giovedì 29 agosto 2013

Esodo: La legge

In Esodo  vedremo  la più grande esperienza vissuta da Israele, quella dell’incontro tra il Signore e il suo popolo in una montagna detta di Mosè nel sud della penisola sinottica, ai cui piedi sorge ora il monastero bizantino di Santa Caterina.
Le parole che Dio indirizza a Mosè sono rette da due pronomi fondamentali. C’è innanzi tutto l’“io” di Dio che evoca i suoi atti di liberazione (“quello che ho fatto all’Egitto... ho portato voi su ali di aquila... vi ho condotti fino a me... mia voce... mia alleanza... mia proprietà... mia è tutta la terra... voi sarete per me...).
Al dono divino Israele deve rispondere e il “voi” segna l’adesione nella fede, nell’alleanza, nella consacrazione al Signore. Il popolo ebraico è definito “proprietà” personale del Signore: il termine ebraico qui usato, “segullah” indica, nel linguaggio profano, la proprietà personale della casa reale. Il re domina su tutto lo Stato, ma oltre a ciò, ha come sua proprietà una porzione di territorio, che ha una condizione diversa, privilegiata.
L’immagine applicata a Dio indica che Egli è sovrano su tutti i popoli, ma che ha un rapporto particolare con il popolo d’Israele, che è come sua “proprietà personale”.
E’ per questo che Israele è una “nazione santa” (che partecipa, cioè, della qualità propria ed esclusiva di Dio: la santità), è un “regno di sacerdoti”   , cioè una comunità che ha una funzione sacerdotale nei confronti di tutti gli altri popoli della terra. Come i sacerdoti benedicono e parlano al popolo in nome di Dio, così Israele deve consacrare tutte le nazioni, rivelando loro la parola di Dio.
Israele e i sacerdoti stessi devono purificarsi, lavandosi le vesti in segno di purità rituale per l’incontro con Dio. La purificazione richiesta al popolo rientra in una visione religiosa che sente fortemente la differenza fra il divino e l’umano. Per fare esperienza di Dio, del sacro, l’uomo si deve “separare” da tutto ciò che è impuro e profano, cioè contrastante il sacro, e “santificarsi”. Infatti il verbo usato in ebraico e che noi traducevamo “santificare” significava originariamente “separare”.
Essi devono inoltre, con tutte le loro cose stare in distanza di sicurezza, essendo il luogo santo del Sinai concepito come un terreno minato, carico dell’energia divina che è intoccabile da mano umana. Chi viola questo perimetro invalicabile è votato alla morte, segno della “scomunica” dalla comunità dei figli d’Israele. Essi non lo potranno neppure toccare per non essere inquinati (vv. 12-13). L’insistenza in vari modi espressa, sul pericolo che comporta ogni violazione dell’area sacra, vuole appunto esaltare il mistero di Dio. In questo colloquio Dio consegna a Mose’ il decalogo che Gesu’ nel vangelo conferma
Il termine greco “Decalogo” significa “dieci parole” e riassumono e proclamano le leggi di Dio: “Queste parole pronunciò il Signore, parlando a tutta la vostra assemblea, sul monte, dal fuoco, dalla nube e dall’oscurità, con voce poderosa, e non aggiunse altro. Le scrisse su due tavole di pietra e le diede a me” (Deut. 5,22). Perciò queste due tavole sono chiamate “la Testimonianza” (Es. 25,16). Esse contengono, infatti, le clausole dell’alleanza conclusa tra Dio e il suo popolo. Queste “tavole della Testimonianza” (Es. 31,18; 32,15; 34,29) devono essere collocate nell’arca” (Es. 25,16; 40, 1-2).
I Comandamenti ricevono il loro pieno significato all’interno dell’Alleanza. Secondo la Scrittura, l’agire morale dell’uomo prende tutto il proprio senso nella e per l’alleanza. La prima delle “dieci parole” ricorda l’iniziativa d’amore di Dio per il suo popolo: poiché l’uomo, per castigo del peccato, era venuto dal paradiso della libertà alla schiavitù di questo mondo, per questo la prima parola del Decalogo tratta della libertà dicendo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto dalla condizione di schiavitù”
I Comandamenti propriamente detti vengono in secondo luogo: essi esprimono le implicanze dell’appartenenza a Dio stabilita attraverso l’Alleanza. L’osservanza morale è la risposta all’iniziativa d’amore del Signore. E’ riconoscenza, omaggio a Dio, cooperazione al suo piano che persegue nella storia
I Dieci Comandamenti enunciano le esigenze dell’amore di Dio e del prossimo. I primi tre si riferiscono principalmente all’amore di Dio e gli altri sette all’amore del prossimo.
Queste “dieci parole” si distribuiscono lungo due direzioni: le prime tre sono “verticali” perché regolano i rapporti tra Dio e l’uomo, le altre sette sono “orizzontali” e riguardano i rapporti col prossimo.
I Comandamenti dal 4° al 10°, costituiscono proposizioni essenziali della legge naturale; pertanto li troviamo anche in codici più antichi del II millennio a.C. : il codice Eshnunna, il codice di Lipit-Ishtar, i codici hittiti, il codice di Hammurrabi. Tuttavia notiamo qui una differenza fondamentale: nelle leggi di altri popoli del vicino Oriente la violazione di esse costituisce un reato contro i propri simili; nella Bibbia, invece, è colpa verso Dio. Notiamo quindi un’orientamento del tutto nuovo.

