano che l’invocazione del nome divino fosse un’arma
efficace.
DEL TERZO COMANDAMENTO che riguarda il “sabato”
abbiamo due versioni: l’osservanza del “sabato” è legata al riposo divino
del 7° giorno. Il riposo sabbatico è collegato con la liberazione dalla
schiavitù in Egitto, e ciò gli conferisce un duplice carattere: è un giorno di
gioia ed è un giorno in cui i servi e gli schiavi stranieri sono liberati dal
loro faticoso lavoro. Gesu’ a tal proposito ci invita ad usare il sabato per fare
il bene anziché il male, salvare una vita anziché toglierla” (Mc. 3,4). Il
“sabato” è il giorno del Signore delle misericordie. “Il Figlio
dell’uomo è signore anche del sabato” (Mc. 2,28).
COL QUARTO COMANDAMENTO, il Decalogo si occupa dei rapporti
dell’uomo verso i suoi simili. Non è solo in causa il rapporto con i genitori,
ma tutte le relazioni familiari e sociali da vivere con impegno e generosità.
Il padre e la madre, infatti, incarnano tutto il clan familiare, fondamento
della società.
IL QUINTO COMANDAMENTO intende proteggere la sacralità
della vita umana, proibendo l’assassinio. Uccidere in battaglia o con la pena
capitale è incluso nel divieto. Il Pentateuco, infatti, approva entrambi
pienamente in Deut. 20, 1-14 (dove i vv. 10-13 sembrano
riflettere le opinioni del tempo sulla “guerra santa” piuttosto che sulla legge
divina), ed in Esodo 21, 12-17.
IL SESTO COMANDAMENTO ha al centro la fedeltà matrimoniale
più che la morale sessuale in genere e sarà regolata da un complesso sistema di
leggi distribuite in altri libri biblici.
IL SETTIMO COMANDAMENTO riguarda la libertà personale,
estesa poi alla proprietà familiare dei beni. Si condanna la razzia di persone
così da indurle in schiavitù. Si passò poi a proibire anche il furto di beni di
proprietà di quelle persone.
L’OTTAVO COMANDAMENTO vieta la falsa testimonianza. Questo
precetto non si limita al caso di un processo formale ma esclude parimenti
qualsiasi affermazione falsa in danno al prossimo. Per “prossimo”
la legge intende tutti coloro con cui l’Israelita ha rapporti.
IL NONO E IL DECIMO COMANDAMENTO hanno un ordine inverso in Esodo e
Deuteronomio. Entrambi i precetti stigmatizzano i desideri illeciti, desideri
che potrebbero facilmente condurre alle azioni proibite dal sesto e dal settimo
comandamento. L’apparire della parola “casa” secondo
alcuni esegeti, rifletterebbe un’aggiunta posteriore. La stessa parola ebraica,
tuttavia, può significare anche la tenda, dimora del nomade o del seminomade.
Tratta di leggi civili e penali (21, 1-22), di leggi cultuali (20, 22-26;
22, 28-30; 23, 10-19) e di norme morali (22, 16-27; 23, 1-9). Questo Codice
dell’Alleanza esprime chiaramente la volontà israelitica di considerare i vari
atti della vita ordinaria nella prospettiva dell’Alleanza. Gli studiosi
distinguono le leggi presenti nei testi biblici in leggi “apodittiche”
(evidenti, inconfutabili), e “casuistiche” (casuali).
Le leggi “apodittiche” sono formulate in genere con un imperativo negativo
e proibiscono un comportamento in modo assoluto (per esempio: “non uccidere” o
“non rubare”).
Le leggi “casuistiche” invece, hanno
una formulazione condizionale: “se si presenta il tal caso, allora ti
comporterai così”, e contemplano diverse situazioni possibili della vita
sociale.
Molti ritengono che le leggi apodittiche sono più antiche che quelle
casuistiche; queste ultime, infatti, avrebbero richiesto un maggior grado di
organizzazione sociale per essere elaborate.
Il Codice dell’Alleanza ha per sfondo il II millennio a.C. dove esistevano
già numerosi codici ed almeno tre di essi sono più antichi del famoso codice di
Hammurabi; questa vasta gamma di popoli dell’antico Oriente hanno direttamente
o indirettamente influenzato Israele.
