l’Esodo narra di un popolo di elezione,
liberazione ed alleanza, come il dogma centrale della religione
La forma letteraria dell’Esodo è stata definita un’epopea
religiosa. L’Esodo contiene fatti realmente accaduti che sono il fondamento
della religione d’Israele, ma che sono spesso abbelliti da un tono epico. Tale
modo di scrivere serviva ad un duplice fine: esaltare la grandezza del Dio
d’Israele e mettere in singolare rilievo il popolo eletto.
La composizione.
Sono bene evidenti in questo libro le fonti Jahwista, Elohista e Sacerdotale,
con qualche tocco anche della tradizione Deuteronomista. La redazione finale
del testo, o la sua forma attuale, risale probabilmente al V sec. A.C.
La datazione. Si
ritiene il 1280 a.C. la data approssimativa dell’Esodo dall’Egitto.
Il titolo “Esodo”,
attribuito a questo celebre libro biblico dell’antica versione greca della S.
Scrittura, definisce acutamente il cuore dell’intera opera. Essa, infatti, si
sviluppa attorno ad una “uscita”
materiale, sociale spirituale:
il popolo ebraico, oppresso dalla potenza egiziana, “esce”
dalla terra dei Faraoni verso la patria promessa ai padri da Dio.
In ogni modo, l’Esodo rimarrà nella storia
e nella fede d’Israele come un gran segno divino: il Dio d’Israele, si rivela
come il Signore della libertà, che non è indifferente al grido degli oppressi.
Il libro dell’Esodo, però, è
dominato anche da un monte, il Sinai. E’ su questa vetta, che Mosè, riceve le “Dieci Parole”, il “Decalogo”, che sarà la base della morale biblica
e della risposta che Israele dovrà offrire al Dio che si è alleato con lui.
Nelle prime righe del libro dell’Esodo appaiono
i nomi dei dodici figli di Giacobbe, capostipiti delle future dodici tribù
d’Israele, nel frattempo anche entrare in scena per l’ultima volta Giuseppe con la menzione della sua morte in
terra egiziana. Ecco e Mosè è un discendente di Giacobbe della quarta
generazione. Ecco riconfermarsi ancora la promessa divina fatta ai patriarchi: quella di una
grandiosa discendenza che ora è realtà: “I figli d’Israele prolificarono e
crebbero, si moltiplicarono e divennero molto, molto forti”.
Questa crescita clamorosa di
un popolo straniero all’interno del territorio egiziano solleva preoccupazioni
di tipo politico. Scatta la decisione di un controllo rigido e repressivo nei
confronti di una comunità straniera troppo potente, che può trasformarsi in un
pericolo nazionale.
Gli Ebrei sono allora sottoposti a lavori
forzati nella preparazione
dell’argilla e dei mattoni per la costruzione di due città-deposito.
La
fabbricazione dei mattoni”. L’Egitto è un paese povero di pietra, e per l’edilizia
ricorreva ai mattoni, che si fabbricavano calpestando con i piedi l’argilla,
alla quale si mescolava della paglia per dare ad essa maggiore solidità. Di
varie dimensioni, i mattoni erano poi seccati all’aria o al sole. Gli Egiziani
amavano colorare i mattoni per decorare i loro edifici di lusso.
“I lavori forzati”. Per le grandi opere edilizie, gli Egiziani
si servivano degli schiavi, dei prigionieri di guerra e delle popolazioni dei
paesi sottomessi al loro potere; anche gli Ebrei sono costretti ai lavori
forzati, in particolare a portare pesi. Lo stesso sistema sarà applicato dal re
Salomone per le costruzioni della reggia e del Tempio in Gerusalemme (1 Re
4,6). Israele però continua a crescere; anche l’inasprimento del lavoro
edilizio e agricolo non blocca l’espansione del popolo ebraico. Il lamento d’Israele schiavo e oppresso continua a
salire al cielo. Il Signore “si ricorda dell’alleanza” stabilita con Abramo,
Isacco, Giacobbe.
Gli
Egiziani, erano soliti immagazzinare le eccedenze dei raccolti, che erano poi
ridistribuite come paga ai soldati e ai funzionari. Esse, servivano come merce
di scambio per l’acquisto di materie prime dagli altri popoli e come riserve
alimentari per le epoche di carestia.