IL PRIMO COMANDAMENTO :  Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto dalla condizione di schiavitù, “Non avrai altri dèi davanti a me”:
La tradizione cristiana riconoscerà in Gesù Cristo l’immagine perfetta del Padre e ne accetterà la raffigurazione, intendendo però, l’immagine solo a modo di “segno” della realtà divina inafferrabile.
L’ingiunzione divina comportava il divieto di qualsiasi rappresentazione di Dio fatta dalla mano dell’uomo. Il Deut. 4, 15-16 spiega: “Poiché non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita, perché non vi corrompiate e non vi facciate l’immagine di qualche idolo...”. E’ il Dio assolutamente trascendente che si è rivelato a Israele.
Tuttavia fin dall’A.T. , Dio ha ordinato o permesso di fare immagini che simbolicamente hanno condotto alla salvezza operata dal Verbo incarnato: così il serpente di rame , l’arca dell’Alleanza e i cherubini .Fondandosi sul mistero del Verbo incarnato, il 7° Concilio ecumenico a Nicea (nel 787), ha giustificato, contro gli iconoclasti, il culto delle icone: quelle di Cristo, ma anche quelle della Madre di Dio, degli angeli e di tutti i santi. Incarnandosi, il figlio di Dio ha inaugurato una nuova “economia” delle immagini. Il culto cristiano delle immagini non è contrario al 1° Comandamento che proscrive gli idoli. In effetti, l’onore reso ad un’immagine appartiene a chi vi è rappresentato, e chi venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto..

IL SECONDO COMANDAMENTO riguarda l’uso del nome divino. L’espressione “invano” del v. 7 in questo contesto sembra significare: “non farai cattivo uso del nome del Signore Dio tuo”. Si proibisce così il falso giuramento nel nome di Dio e di appellarsi a Lui per rafforzare maledizioni o formule magiche. Infatti, l’uso di nomi divini per tale scopo è comune ai popoli vicini a Israele. I pagani ritenevano che l’invocazione del nome divino fosse un’arma efficace.

DEL TERZO COMANDAMENTO che riguarda il “sabato” abbiamo due versioni:  l’osservanza del “sabato” è legata al riposo divino del 7° giorno. Il riposo sabbatico è collegato con la liberazione dalla schiavitù in Egitto, e ciò gli conferisce un duplice carattere: è un giorno di gioia ed è un giorno in cui i servi e gli schiavi stranieri sono liberati dal loro faticoso lavoro. Gesu’ a tal proposito ci invita ad usare il sabato per fare il bene anziché il male, salvare una vita anziché toglierla” (Mc. 3,4). Il “sabato” è il giorno del Signore delle misericordie. “Il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato” (Mc. 2,28).