A questa affermazione monoteistica segue la legge sull’altare,
testimoniando così l’importanza del culto. Si potranno avere più altari, ma
solamente, nei luoghi scelti dallo stesso Jahwè (contrasta con Deut. 12,26),
che ivi si manifesterà con teofanie o sogni.
La semplicità doveva caratterizzare l’altare di Jahwè: un mucchio di terra,
in particolare doveva essere eretto con pietre “vergini”, cioè non rese impure
da una lama metallica usata dall’uomo nello squadrarle.
Si affrontano, poi, alcune questioni sociali che rivelano la concretezza
della religione biblica e l’incarnazione della parola di Dio, legata a una
cultura e a una mentalità ben precisa e superabile.
Significativo è il primo caso contemplato, quello dello schiavo, la cui
legislazione è più umanitaria in Israele rispetto agli altri popoli dell’antico
Oriente, dove la schiavitù era così diffusa, da diventare fondamentale nella
vita economica di quei popoli.
L’A.T. distingue tra gli schiavi stranieri (prigionieri
di guerra oppure acquistati dai mercanti) e quelli israeliti (cioè
coloro che avevano dovuto vendersi come schiavi o vendere i propri figli per
pagare dei debiti). In questo secondo caso la legge prevede che dopo 7 anni di
servizio dovranno essere liberati; se il servo vuole rimanere presso il suo
padrone per sempre, avrà come segno distintivo la perforazione del lobo
dell’orecchio che simboleggia nell’ascolto”, l’obbedienza dello schiavo al suo padrone
(Salmo 40,7).
Un paragrafo particolare è riservato alle giovani donne vendute come
schiave e destinate ad essere concubine (si ricordi il caso di Agar, schiava di
Abramo e Sara o quello di Bila e Zilpa, appartenenti alle due mogli di
Giacobbe: Rachele e Lia). Una giovane la si poteva vendere direttamente o ad
alcune condizioni (vv. 8-11). Qualora il compratore violasse queste condizioni,
la ragazza era assolutamente libera, senza pagare compenso per se stessa.
. Alla base di ogni legge c’è la
norma cosiddetta “del taglione” (dal latino “tali”,
cioè tale è il delitto, tale è la pena): a ogni crimine deve corrispondere un
castigo proporzionato.
La legge del “taglione” che a noi appare sostanzialmente “vendicativa”,
mirava a controllare la vendetta privata, che inizialmente era l’unica forma di
“giustizia”, ponendo dei limiti onde garantirne l’equità. L’eccesso della
vendetta (Gen. 4,24), infatti, minacciava la stabilità sociale. Perciò per
l’omicida c’era la pena di morte, a meno che il delitto sia stato involontario.
In questo caso si concede il rifugio in città “protette” o presso l’altare
del tempio, luogo sacro e intoccabile. Per l’assassinio doloso, invece, nessun
asilo era concesso.
Dura è anche la legge che riguarda i delitti contro il capofamiglia,
considerato il perno della vita sociale. Si tratta di un’aspra applicazione del
quarto comandamento (vv. 15-17).
L’applicazione della legge del taglione si estende poi per molti commi che
riflettono casi specifici: contese con lesioni tra uomini liberi, violenze
contro gli schiavi, aborto colposo procurato in un incidente, danni causati da
animali e così via.
Notiamo solo due elementi. Nei vv. 23-27 ci incontriamo con la
formulazione del taglione così come è diventata celebre fino ai nostri giorni:
“Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, ecc.”. Anche
i codici mesopotamici e la stessa Legge romana comprendevano questa norma
“equilibratrice” tra danno e pena. Gesù nel Discorso della montagna proporrà ai
suoi discepoli di andare oltre questa rigida giustizia, introducendo il perdono
del nemico. Il secondo dato è nel v. 32, ove si fissa il valore di
risarcimento per la perdita di uno schiavo in trenta sicli, come fu il prezzo
richiesto da Giuda Iscariota per consegnare Gesù al sinedrio ebraico (Mt.
26,15).
L’insieme delle leggi del popolo d’Israele, a partire dal Decalogo, è
collocato nella cornice della manifestazione di Dio al Sinai e dell’alleanza
tra Dio e il suo popolo. Nella concezione biblica il diritto e la giustizia
sono messi in stretta -relazione con Dio, fonte della giustizia e suo garante.
