sabato 10 novembre 2012

Esodo: La schiavitu' di israele, nascita di Mose' e liberazione dalla schiavitu'


l’Esodo narra di un popolo di elezione, liberazione ed alleanza, come il dogma centrale della religione
La forma letteraria dell’Esodo è stata definita un’epopea religiosa. L’Esodo contiene fatti realmente accaduti che sono il fondamento della religione d’Israele, ma che sono spesso abbelliti da un tono epico. Tale modo di scrivere serviva ad un duplice fine: esaltare la grandezza del Dio d’Israele e mettere in singolare rilievo il popolo eletto.
La composizione. Sono bene evidenti in questo libro le fonti Jahwista, Elohista e Sacerdotale, con qualche tocco anche della tradizione Deuteronomista. La redazione finale del testo, o la sua forma attuale, risale probabilmente al V sec. A.C.
La datazione. Si ritiene il 1280 a.C. la data approssimativa dell’Esodo dall’Egitto.
Il titolo “Esodo”, attribuito a questo celebre libro biblico dell’antica versione greca della S. Scrittura, definisce acutamente il cuore dell’intera opera. Essa, infatti, si sviluppa attorno ad una “uscita” materiale, sociale spirituale: il popolo ebraico, oppresso dalla potenza egiziana, “esce” dalla terra dei Faraoni verso la patria promessa ai padri da Dio.
In ogni modo, l’Esodo rimarrà nella storia e nella fede d’Israele come un gran segno divino: il Dio d’Israele, si rivela come il Signore della libertà, che non è indifferente al grido degli oppressi.
Il libro dell’Esodo, però, è dominato anche da un monte, il Sinai. E’ su questa vetta, che Mosè, riceve le Dieci Parole”, il “Decalogo”, che sarà la base della morale biblica e della risposta che Israele dovrà offrire al Dio che si è alleato con lui.
Nelle prime righe del libro dell’Esodo appaiono i nomi dei dodici figli di Giacobbe, capostipiti delle future dodici tribù d’Israele, nel frattempo anche entrare in scena per l’ultima volta  Giuseppe con la menzione della sua morte in terra egiziana. Ecco e Mosè è un discendente di Giacobbe della quarta generazione. Ecco riconfermarsi ancora la promessa  divina fatta ai patriarchi: quella di una grandiosa discendenza che ora è realtà: “I figli d’Israele prolificarono e crebbero, si moltiplicarono e divennero molto, molto forti”.
Questa crescita clamorosa di un popolo straniero all’interno del territorio egiziano solleva preoccupazioni di tipo politico. Scatta la decisione di un controllo rigido e repressivo nei confronti di una comunità straniera troppo potente, che può trasformarsi in un pericolo nazionale.
Gli Ebrei sono allora sottoposti a lavori forzati  nella preparazione dell’argilla e dei mattoni per la costruzione di due città-deposito.
 La fabbricazione dei mattoni”. L’Egitto è un paese povero di pietra, e per l’edilizia ricorreva ai mattoni, che si fabbricavano calpestando con i piedi l’argilla, alla quale si mescolava della paglia per dare ad essa maggiore solidità. Di varie dimensioni, i mattoni erano poi seccati all’aria o al sole. Gli Egiziani amavano colorare i mattoni per decorare i loro edifici di lusso.
“I lavori forzati”. Per le grandi opere edilizie, gli Egiziani si servivano degli schiavi, dei prigionieri di guerra e delle popolazioni dei paesi sottomessi al loro potere; anche gli Ebrei sono costretti ai lavori forzati, in particolare a portare pesi. Lo stesso sistema sarà applicato dal re Salomone per le costruzioni della reggia e del Tempio in Gerusalemme (1 Re 4,6). Israele però continua a crescere; anche l’inasprimento del lavoro edilizio e agricolo non blocca l’espansione del popolo ebraico. Il lamento d’Israele schiavo e oppresso continua a salire al cielo. Il Signore “si ricorda dell’alleanza” stabilita con Abramo, Isacco, Giacobbe.