Le città di “Pitom” (in egizio antico: “città del dio
Atum”, il dio della creazione) e “Ramses” (un nome
faraonico molto importante nel XIII sec. a. C.), situate sul delta del Nilo,
servivano a questo scopo.
Le
levatrici ebree avrebbero dovute eliminare i neonati maschi degli Ebrei,
allorché essi uscivano dal grembo della madre, posta sul “sedile per il parto”, forse due pietre che
facilitavano l’espulsione del piccolo dal grembo. Esse chiamate a rendere conto
della loro “obiezione di coscienza” all’ordine faraonico, adducono una scusante
legata all’impossibilità di controllare i parti delle madri ebree; ma in realtà
la coscienza delle donne si basava su motivi esclusivamente religiosi: (“ebbero
timore di Dio”). Ma Il lamento d’Israele schiavo e oppresso
continua a salire al cielo. Il Signore “si ricorda dell’alleanza” stabilita con
Abramo, Isacco, Giacobbe e mentre il disegno morte
concepito dal Faraone non si arresta. L’ordine è tassativo: i maschi ebrei
devono essere tutti annegati nel Nilo; come è facile immaginare, si sta
preparando la storia del piccolo Mosè, Mosè, scelto da Dio per liberare il suo
popolo dalla schiavitù egiziana, è presente in ogni pagina dell’Esodo. Il suo
nome è spiegato popolarmente come “ salvato
dalle acque”
“Servo di Dio” per eccellenza , del suo
“eletto” come di un uomo “amato da Dio e dagli uomini, Mose’ fu esposto dalla madre nelle acque di
un fiume in una cesta di canne, chiusa con un coperchio di bitume. Fu salvato
da un contadino e allevato nella sua casa. Diventò poi un gran re, fondatore di
un’importante dinastia.
Mosè cresce senza però perdere la sua
matrice ebraica. E’ posto, così, di fronte al dramma del suo popolo oppresso.
La narrazione comprende due quadri: la reazione violenta di Mosè, che elimina
un sorvegliante egiziano troppo duro e la scoperta che la notizia di questo
omicidio, si sta diffondendo e proprio per colpa degli Ebrei che vi hanno assistito.
La reazione del Faraone è pericolosa per Mosè che sceglie la via della fuga,
anticipando idealmente la vicenda del suo popolo.
Egli, dunque, chiede asilo
politico presso il clan dei Madianiti. La storia personale di Mosè s’intreccia
ora con quella di una famiglia madianita, conosciuta a un pozzo, come spesso
avveniva nell’antico Oriente (si ricordi l’incontro di Rebecca col servo di
Abramo o quello di Giacobbe con Rachele).
L’ansia di giustizia che
pervade Mosè lo spinge a difendere le sette figlie di un sacerdote di Madian,
molestate da alcuni pastori prepotenti: Il sacerdote è chiamato “Reuel”
Intanto Reuel accoglie Mosè
nella sua casa e gli concede in moglie la figlia “Zippora” (=
“uccello”). Così Mosè contrae un matrimonio misto con una straniera di un
popolo nemico. Nasce un figlio da questo matrimonio e il suo nome è
rappresentativo. “Gherson”, in pratica “straniero, “ospite” .
Intanto il Faraone oppressore muore.
Il “ricordo” di Dio è efficace, attivo e salvatore. Mosè che ora sta vivendo
come un pastore, inserito nel clan di Reuel-Ietro. Pascolando il suo gregge,
Mosè giunge al monte santo, luogo che poi sarebbe diventato sacro, proprio per
l’esperienza di Dio che ora Mosè sta vivendo. E’ l’Oreb, che
significa in ebraico “arido”. E’
chiamato “monte di Dio” perché è qui che Dio si rivelerà a
Mosè. Ad apparire a Mosè è prima l’angelo (inteso “come inviato di Dio”), che
lascia il passo allo stesso Signore. Mosè si presenta in questo luogo sacro a piedi nudi (Es. 3,5) in segno di rispetto e di riverenza. Ancora oggi nelle moschee
si entra dopo essersi tolte le scarpe, così come nelle Chiese ci si toglie il
cappello. Il “sacro” esprime sempre una “separazione”, perciò i templi e gli
altari sorgono all’interno di un recinto sacro, in spazi ben delimitati.