COL QUARTO COMANDAMENTO, il Decalogo si occupa dei rapporti dell’uomo verso i suoi simili. Non è solo in causa il rapporto con i genitori, ma tutte le relazioni familiari e sociali da vivere con impegno e generosità. Il padre e la madre, infatti, incarnano tutto il clan familiare, fondamento della società.

IL QUINTO COMANDAMENTO intende proteggere la sacralità della vita umana, proibendo l’assassinio. Uccidere in battaglia o con la pena capitale è incluso nel divieto. Il Pentateuco, infatti, approva entrambi pienamente in Deut. 20, 1-14 (dove i vv. 10-13 sembrano riflettere le opinioni del tempo sulla “guerra santa” piuttosto che sulla legge divina), ed in Esodo 21, 12-17.

IL SESTO COMANDAMENTO ha al centro la fedeltà matrimoniale più che la morale sessuale in genere e sarà regolata da un complesso sistema di leggi distribuite in altri libri biblici.

IL SETTIMO COMANDAMENTO riguarda la libertà personale, estesa poi alla proprietà familiare dei beni. Si condanna la razzia di persone così da indurle in schiavitù. Si passò poi a proibire anche il furto di beni di proprietà di quelle persone.

L’OTTAVO COMANDAMENTO vieta la falsa testimonianza. Questo precetto non si limita al caso di un processo formale ma esclude parimenti qualsiasi affermazione falsa in danno al prossimo. Per “prossimo” la legge intende tutti coloro con cui l’Israelita ha rapporti.