 Gli Egiziani, erano soliti immagazzinare le eccedenze dei raccolti, che erano poi ridistribuite come paga ai soldati e ai funzionari. Esse, servivano come merce di scambio per l’acquisto di materie prime dagli altri popoli e come riserve alimentari per le epoche di carestia.
Le città di “Pitom” (in egizio antico: “città del dio Atum”, il dio della creazione) e “Ramses” (un nome faraonico molto importante nel XIII sec. a. C.), situate sul delta del Nilo, servivano a questo scopo.
 Le levatrici ebree avrebbero dovute eliminare i neonati maschi degli Ebrei, allorché essi uscivano dal grembo della madre, posta sul “sedile per il parto”, forse due pietre che facilitavano l’espulsione del piccolo dal grembo. Esse chiamate a rendere conto della loro “obiezione di coscienza” all’ordine faraonico, adducono una scusante legata all’impossibilità di controllare i parti delle madri ebree; ma in realtà la coscienza delle donne si basava su motivi esclusivamente religiosi: (“ebbero timore di Dio”). Ma  Il lamento d’Israele schiavo e oppresso continua a salire al cielo. Il Signore “si ricorda dell’alleanza” stabilita con Abramo, Isacco, Giacobbe e mentre il disegno morte concepito dal Faraone non si arresta. L’ordine è tassativo: i maschi ebrei devono essere tutti annegati nel Nilo; come è facile immaginare, si sta preparando la storia del piccolo Mosè, Mosè, scelto da Dio per liberare il suo popolo dalla schiavitù egiziana, è presente in ogni pagina dell’Esodo. Il suo nome è spiegato popolarmente come “ salvato dalle acque” 
 “Servo di Dio” per eccellenza , del suo “eletto” come di un uomo “amato da Dio e dagli uomini,  Mose’ fu esposto dalla madre nelle acque di un fiume in una cesta di canne, chiusa con un coperchio di bitume. Fu salvato da un contadino e allevato nella sua casa. Diventò poi un gran re, fondatore di un’importante dinastia.
Mosè cresce senza però perdere la sua matrice ebraica. E’ posto, così, di fronte al dramma del suo popolo oppresso. La narrazione comprende due quadri: la reazione violenta di Mosè, che elimina un sorvegliante egiziano troppo duro e la scoperta che la notizia di questo omicidio, si sta diffondendo e proprio per colpa degli Ebrei che vi hanno assistito. La reazione del Faraone è pericolosa per Mosè che sceglie la via della fuga, anticipando idealmente la vicenda del suo popolo.
Egli, dunque, chiede asilo politico presso il clan dei Madianiti. La storia personale di Mosè s’intreccia ora con quella di una famiglia madianita, conosciuta a un pozzo, come spesso avveniva nell’antico Oriente (si ricordi l’incontro di Rebecca col servo di Abramo o quello di Giacobbe con Rachele).
L’ansia di giustizia che pervade Mosè lo spinge a difendere le sette figlie di un sacerdote di Madian, molestate da alcuni pastori prepotenti: Il sacerdote è chiamato “Reuel
Intanto Reuel accoglie Mosè nella sua casa e gli concede in moglie la figlia “Zippora” (= “uccello”). Così Mosè contrae un matrimonio misto con una straniera di un popolo nemico. Nasce un figlio da questo matrimonio e il suo nome è rappresentativo. “Gherson”, in pratica “straniero, ospite” .
Intanto il Faraone oppressore muore.