Un capitolo molto ampio è riservato al diritto di proprietà (essa era
familiare e non strettamente personale). Interessante è la prima norma
riguardante il furto: il ladro notturno scoperto e ucciso non provoca nessun
intervento giudiziario perché si suppone l’oscurità e quindi la non
intenzionalità della sua uccisione; diverso è il caso se il ladro è ucciso in
pieno giorno.
La “vendetta di sangue” (22,1) era
diffusa nel mondo antico e si trova ancora oggi presso le tribù nomadi del
deserto. Essa prevede che se una persona è uccisa, il suo parente più prossimo
ha il diritto, che è anche un dovere, di vendicarla uccidendo l’omicida. In
ebraico colui che si incarica di compiere la vendetta, è chiamato “goel”.
Anche Dio è “goel” quando interviene in favore del suo popolo. Ciò è avvenuto
soprattutto nella liberazione dall’Egitto. Giobbe (19,25) esprimerà la sua
fiducia nella giustizia di Dio usando proprio questo termine: “Io so che il mio
vendicatore (goel) è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere”.
Successivamente è affrontato il caso
del furto di oggetti tenuti in deposito da terzi: in caso di irreperibilità del
ladro, il gestore di questi beni deve giurare davanti a Dio di non “aver messo
la sua mano sui beni del suo prossimo”. E Dio darà una risposta giudicandolo
reo o innocente attraverso forse un’estrazione delle sorti; la formulazione di
questa legge sembra presa direttamente da qualche codice dei popoli vicini.
Si passa, poi, a un’altra questione affine alla precedente. E’ quella del
risarcimento per animali dati in prestito o a servizio o in deposito presso
altri e andati smarriti, rovinati o morti. Anche in questo caso si prevede –
qualora non si approdi a una certezza sulle responsabilità – il ricorso al
“giuramento del Signore”. La parola sacra nell’antico Oriente aveva, infatti,
un valore intangibile. Una sezione a se stante è quella, riguardante un aspetto
particolare del diritto familiare, la violazione di una vergine non fidanzata.
La verginità era una condizione necessaria per il
matrimonio. In caso di violazione il colpevole è costretto al matrimonio
riparatore, a meno che vi si opponga il padre della ragazza: in quest’ultimo
caso basterà il risarcimento con l’equivalente della dote nuziale. Non
dimentichiamo che nelle antiche società orientali la donna era prima di tutto
considerata come un bene familiare e la Bibbia, che parla a uomini del suo
tempo, ne riflette l’orizzonte mentale e sociale.
Le ultime norme condannano duramente la magia nera, praticata soprattutto
da maghe. La magia era una tecnica elaborata dall’uomo per dominare tutto ciò
che incuteva paura e appariva incontrollabile. Attraverso di essa si riteneva
di poter in qualche modo modificare l’atteggiamento della divinità, spesso
percepito come ostile. La magia è condannata e proibita perché è chiaramente
l’opposto della fede, caratterizzata dalla libera volontà di Dio.
Vengono, inoltre, condannati i rapporti sessuali con animali e Infine l’idolatria: “Chi sacrifica agli dèi,
sarà votato allo sterminio”. Questa espressione indicava la sorte dei nemici
nella guerra santa. Infatti, poiché la guerra era combattuta da Dio, il bottino
doveva essere a lui riservato. Questo voleva significare la distruzione della
città nemica, l’uccisione “sacrificale” di tutti i suoi abitanti. Le proprietà
dei nemici non dovevano essere conservate come bottino: andavano anch’esse
distrutte o riservate al tesoro del santuario (Giosuè 6, 17-21). L’espressione
poi passò ad indicare anche la punizione di chi offendeva Dio e la sua santità,
in particolare di chi praticava l’idolatria e le arti divinatorie.
Infine, il testo legislativo si apre alla tutela dello straniero, che
risiedeva in mezzo a Israele, della vedova e dell’orfano,
che erano nel mondo antico in una situazione sociale di debolezza, non potendo
contare sul sostegno del marito e del padre. In tutto l’antico Oriente era
compito del re proteggerli e difenderli e su questo punto si misurava la
giustizia e il buongoverno del principe. Nell’A.T. la difesa dell’orfano e
della vedova è assunta da Dio stesso, che “ascolterà il loro grido” nel caso di
maltrattamenti. Il dovere di soccorrere l’orfano e la vedova è ripreso in
numerosi testi profetici (per esempio Isaia 1,17).