IL NONO E IL DECIMO COMANDAMENTO hanno un ordine inverso in Esodo e Deuteronomio. Entrambi i precetti stigmatizzano i desideri illeciti, desideri che potrebbero facilmente condurre alle azioni proibite dal sesto e dal settimo comandamento. L’apparire della parola casa” secondo alcuni esegeti, rifletterebbe un’aggiunta posteriore. La stessa parola ebraica, tuttavia, può significare anche la tenda, dimora del nomade o del seminomade.
IL CODICE DELL’ALLEANZA
Tratta di leggi civili e penali (21, 1-22), di leggi cultuali (20, 22-26; 22, 28-30; 23, 10-19) e di norme morali (22, 16-27; 23, 1-9). Questo Codice dell’Alleanza esprime chiaramente la volontà israelitica di considerare i vari atti della vita ordinaria nella prospettiva dell’Alleanza. Gli studiosi distinguono le leggi presenti nei testi biblici in leggi “apodittiche” (evidenti, inconfutabili), e “casuistiche” (casuali).
Le leggi “apodittiche” sono formulate in genere con un imperativo negativo e proibiscono un comportamento in modo assoluto (per esempio: “non uccidere” o “non rubare”).
 Le leggi “casuistiche” invece, hanno una formulazione condizionale: “se si presenta il tal caso, allora ti comporterai così”, e contemplano diverse situazioni possibili della vita sociale.
Molti ritengono che le leggi apodittiche sono più antiche che quelle casuistiche; queste ultime, infatti, avrebbero richiesto un maggior grado di organizzazione sociale per essere elaborate.
Il Codice dell’Alleanza ha per sfondo il II millennio a.C. dove esistevano già numerosi codici ed almeno tre di essi sono più antichi del famoso codice di Hammurabi; questa vasta gamma di popoli dell’antico Oriente hanno direttamente o indirettamente influenzato Israele.
A questa affermazione monoteistica segue la legge sull’altare, testimoniando così l’importanza del culto. Si potranno avere più altari, ma solamente, nei luoghi scelti dallo stesso Jahwè (contrasta con Deut. 12,26), che ivi si manifesterà con teofanie o sogni.
La semplicità doveva caratterizzare l’altare di Jahwè: un mucchio di terra, in particolare doveva essere eretto con pietre “vergini”, cioè non rese impure da una lama metallica usata dall’uomo nello squadrarle.
Si affrontano, poi, alcune questioni sociali che rivelano la concretezza della religione biblica e l’incarnazione della parola di Dio, legata a una cultura e a una mentalità ben precisa e superabile.
Significativo è il primo caso contemplato, quello dello schiavo, la cui legislazione è più umanitaria in Israele rispetto agli altri popoli dell’antico Oriente, dove la schiavitù era così diffusa, da diventare fondamentale nella vita economica di quei popoli.
L’A.T. distingue tra gli schiavi stranieri (prigionieri di guerra oppure acquistati dai mercanti) e quelli israeliti (cioè coloro che avevano dovuto vendersi come schiavi o vendere i propri figli per pagare dei debiti). In questo secondo caso la legge prevede che dopo 7 anni di servizio dovranno essere liberati; se il servo vuole rimanere presso il suo padrone per sempre, avrà come segno distintivo la perforazione del lobo dell’orecchio che simboleggia nell’ascolto”, l’obbedienza dello schiavo al suo padrone (Salmo 40,7).
Un paragrafo particolare è riservato alle giovani donne vendute come schiave e destinate ad essere concubine (si ricordi il caso di Agar, schiava di Abramo e Sara o quello di Bila e Zilpa, appartenenti alle due mogli di Giacobbe: Rachele e Lia). Una giovane la si poteva vendere direttamente o ad alcune condizioni (vv. 8-11). Qualora il compratore violasse queste condizioni, la ragazza era assolutamente libera, senza pagare compenso per se stessa.
. Alla base  di ogni legge c’è la norma cosiddetta “del taglione” (dal latino “tali”, cioè tale è il delitto, tale è la pena): a ogni crimine deve corrispondere un castigo proporzionato.
La legge del “taglione” che a noi appare sostanzialmente “vendicativa”, mirava a controllare la vendetta privata, che inizialmente era l’unica forma di “giustizia”, ponendo dei limiti onde garantirne l’equità. L’eccesso della vendetta (Gen. 4,24), infatti, minacciava la stabilità sociale. Perciò per l’omicida c’era la pena di morte, a meno che il delitto sia stato involontario.
In questo caso si concede il rifugio in città “protette” o presso l’altare del tempio, luogo sacro e intoccabile. Per l’assassinio doloso, invece, nessun asilo era concesso.
Dura è anche la legge che riguarda i delitti contro il capofamiglia, considerato il perno della vita sociale. Si tratta di un’aspra applicazione del quarto comandamento (vv. 15-17).
L’applicazione della legge del taglione si estende poi per molti commi che riflettono casi specifici: contese con lesioni tra uomini liberi, violenze contro gli schiavi, aborto colposo procurato in un incidente, danni causati da animali e così via.
Notiamo solo due elementi. Nei vv. 23-27 ci incontriamo con la formulazione del taglione così come è diventata celebre fino ai nostri giorni: “Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, ecc.”. Anche i codici mesopotamici e la stessa Legge romana comprendevano questa norma “equilibratrice” tra danno e pena. Gesù nel Discorso della montagna proporrà ai suoi discepoli di andare oltre questa rigida giustizia, introducendo il perdono del nemico. Il secondo dato è nel v. 32, ove si fissa il valore di risarcimento per la perdita di uno schiavo in trenta sicli, come fu il prezzo richiesto da Giuda Iscariota per consegnare Gesù al sinedrio ebraico (Mt. 26,15).
L’insieme delle leggi del popolo d’Israele, a partire dal Decalogo, è collocato nella cornice della manifestazione di Dio al Sinai e dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Nella concezione biblica il diritto e la giustizia sono messi in stretta -relazione con Dio, fonte della giustizia e suo garante.
Un capitolo molto ampio è riservato al diritto di proprietà (essa era familiare e non strettamente personale). Interessante è la prima norma riguardante il furto: il ladro notturno scoperto e ucciso non provoca nessun intervento giudiziario perché si suppone l’oscurità e quindi la non intenzionalità della sua uccisione; diverso è il caso se il ladro è ucciso in pieno giorno.