Il “ricordo” di Dio è efficace, attivo e salvatore. Mosè che ora sta vivendo come un pastore, inserito nel clan di Reuel-Ietro. Pascolando il suo gregge, Mosè giunge al monte santo, luogo che poi sarebbe diventato sacro, proprio per l’esperienza di Dio che ora Mosè sta vivendo. E’ l’Oreb, che significa in ebraico “arido”. E’ chiamato “monte di Dio” perché è qui che Dio si rivelerà a Mosè. Ad apparire a Mosè è prima l’angelo (inteso “come inviato di Dio”), che lascia il passo allo stesso Signore. Mosè si presenta in questo luogo sacro a piedi nudi (Es. 3,5) in segno di rispetto e di riverenza.  Ancora oggi nelle moschee si entra dopo essersi tolte le scarpe, così come nelle Chiese ci si toglie il cappello. Il “sacro” esprime sempre una “separazione”, perciò i templi e gli altari sorgono all’interno di un recinto sacro, in spazi ben delimitati. L’uomo, attratto dal sacro, resta affascinato; ma al tempo stesso, consapevole della propria indegnità e fragilità, prova un senso di timore: “Mosè si coprì il volto, perché temeva di guardare Dio”.
L’autore sacro presenta la Vocazione di Mosè con una grandiosa autopresentazione divina, che evoca il legame che unisce Dio ai patriarchi, ma nello stesso tempo, getta lo sguardo sul presente angoscioso dei figli d’Israele e si dirige il futuro glorioso della liberazione, quando si adempirà in pienezza la promessa della terra fatta ai patriarchi. Mosè non reagisce a quest’incarico come Abramo, pronto a mettersi in cammino, ma avanza un’obiezione legata alla sua debolezza. Ma Dio gli promette un segno di protezione e di certezza nel futuro di libertà, un segno legato proprio al Sinai.
Mosè non si accontenta e chiede di conoscere il nome stesso di Dio, cioè la sua intima realtà. Dio qui non si rivela con un nome-sostantivo, ma con un nome-verbo: “hwh in ebraico “Io sono”. E’ da qui che sono derivate quelle quattro lettere sacre, “JHWH”, lette di solito “Jahweh”, impronunziabili da parte del giudaismo successivo, nemmeno durante la lettura del testo biblico: difatti, il termine “Iahweh”, fu sostituito con quello di “ADONAJ” (= “mio Signore”). Originariamente il testo ebraico della Bibbia conteneva solo le consonanti: alcuni segni per indicare la pronuncia delle vocali furono introdotti a partire dal VI sec. d.C. Poiché, però il nome divino si leggeva “Adonaj”, alle consonanti “Jhwh furono inserite le vocali di “Adonaj”. Da qui viene la lettura erronea jehowah  o Geova. In realtà, più che offrire una vera definizione e rivelazione del nome misterioso di Dio, il nostro testo afferma solo l’essere irraggiungibile e inconoscibile di Dio, la cui azione è, però, visibile e operante nella storia e la sua presenza efficace e suprema interverrà a fianco del suo popolo con la sua mano, potente e liberatrice.  Dopo aver rivelato il suo nome, Dio conferma di nuovo il suo incarico a Mosè, piuttosto esitante, con tre segni:
 il primo riguarda la verga da pastore di Mosè che è dotata del potere magico di trasformarsi in serpente. Il riferimento a quest’animale va compreso nell’ambiente egiziano, dove il serpente era il simbolo della vita e dotato di poteri di guarigione.
 Il secondo segno è quello della mano prodigiosa colpita e liberata dalla lebbra.
 Il terzo riguarda la trasformazione dell’acqua in sangue. Com’è evidente, inizia già ora quella serie d’interventi divini che avranno poi largo spazio nelle cosiddette “piaghe d’Egitto”.
Dio appare come il Signore della natura cui può imprimere caratteristiche inedite e sorprendenti. Tutto questo avviene per liberare Israele oppresso.
Ma la resistenza di Mosè è pertinace e risponde: “Io non sono un parlatore... poiché sono impacciato di bocca e di lingua”  Dio non rinuncia alla scelta che ha stabilito, anzi lo investe come suo “profeta”: le parole che egli dovrà dire gli saranno suggerite da Dio stesso. Di fronte al nuovo rifiuto di Mosè, si scatena lo sdegno di Dio che impone a Mosè una soluzione definitiva: “Sarà Aronne, suo fratello a parlare al Faraone”. Aronne è di tre anni più anziano di Mosè (Es. 7,7).