L’attenzione al povero è particolarmente spiccata nella legislazione
biblica. Ecco, infatti, una serie di norme che cercano di tutelarlo per quanto
riguarda i prestiti, condannando con forza l’usura,
si nega la legittimità di lucrare interesse sui prestiti di denaro nei
confronti dei fratelli israeliti e soprattutto dei poveri.
Il prestito deve essere fatto, senza richiedere
interesse. Questo vale per i membri del popolo d’Israele; allo straniero,
invece, si poteva prestare denaro con interesse (Deut. 23,21). In base a questo
versetto l’insegnamento della Chiesa ha ritenuto, sino alla fine del Medioevo,
che qualsiasi tipo di prestito ad interesse, fosse da equiparare all’usura. I
grandi cambiamenti nella struttura economica e sociale a partire dal XIII-XIV
sec., con lo sviluppo di un’economia più fondata sulla circolazione del denaro
prestato e sugli investimenti redditizi, hanno così portato progressivamente ad
una modifica di questa posizione. Il testo biblico con questa norma vuole
tutelare soprattutto il povero e la sua dignità. Infatti se non poteva
restituire il prestito, sarebbe stato venduto come schiavo, per ripagare il
debito.
Se si è accettato come pegno per un prestito, il mantello di lana, lo si
deve restituire la sera stessa prece l’orientale per dormire si avvolge nel suo
mantello di lana come se fosse una coperta, così da proteggersi dalle
escursioni termiche notturne. Il mantello serve anche per i più svariati usi:
per avvolgere le madie (Es. 12,34); per disporvi sopra oggetti da vendere o da
raccogliere (Giudici 8,25). Il mantello, poi, è segno della dignità della
persona che lo indossa: a Davide batteva il cuore “perché aveva tagliato un
lembo del mantello di Saul” (1 Sam. 24,6), cioè aveva leso la dignità del re,
unto del Signore. Senza il mantello l’uomo era privo di dignità oltre che di un
indumento necessario. Nella Bibbia il mantello è considerato come la casa del
povero, il suo unico bene: privarlo di questo indumento è ritenuto
un’ingiustizia. Violare questa norma significa provocare e coinvolgere il Dio
della giustizia e della misericordia.
La legislazione continua con la menzione della “bestemmia”,
altrove nella Bibbia, la bestemmia è punita con la lapidazione qui si ha solo una dichiarazione generica
contro ogni forma di maledizione contro Dio e contro l’autorità.
Segue una norma sulle offerte sacre di grano, di olio, del primogenito
della famiglia e del bestiame
L’appello finale sull’“essere santi” non dev’essere inteso in senso morale
ma piuttosto rituale, cioè secondo l’osservanza delle regole che permettono
l’accesso al culto. Cibarsi di carne sbranata è causa, appunto, di impurità
legale, perché in questo genere di carne è contenuto ancora il sangue, elemento
intoccabile perché simbolo della vita .Solo il cane, considerato animale
impuro, ne potrà mangiare.
Si condanna inoltre le “false dicerie”.
La civiltà antico-orientale dava molta importanza alla parola, al discorso. Nei
processi giudiziari l’accertamento della verità poteva avvenire quasi
esclusivamente in base alla parola dei testimoni convocati: era quindi decisiva
la loro attendibilità e veracità. Per questo non si deve né “mettere la mano
con il cattivo” (gesto procedurale di accordo) in una causa giudiziaria, né
stare con la maggioranza per comodità, né per principio sostenere il debole in
una causa se non si è certi della sua innocenza. L’imparzialità più rigorosa
deve regolare il comportamento processuale.
La generosità verso il nemico è oggetto di un’altra norma che raccomanda di
riportare o di tutelare il bue o l’asino – animali d’importanza capitale
nell’agricoltura – al proprio nemico, qualora essi siano dispersi o in
difficoltà.
La giustizia nei processi è un’esigenza fondamentale e ribadita in molte
forme in questa sezione legale del Codice dell’alleanza: correttezza, verità,
lotta alla corruzione, tutela dello straniero (si veda Es. 22,20) sono difese
in modo molto netto.
Tratto da Don Antonio Schena
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