La “vendetta di sangue” (22,1) era diffusa nel mondo antico e si trova ancora oggi presso le tribù nomadi del deserto. Essa prevede che se una persona è uccisa, il suo parente più prossimo ha il diritto, che è anche un dovere, di vendicarla uccidendo l’omicida. In ebraico colui che si incarica di compiere la vendetta, è chiamato “goel”. Anche Dio è “goel” quando interviene in favore del suo popolo. Ciò è avvenuto soprattutto nella liberazione dall’Egitto. Giobbe (19,25) esprimerà la sua fiducia nella giustizia di Dio usando proprio questo termine: “Io so che il mio vendicatore (goel) è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere”.
 Successivamente è affrontato il caso del furto di oggetti tenuti in deposito da terzi: in caso di irreperibilità del ladro, il gestore di questi beni deve giurare davanti a Dio di non “aver messo la sua mano sui beni del suo prossimo”. E Dio darà una risposta giudicandolo reo o innocente attraverso forse un’estrazione delle sorti; la formulazione di questa legge sembra presa direttamente da qualche codice dei popoli vicini.
Si passa, poi, a un’altra questione affine alla precedente. E’ quella del risarcimento per animali dati in prestito o a servizio o in deposito presso altri e andati smarriti, rovinati o morti. Anche in questo caso si prevede – qualora non si approdi a una certezza sulle responsabilità – il ricorso al “giuramento del Signore”. La parola sacra nell’antico Oriente aveva, infatti, un valore intangibile. Una sezione a se stante è quella, riguardante un aspetto particolare del diritto familiare, la violazione di una vergine non fidanzata.
La verginità era una condizione necessaria per il matrimonio. In caso di violazione il colpevole è costretto al matrimonio riparatore, a meno che vi si opponga il padre della ragazza: in quest’ultimo caso basterà il risarcimento con l’equivalente della dote nuziale. Non dimentichiamo che nelle antiche società orientali la donna era prima di tutto considerata come un bene familiare e la Bibbia, che parla a uomini del suo tempo, ne riflette l’orizzonte mentale e sociale.
Le ultime norme condannano duramente la magia nera, praticata soprattutto da maghe. La magia era una tecnica elaborata dall’uomo per dominare tutto ciò che incuteva paura e appariva incontrollabile. Attraverso di essa si riteneva di poter in qualche modo modificare l’atteggiamento della divinità, spesso percepito come ostile. La magia è condannata e proibita perché è chiaramente l’opposto della fede, caratterizzata dalla libera volontà di Dio.
Vengono, inoltre, condannati i rapporti sessuali con animali  e Infine l’idolatria: “Chi sacrifica agli dèi, sarà votato allo sterminio”. Questa espressione indicava la sorte dei nemici nella guerra santa. Infatti, poiché la guerra era combattuta da Dio, il bottino doveva essere a lui riservato. Questo voleva significare la distruzione della città nemica, l’uccisione “sacrificale” di tutti i suoi abitanti. Le proprietà dei nemici non dovevano essere conservate come bottino: andavano anch’esse distrutte o riservate al tesoro del santuario (Giosuè 6, 17-21). L’espressione poi passò ad indicare anche la punizione di chi offendeva Dio e la sua santità, in particolare di chi praticava l’idolatria e le arti divinatorie.
Infine, il testo legislativo si apre alla tutela dello straniero, che risiedeva in mezzo a Israele, della vedova e dell’orfano, che erano nel mondo antico in una situazione sociale di debolezza, non potendo contare sul sostegno del marito e del padre. In tutto l’antico Oriente era compito del re proteggerli e difenderli e su questo punto si misurava la giustizia e il buongoverno del principe. Nell’A.T. la difesa dell’orfano e della vedova è assunta da Dio stesso, che “ascolterà il loro grido” nel caso di maltrattamenti. Il dovere di soccorrere l’orfano e la vedova è ripreso in numerosi testi profetici (per esempio Isaia 1,17).
L’attenzione al povero è particolarmente spiccata nella legislazione biblica. Ecco, infatti, una serie di norme che cercano di tutelarlo per quanto riguarda i prestiti, condannando con forza l’usura, si nega la legittimità di lucrare interesse sui prestiti di denaro nei confronti dei fratelli israeliti e soprattutto dei poveri.
Il prestito deve essere fatto, senza richiedere interesse. Questo vale per i membri del popolo d’Israele; allo straniero, invece, si poteva prestare denaro con interesse (Deut. 23,21). In base a questo versetto l’insegnamento della Chiesa ha ritenuto, sino alla fine del Medioevo, che qualsiasi tipo di prestito ad interesse, fosse da equiparare all’usura. I grandi cambiamenti nella struttura economica e sociale a partire dal XIII-XIV sec., con lo sviluppo di un’economia più fondata sulla circolazione del denaro prestato e sugli investimenti redditizi, hanno così portato progressivamente ad una modifica di questa posizione. Il testo biblico con questa norma vuole tutelare soprattutto il povero e la sua dignità. Infatti se non poteva restituire il prestito, sarebbe stato venduto come schiavo, per ripagare il debito.
Se si è accettato come pegno per un prestito, il mantello di lana, lo si deve restituire la sera stessa prece l’orientale per dormire si avvolge nel suo mantello di lana come se fosse una coperta, così da proteggersi dalle escursioni termiche notturne. Il mantello serve anche per i più svariati usi: per avvolgere le madie (Es. 12,34); per disporvi sopra oggetti da vendere o da raccogliere (Giudici 8,25). Il mantello, poi, è segno della dignità della persona che lo indossa: a Davide batteva il cuore “perché aveva tagliato un lembo del mantello di Saul” (1 Sam. 24,6), cioè aveva leso la dignità del re, unto del Signore. Senza il mantello l’uomo era privo di dignità oltre che di un indumento necessario. Nella Bibbia il mantello è considerato come la casa del povero, il suo unico bene: privarlo di questo indumento è ritenuto un’ingiustizia. Violare questa norma significa provocare e coinvolgere il Dio della giustizia e della misericordia.
La legislazione continua con la menzione della “bestemmia”, altrove nella Bibbia, la bestemmia è punita con la lapidazione  qui si ha solo una dichiarazione generica contro ogni forma di maledizione contro Dio e contro l’autorità.
Segue una norma sulle offerte sacre di grano, di olio, del primogenito della famiglia e del bestiame