L’uomo, attratto dal sacro, resta affascinato; ma al tempo stesso, consapevole
della propria indegnità e fragilità, prova un senso di timore: “Mosè si coprì
il volto, perché temeva di guardare Dio”.
L’autore sacro presenta la
Vocazione di Mosè con una grandiosa autopresentazione divina, che evoca il
legame che unisce Dio ai patriarchi, ma nello stesso tempo, getta lo sguardo
sul presente angoscioso dei figli d’Israele e si dirige il futuro glorioso
della liberazione, quando si adempirà in pienezza la promessa della terra fatta
ai patriarchi. Mosè non reagisce a quest’incarico come Abramo, pronto a mettersi
in cammino, ma avanza un’obiezione legata alla sua debolezza. Ma Dio gli
promette un segno di protezione e di certezza nel futuro di libertà, un segno
legato proprio al Sinai.
Mosè non si accontenta e
chiede di conoscere il nome stesso di Dio, cioè la sua intima realtà. Dio qui
non si rivela con un nome-sostantivo,
ma con un nome-verbo: “hwh” in ebraico “Io sono”.
E’ da qui che sono derivate quelle quattro lettere sacre, “JHWH”,
lette di solito “Jahweh”, impronunziabili da parte del giudaismo
successivo, nemmeno durante la lettura del testo biblico: difatti, il termine
“Iahweh”, fu sostituito con quello di “ADONAJ” (= “mio Signore”).
Originariamente il testo ebraico della Bibbia conteneva solo le consonanti:
alcuni segni per indicare la pronuncia delle vocali furono introdotti a partire
dal VI sec. d.C. Poiché, però il nome divino si leggeva “Adonaj”, alle
consonanti “Jhwh” furono
inserite le vocali di “Adonaj”. Da qui viene la lettura erronea
jehowah o Geova. In realtà, più che offrire una vera definizione e
rivelazione del nome misterioso di Dio, il nostro testo afferma solo l’essere
irraggiungibile e inconoscibile di Dio, la cui azione è, però, visibile e
operante nella storia e la sua presenza efficace e suprema interverrà a fianco
del suo popolo con la sua mano, potente e liberatrice. Dopo aver rivelato il suo nome, Dio conferma di nuovo il
suo incarico a Mosè, piuttosto esitante, con tre segni:
il primo riguarda la verga da pastore di Mosè che è
dotata del potere magico di trasformarsi in serpente. Il riferimento a
quest’animale va compreso nell’ambiente egiziano, dove il serpente era il
simbolo della vita e dotato di poteri di guarigione.
Il secondo segno
è quello della mano prodigiosa colpita e liberata dalla lebbra.
Il
terzo riguarda la trasformazione dell’acqua in
sangue. Com’è evidente, inizia già ora quella serie d’interventi divini che
avranno poi largo spazio nelle cosiddette “piaghe d’Egitto”.
Dio appare come il Signore
della natura cui può imprimere caratteristiche inedite e sorprendenti. Tutto
questo avviene per liberare Israele oppresso.
Ma la resistenza di Mosè è
pertinace e risponde: “Io non sono un parlatore... poiché sono impacciato di
bocca e di lingua”
Dio non rinuncia alla scelta che ha stabilito, anzi lo investe come suo “profeta”:
le parole che egli dovrà dire gli saranno suggerite da Dio stesso. Di fronte al
nuovo rifiuto di Mosè, si scatena lo sdegno di Dio che impone a Mosè una
soluzione definitiva: “Sarà Aronne, suo fratello a parlare al Faraone”.
Aronne è di tre anni più anziano di Mosè (Es. 7,7).
L’ostinazione del Faraone è
attribuita a Dio stesso (“io renderò duro il suo cuore”), perché nella Bibbia
si vuole mettere tutto – il bene e il male – sotto il dominio dell’unico
Signore. Non si vuole, perciò, forzare la libertà umana, ma solo affermare il
primato divino all’interno delle stesse vicende umane..