L’ostinazione del Faraone è attribuita a Dio stesso (“io renderò duro il suo cuore”), perché nella Bibbia si vuole mettere tutto – il bene e il male – sotto il dominio dell’unico Signore. Non si vuole, perciò, forzare la libertà umana, ma solo affermare il primato divino all’interno delle stesse vicende umane..
Mosè e Aronne sono ora di fronte al Faraone per avanzare la loro richiesta, secondo l’ordine del Signore. Essi chiedono per Israele il permesso di potersi recare nel deserto a celebrare una  festa di pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme.La festa richiedeva la sospensione d’ogni lavoro e d’ogni attività. Di qui l’opposizione del Faraone e la sua reazione blasfema e superba, egli non riconosce sopra di se nessun Signore e quindi non concederà nessuna “uscita” di Israele. Mosè e Aronne ripetono la richiesta precisando che la loro assenza durerà i “tre giorni necessari al pellegrinaggio nel deserto, per sacrificare al Signore, loro Dio, perché non li colpisca con la peste o la spada” (Es. 5,3).
La replica del Faraone è sbrigativa e pratica: il popolo ebraico non può sospendere i lavori forzati, necessari all’economia egiziana, e chi li distoglie da questo può essere accusato d’istigazione alla ribellione.
La missione dei due fratelli si rivela, perciò, un fallimento, ancor più clamoroso perché il Faraone procede ad un’altra oppressione nei confronti degli Ebrei: costoro, infatti, dovranno anche procurarsi la materia prima per il loro lavoro. I mattoni avevano uno strato di paglia tritata che dava maggiore consistenza all’argilla impastata e poi fatta seccare al sole. Ora gli schiavi ebrei dovevano raccogliere nei campi anche la paglia, mantenendo, però, intatto il livello di produzione giornaliero dei mattoni.
L’ordine del Faraone è trasmesso ai “sorveglianti egiziani” (raffigurati nelle pitture dell’epoca con il bastone o la frusta in mano, mentre dirigono il lavoro degli operai), che lo mettono in esecuzione con la massima durezza, esigendo il rispetto assoluto. Vedendo che i lavoratori ebrei non osservavano l’imposizione nella forma più rigorosa, i sorveglianti scaricano la loro collera sugli “scribi dei figli d’Israele” (sono Ebrei incaricati di tenere il conto e di scrivere il numero dei mattoni fatti giorno per giorno), i quali tentano un ricorso al Faraone, cui presentano la drammatica situazione dei loro fratelli oppressi, costretti a prestare un servizio quasi impossibile. Il Faraone li investe con una serie d’insulti: “Fannulloni siete”. Ironizza sul loro desiderio di compiere un pellegrinaggio nel deserto, vedendolo solo com’esperisse di pigrizia e, riconferma le richieste già avanzate, in altre parole quelle di prepararsi sia la paglia sia i mattoni per le costruzioni. A questo punto non rimane agli scribi che protestare contro Mosè e Aronne, colpevoli ai loro occhi di aver aggravato la già dura condizione degli Ebrei oppressi. Essi sono colpevoli di questo stato drammatico in cui versano i loro fratelli; col loro intervento presso il Faraone è come se avessero messo sul capo degli Ebrei una spada distruttrice. L’espressione.“ Ci avete resi odiosi agli occhi del Faraone” (Es. 5,21) in ebraico suona letteralmente così: “Avete reso cattivo il nostro odore presso il Faraone .Gli orientali attribuiscono un ruolo importante all’odore del corpo: l’odore buono attira, è segno d’amicizia; l’odore cattivo respinge, è segno d’inimicizia e d’odio. Nelle antiche culture anche l’odore dei sacrifici era importante: la divinità “odorava ”il sacrificio, esprimendone il gradimento. Così Dio odora la “fragranza” del sacrificio di Noè (Gen. 8,21). Di fronte a questa recriminazione dei suoi connazionali Mosè si rivolge al Signore con una supplica, segnata dal “perché?”, un elemento tipico di queste preghiere elevate a Dio nel dolore. Egli, infatti, vede il fallimento della sua missione come un segno d’indifferenza divina nei confronti d’Israele. “ Tu non liberi il tuo popolo!”