L’appello finale sull’“essere santi” non dev’essere inteso in senso morale ma piuttosto rituale, cioè secondo l’osservanza delle regole che permettono l’accesso al culto. Cibarsi di carne sbranata è causa, appunto, di impurità legale, perché in questo genere di carne è contenuto ancora il sangue, elemento intoccabile perché simbolo della vita .Solo il cane, considerato animale impuro, ne potrà mangiare. 
Si condanna inoltre le “false dicerie”. La civiltà antico-orientale dava molta importanza alla parola, al discorso. Nei processi giudiziari l’accertamento della verità poteva avvenire quasi esclusivamente in base alla parola dei testimoni convocati: era quindi decisiva la loro attendibilità e veracità. Per questo non si deve né “mettere la mano con il cattivo” (gesto procedurale di accordo) in una causa giudiziaria, né stare con la maggioranza per comodità, né per principio sostenere il debole in una causa se non si è certi della sua innocenza. L’imparzialità più rigorosa deve regolare il comportamento processuale.
La generosità verso il nemico è oggetto di un’altra norma che raccomanda di riportare o di tutelare il bue o l’asino – animali d’importanza capitale nell’agricoltura – al proprio nemico, qualora essi siano dispersi o in difficoltà.

La giustizia nei processi è un’esigenza fondamentale e ribadita in molte forme in questa sezione legale del Codice dell’alleanza: correttezza, verità, lotta alla corruzione, tutela dello straniero (si veda Es. 22,20) sono difese in modo molto netto.
Tratto da Don Antonio Schena

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