Mosè e Aronne sono ora di fronte al
Faraone per avanzare la loro richiesta, secondo l’ordine del Signore. Essi
chiedono per Israele il permesso di potersi recare nel deserto a celebrare una festa di pellegrinaggio
al Tempio di Gerusalemme.La festa richiedeva la sospensione d’ogni lavoro e
d’ogni attività. Di qui l’opposizione del Faraone e la sua reazione blasfema e
superba, egli non riconosce sopra di se nessun Signore e quindi non concederà
nessuna “uscita” di Israele. Mosè e Aronne ripetono la richiesta precisando che
la loro assenza durerà i “tre giorni necessari al pellegrinaggio nel deserto,
per sacrificare al Signore, loro Dio, perché non li colpisca con la peste o la
spada” (Es. 5,3).
La replica del Faraone è sbrigativa e
pratica: il popolo ebraico non può sospendere i lavori forzati, necessari
all’economia egiziana, e chi li distoglie da questo può essere accusato
d’istigazione alla ribellione.
La missione dei due fratelli si rivela,
perciò, un fallimento, ancor più clamoroso perché il Faraone procede ad
un’altra oppressione nei confronti degli Ebrei: costoro, infatti, dovranno
anche procurarsi la materia prima per il loro lavoro. I mattoni avevano uno
strato di paglia tritata che dava maggiore consistenza all’argilla impastata e
poi fatta seccare al sole. Ora gli schiavi ebrei dovevano raccogliere nei
campi anche la paglia, mantenendo, però, intatto il livello di produzione
giornaliero dei mattoni.
L’ordine del Faraone è
trasmesso ai “sorveglianti egiziani” (raffigurati nelle pitture
dell’epoca con il bastone o la frusta in mano, mentre dirigono il lavoro degli
operai), che lo mettono in esecuzione con la massima durezza, esigendo il
rispetto assoluto. Vedendo che i lavoratori ebrei non osservavano l’imposizione
nella forma più rigorosa, i sorveglianti scaricano la loro collera sugli “scribi
dei figli d’Israele” (sono Ebrei incaricati di tenere il conto e di
scrivere il numero dei mattoni fatti giorno per giorno), i quali tentano un
ricorso al Faraone, cui presentano la drammatica situazione dei loro fratelli
oppressi, costretti a prestare un servizio quasi impossibile. Il Faraone li
investe con una serie d’insulti: “Fannulloni siete”. Ironizza sul loro
desiderio di compiere un pellegrinaggio nel deserto, vedendolo solo
com’esperisse di pigrizia e, riconferma le richieste già avanzate, in altre
parole quelle di prepararsi sia la paglia sia i mattoni per le costruzioni. A
questo punto non rimane agli scribi che protestare contro Mosè e Aronne,
colpevoli ai loro occhi di aver aggravato la già dura condizione degli Ebrei
oppressi. Essi sono colpevoli di questo stato drammatico in cui versano i loro
fratelli; col loro intervento presso il Faraone è come se avessero messo sul capo
degli Ebrei una spada distruttrice. L’espressione.“ Ci avete resi odiosi agli occhi
del Faraone” (Es. 5,21) in ebraico suona letteralmente così: “Avete
reso cattivo il nostro odore presso il
Faraone” .Gli orientali
attribuiscono un ruolo importante all’odore del corpo: l’odore buono attira, è
segno d’amicizia; l’odore cattivo respinge, è segno d’inimicizia e d’odio.
Nelle antiche culture anche l’odore dei sacrifici era importante: la divinità
“odorava ”il sacrificio, esprimendone il gradimento. Così Dio odora la
“fragranza” del sacrificio di Noè (Gen. 8,21).
Di fronte a questa recriminazione dei suoi connazionali Mosè si rivolge al
Signore con una supplica, segnata dal “perché?”, un elemento tipico di queste
preghiere elevate a Dio nel dolore. Egli, infatti, vede il fallimento della sua
missione come un segno d’indifferenza divina nei confronti d’Israele. “ Tu non liberi il tuo popolo!”.
In questa protesta degli Ebrei, s’intravede quella crisi di fede e di speranza
che colpirà il popolo d’Israele durante tutta la vicenda dell’Esodo,
soprattutto durante la marcia nel deserto. Ora, col nuovo e perfetto nome di “JHWH”,
Dio entra in scena per “far uscire” il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto, per
“liberarlo” e “riscattarlo. C’è, quindi,
una continuità con l’alleanza fatta con i patriarchi: dio “si ricorda” di
quell’impegno e noi sappiamo che il “ricordo” di Dio è efficace e operativo.
L’intero Israele schiavo in Egitto diventa alleato del Signore. “Vi prenderò
per me come popolo e sarò per voi Dio” è, infatti, la formula che indica
l’alleanza e che sentiremo risuonare a più riprese nella Bibbia. E l’impegno
divino giurato “a mano alzata” sarà quello di condurre il suo alleato
nella terra promessa ai Patriarchi. Chiare le conseguenze di questo rapporto
che unisce Dio al suo popolo: la fedeltà all’alleanza è per il popolo fonte di
benedizione, l’infedeltà invece di maledizione.
LE DIECI PIAGHE D’EGITTO: Le piaghe hanno
un fondamento naturale nei fenomeni che ricorrono annualmente, o almeno con una
certa frequenza, in Egitto, tra luglio, quando le acque del Nilo incominciano a
straripare e l’aprile successivo. E in questi fenomeni naturali c’è il
carattere provvidenziale di Dio; d’altra parte, il racconto biblico interpreta
tutti gli avvenimenti come volontà di Dio.
Le piaghe sono dette in ebraico non solo “colpi”
(flagelli) ma anche “segni”, “prodigi”,
cioè miracoli che indicano qualcosa di più di un evento naturale mirabile, vale
a dire, un atto in cui Dio si rivela e agisce in modo visibile.
PRIMA
PIAGA: l’acqua
cambiata in sangue (Esodo 7,
14-24).
Questo primo flagello
suppone un inquinamento del fiume Nilo che, diventa rosso. Gli Egiziani lo
usano chiamare, appunto, “Nilo rosso”, perché simile al sangue e
provoca la morte di una grande quantità di pesci in seguito all’ossigeno che è
sottratto alle acque. Terminato il fenomeno dell’alluvione, il Nilo si presenta
con il suo colore verdastro (Nilo verde) ma i maghi egiziani (capi
degli scribi sacerdotali, capaci di interpretare le formule magiche dei libri sacri)
riescono a riprodurre lo stesso segno, rivelando la potenza che anche il male
ha in se. E così che il “cuore del Faraone si indurisce”.
Il linguaggio biblico è
solito attribuire direttamente a Dio ogni cosa, anche ciò che deriva dalla
libera scelta dell’uomo, per affermare il dominio divino su tutto il creato e
sugli eventi storici. Per questo il Libro dell’Esodo attribuisce a Dio
l’indurimento del cuore del Faraone (Esodo 7,3 “Io indurirò il cuore del
Faraone”). Altre volte, invece, più propriamente è il Faraone che si “ostina”
così che il suo cuore “resta duro” .
Gli Egiziani si abituano all’evento e
scavano pozzi per avere acqua potabile, così da continuare la loro vita, senza
più badare al monito divino. Il Signore deve, allora, procedere ad un nuovo intervento
clamoroso per scuotere il Faraone e gli Egiziani. Il Signore deve, allora,
procedere ad un nuovo intervento clamoroso per scuotere il Faraone e gli
Egiziani.
Il Signore deve, allora,
procedere ad un nuovo intervento clamoroso per scuotere il Faraone e gli
Egiziani. E’ così annunciata la:
SECONDA PIAGA: le rane:
Quando il fiume si ritira dopo la grande piena, negli acquitrini
si moltiplicano rospi e rane.
Le rane sono classificate
tra gli animali impuri (Lev. 11,10) e nel libro dell’Apocalisse appaiono tra i
sette flagelli (16,13). Ancora una volta, però, i maghi riescono a riprodurre
il prodigio. Il Faraone, tuttavia rimane colpito da questo segno e si rivolge a
Mosè perché interceda presso il Signore affinché liberi l’Egitto da questa
prova. Ma il mutamento del cuore del Faraone è breve.
E Dio, che aveva già
previsto la ribellione del cuore dell’uomo, procede ad un nuovo intervento.
TERZA PIAGA : le zanzare
Esse si
riproducono soprattutto in occasione del riflusso delle acque del Nilo che
danno origine a zone paludose e a stagni infestati da simili insetti. Questa
volta i maghi tentano invano con i loro sortilegi di riprodurre il segno di
Mosè, ma restano frustrati. Anzi devono riconoscere che qui c’è “il dito di Dio”.
L’espressione
probabilmente allude al bastone di Mosè, usato da Aronne nei vari prodigi e
così definito per la sua efficacia. L’ostinazione del Faraone costringe il
Signore ad intervenire con la:
QUARTA PIAGA: i mosconi
Questa mosca tropicale attacca uomini e bestie e si diffonde sempre
in occasione del deflusso del Nilo. Il “segno” o prodigio è dato dall’intensità
della loro presenza e dall’assenza di loro dal territorio di Gosen, abitato
dagli Ebrei, e dalla loro scomparsa in seguito alla preghiera di Mosè.
In questa circostanza il
Faraone fa la prima concessione: gli Ebrei possono sacrificare al loro Dio, ma
entro i confini d’Egitto. Mosè rifiuta questa offerta, perché i loro sacrifici
suscitano l’indignazione del popolo egiziano che consideravano divinità quegli
animali usati comunemente nei sacrifici degli Ebrei. Faraone acconsente allora
alla richiesta di Mosè, solo per rinnegare poi di nuovo la sua promessa.
QUINTA PIAGA: mortalità del bestiame
Questa piaga colpisce solamente le mandrie
e i greggi degli Egiziani, preservando gli animali degli Ebrei. Con enfasi il
narratore biblico, afferma che “tutto il bestiame posseduto dagli Egiziani
morì” (Es. 9,6).
Il bestiame degli Egiziani, uscendo al
pascolo in gennaio, prima delle piogge, avrebbe contratto una grave epidemia. Il
bestiame degli Ebrei, invece, condotto ai pascoli più tardi, avrebbe trovato le
terre del basso Nilo già purificato a motivo delle piogge che tutto inondavano
portando al mare ogni sorta di residui.
SESTA PIAGA: le ulcere
Questa piaga è messa in opera attraverso
un gesto simbolico, curioso: Mosè e Aronne gettano in alto, verso il cielo, la
fuliggine presa da una fornace ed essa ricade come polvere infettante. Produce
eruzioni cutanee, ulcere, pustole, piaghe su uomini e animali. E’ probabile che
si voglia alludere alle dermopatie provocate dalle punture della mosca
tropicale o alla cosiddetta “scabbia del Nilo”, causata dal grande caldo, che
infierisce soprattutto nel periodo d’inondazione del fiume.
I maghi egiziani stessi sono colpiti da
queste ulcere; divenuti impuri, secondo l’opinione comune di allora, sono
costretti a ritirarsi da corte e a non presentarsi più davanti al Faraone.
SETTIMA PIAGA: la grandine (Esodo 9, 13-35).
La
grandine in questa piaga è accompagnata da tuoni, fuoco e lampi, colpendo il
raccolto dell’orzo che aveva già la spiga e il lino che era in fiore, non il
grano e la spelta ancora immaturi.
Questa piaga è preparata da un discorso
che Dio destina al Faraone, sempre attraverso la mediazione di Mosè. In lui si
rileva che il Signore può eliminare con un colpo solo tutto il popolo egiziano
cancellandolo dalla terra. Invece Egli ha scelto una via più moderata, con una
successione di piaghe progressive nella speranza che il Faraone riconoscesse la
forza e la grandezza di Dio e si sottometteva.
Le piaghe rivelano, dunque, anche una
funzione “educatrice” e purificatrice, come si dirà altrove nella Bibbia
riguardo alla sofferenza in genere. Infatti, la piaga della grandine, sfocia
nella confessione del Faraone: “Questa volta ho peccato: il Signore è giusto,
io e il mio popolo siamo colpevoli” L’incalzante susseguirsi delle piaghe
sembra far breccia nel cuore “indurito” del Faraone, fino quasi a farlo
desistere dal tenere schiavi gli Ebrei. All’interno della descrizione
dell’intervento di Mosè che placa la tempesta è inserita
OTTAVA PIAGA: le cavallette
Le invasioni di cavallette molto frequenti
in Oriente, e più rare in Egitto, sono ancora oggi i flagelli più temuti;
talora sono capaci di oscurare persino il sole. Esse si stendono come un manto
sulla campagna e in breve tempo la riducono ad un deserto. Il profeta Gioele
(2, 1-11) paragona un’invasione di cavallette ad un’incursione militare. Si
ripete anche qui lo schema che ha retto il racconto di tutte le piaghe
d’Egitto. Davanti a quest’immane calamità il Faraone si pente, implorando
clemenza. Dio, paziente e misericordioso, accetta questa supplica e fa
invertire il percorso alle cavallette, il vento porta con se gli sciami delle
locuste verso il Mar Rosso.
NONA PIAGA: le tenebre (Esodo 10, 21-29)
Si tratta probabilmente di una tempesta di
vento e di sabbia, caratteristica dell’Egitto e favorita da un vento caldo e
violento chiamato “Khamsin” (= vento dei “cinquanta” giorni, a motivo della
durata). E’ un vento nocivo sia alla campagna sia agli uomini e agli animali.
Nel buio gli antichi Egiziani vedevano l’opera delle forze malefiche, fonte di
malattie e di morte. “Tre giorni” indicano nella Bibbia il tempo che intercorre
tra il castigo e la liberazione o salvezza.
Nella morte dei primogeniti,
che Mosè annuncia in un discorso infiammato, si concentra il significato anche
delle altre piaghe. Dio stesso, rivestito della sua armatura cosmica,
rappresentata dai vari elementi naturali finora usati, combatte a fianco del
suo popolo oppresso. Di fronte all’ostinazione dell’oppressore egli scatena il
suo giudizio inesorabile che raggiunge ora il suo vertice, colpendo la radice
stessa della vita di coloro che si ribellano alla sua parola.
Certo, il Signore è sempre
pronto a perdonare, come aveva fatto a più riprese in occasione delle piaghe
precedenti. C’è, infatti, una disponibilità degli Egiziani che rivelano una
loro generosità – forse costretta dalle molte privazioni subite in schiavitù
dal popolo ebraico – nell’offrire loro dei donativi (i vv. 2-3 del cap. 11
saranno ripresi in 12, 35-36). Il Faraone stesso ha rispetto per Mosè.
L’ostinazione nell’impedire la liberazione degli Ebrei conduce sull’Egitto
l’estrema prova.
Un grido corale di dolore
tra poco si stenderà su tutta la nazione, dalle stanze sontuose del Faraone
fino alla camera modesta di una donna macinatrice alla mola, per preparare la
farina da impastare, e perfino nelle stalle. La morte dei primogeniti creerà
disperazione in tutte le famiglie, mentre Israele non sarà lambito da nessuna
paura: nessun “cane aguzzerà la sua
lingua”, in altre parole abbaierà in quella notte, contro le case ebree
associandosi al grido che invece dilaga in Egitto.
“Questo mese per voi sarà l’inizio
dei mesi, per voi sarà il primo mese dell’anno” ,
“In quella
notte mangeranno la carne arrostita al fuoco, la mangeranno con azzimi ed erbe amare” (Esodo 12,8).
Il termine greco “àzjmos”
significa “cibo senza lievito” e corrisponde all’ebraico “mazzot”
= “cibo senza gusto”. Si tratta in altre parole di focacce oppure
schiacciate da consumarsi senza lievito. Le erbe amare (cicoria, lattuga
selvatica, radici) avevano lo scopo di dare gusto al cibo non lievitato.
L’agnello come offerta
caratteristica della Pasqua sarà prescritto all’epoca del giudaismo. Infatti,
il termine ebraico “seh”, usato nei testi più antichi, può significare sia
“pecora” sia “capra”, oltre che “agnello” (Esodo 12,5).
“In quella notte
attraverserò il paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito in terra d’Egitto” (Esodo12,12).
Questa piaga spietata è
collocata nel contesto della celebrazione della Pasqua, durante la quale
s’immolerà l’agnello (Esodo 12,12). Il rito di questa festa sembra aver
influito nel drammatizzare la decima piaga. Probabilmente poteva trattarsi in
origine di un’epidemia mortale che aveva colpito indistintamente gli Egiziani,
ma dalla quale gli Israeliti erano stati risparmiati. In seguito si passò alla
designazione dei soli primogeniti, per rendere più drammatica la lotta tra il
Dio degli Ebrei e il Faraone oppressore.
L’uscita degli Ebrei dall’Egitto è
descritta in una duplice versione. La prima parla di una “espulsione” da parte
del Faraone (i verbi ebraici sono “garash” = “cacciare via” e “shalah” =
“lasciare andare”). La seconda è, invece, quella dominante ed è presentata come
una fuga dall’oppressione del Faraone. Di conseguenza, è presentato anche un
doppio itinerario dell’esodo: uno a Nord, lungo il Mediterraneo; l’altro a Sud,
nella penisola del Sinai. “Quel giorno sarà per voi un memoriale” (Esodo
12,14).
Il termine ebraico “zikkaron”
= “memoriale” va compreso nel contesto della festa del popolo ebraico.
Esso indica l’attualizzazione di un passato nel presente della celebrazione
soprattutto liturgica. La Pasqua è “memoriale” non perché commemora un passato,
ma perché riproduce nell’oggi d’ogni generazione la salvezza donata da Dio al
suo popolo oppresso. In tal modo Israele, anche quando sarà entrato nella terra
promessa e vivrà in libertà, continuerà a celebrare la Pasqua, come segno della
salvezza offerta in ogni tempo da Dio. Questo è il senso del dialogo che,
durante il cerimoniale della Pasqua, s’intesse tra padre e figlio. Alla domanda
del figlio sul significato di questo rito, il padre risponde rievocando
l’evento passato dell’esodo ma riproponendolo all’interno della festa che si
sta celebrando (vv. 25-27).
“Per sette giorni mangerete azzimo” (Esodo 12,15).
Alla solennità di Pasqua,
celebrazione di stampo nomadico-pastorale, il racconto associa ora una festa di
tipo sedentario-agricolo, quella degli Azzimi, termine greco usato dalla
tradizione successiva (“senza lievito”) per tradurre l’ebraico “mazzot” (“senza
gusto”). Si trattava di una celebrazione autonoma rispetto a quella di Pasqua e
aveva al centro la preparazione di pani non lievitati, che erano consumati
durante i sette giorni di durata della festa. Essa si collegava alla prima
mietitura dell’orzo ed era scandita da “convocazioni sacre2, cioè da assemblee
liturgiche, poste in apertura e a conclusione della settimama tutta festiva. Il
pane vecchio fermentato era fatto sparire perché considerato pericoloso e
destinato a pregiudicare i risultati del nuovo raccolto, simboleggiato appunto
dalle primizie do orzo con cui si preparava il pane azzimo.
Gli Azzimi ormai sono uniti
dal libro dell’Esodo alla Pasqua. Queste due feste, dal carattere molto primitivo
e che riflettono culture nomadi ed agricole, sono state “storicizzate”, cioè
caricate del grande avvenimento della liberazione del popolo di Dio
dall’Egitto, ed hanno acquistato così un nuovo significato salvifico.
“Chiunque mangerà del
lievitato, dal primo al settimo giorno, quella persona sarà eliminata da
Israele” (Esodo 12,19).
Si tratta di un
provvedimento d’esclusione dalla comunità tribale e sociale che, nel contesto
delle antiche società, fa perdere tutti i diritti, quasi una condanna alla morte
civile.
“Procuratevi un
animale del gregge per le vostre famiglie e immolate la Pasqua” (Esodo 12,21).
“Poi impugnate
un mazzo d’issopo, lo intingerete nel sangue che è nel catino” (Esodo 12,22).
L’issopo è una piccola
pianta aromatica, che cresce lungo i muri (1 Re 5,13). I suoi ramoscelli erano
usati nei riti di purificazione per le aspersioni con il sangue e con l’acqua
(Esodo 12,22; Lev. 14,4).
“Purificare con l’issopo”
indicava sia il rito di purificazione dei malati di lebbra che ne sanciva la
guarigione, sia la purificazione dai peccati: “Purificami con l’issopo e sarò
mondato” (Salmo 51,9).
Col sangue dell’agnello gli
Ebrei aspergevano gli stipiti e l’architrave delle loro case, usando i rametti
di “issopo” come aspersorio.
LA DECIMA PIAGA: la morte dei primogeniti (Esodo 12,
29-36).
A mezzanotte il Signore,
giudice terribile, passa seminando morte in tutte le case d’Egitto. Un forte
lamento risuona in tutto il paese. Il Faraone convoca Mosè e Aronne in quella
stessa notte e concede il sospirato permesso d’uscita dall’Egitto per tutto
Israele, compreso il bestiame di proprietà degli Ebrei. Anzi, si accomiata da
loro con un saluto caloroso (“benedite anche me”). Il popolo si mette in marcia
portando con se la pasta non lievitata. L’Esodo sta per iniziare: la libertà
sembra ormai una realtà e non più un sogno.
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