. In questa protesta degli Ebrei, s’intravede quella crisi di fede e di speranza che colpirà il popolo d’Israele durante tutta la vicenda dell’Esodo, soprattutto durante la marcia nel deserto. Ora, col nuovo e perfetto nome di “JHWH”, Dio entra in scena per “far uscire” il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto, per “liberarlo” e “riscattarlo.  C’è, quindi, una continuità con l’alleanza fatta con i patriarchi: dio “si ricorda” di quell’impegno e noi sappiamo che il “ricordo” di Dio è efficace e operativo. L’intero Israele schiavo in Egitto diventa alleato del Signore. “Vi prenderò per me come popolo e sarò per voi Dio” è, infatti, la formula che indica l’alleanza e che sentiremo risuonare a più riprese nella Bibbia. E l’impegno divino giurato “a mano alzata” sarà quello di condurre il suo alleato nella terra promessa ai Patriarchi. Chiare le conseguenze di questo rapporto che unisce Dio al suo popolo: la fedeltà all’alleanza è per il popolo fonte di benedizione, l’infedeltà invece di maledizione.
LE DIECI PIAGHE D’EGITTO: Le piaghe hanno un fondamento naturale nei fenomeni che ricorrono annualmente, o almeno con una certa frequenza, in Egitto, tra luglio, quando le acque del Nilo incominciano a straripare e l’aprile successivo. E in questi fenomeni naturali c’è il carattere provvidenziale di Dio; d’altra parte, il racconto biblico interpreta tutti gli avvenimenti come volontà di Dio.
 Le piaghe sono dette in ebraico non solo “colpi” (flagelli) ma anche “segni”, “prodigi”, cioè miracoli che indicano qualcosa di più di un evento naturale mirabile, vale a dire, un atto in cui Dio si rivela e agisce in modo visibile.
PRIMA PIAGA: l’acqua cambiata in sangue (Esodo 7, 14-24).
Questo primo flagello suppone un inquinamento del fiume Nilo che, diventa rosso. Gli Egiziani lo usano chiamare, appunto, “Nilo rosso”, perché simile al sangue e provoca la morte di una grande quantità di pesci in seguito all’ossigeno che è sottratto alle acque. Terminato il fenomeno dell’alluvione, il Nilo si presenta con il suo colore verdastro (Nilo verde) ma i maghi egiziani (capi degli scribi sacerdotali, capaci di interpretare le formule magiche dei libri sacri) riescono a riprodurre lo stesso segno, rivelando la potenza che anche il male ha in se. E così che il “cuore del Faraone si indurisce”.
Il linguaggio biblico è solito attribuire direttamente a Dio ogni cosa, anche ciò che deriva dalla libera scelta dell’uomo, per affermare il dominio divino su tutto il creato e sugli eventi storici. Per questo il Libro dell’Esodo attribuisce a Dio l’indurimento del cuore del Faraone (Esodo 7,3 “Io indurirò il cuore del Faraone”). Altre volte, invece, più propriamente è il Faraone che si “ostina” così che il suo cuore “resta duro” .
Gli Egiziani si abituano all’evento e scavano pozzi per avere acqua potabile, così da continuare la loro vita, senza più badare al monito divino. Il Signore deve, allora, procedere ad un nuovo intervento clamoroso per scuotere il Faraone e gli Egiziani. Il Signore deve, allora, procedere ad un nuovo intervento clamoroso per scuotere il Faraone e gli Egiziani.
Il Signore deve, allora, procedere ad un nuovo intervento clamoroso per scuotere il Faraone e gli Egiziani. E’ così annunciata la:
 SECONDA PIAGA: le rane:
Quando il fiume si ritira dopo la grande piena, negli acquitrini si moltiplicano rospi e rane.
Le rane sono classificate tra gli animali impuri (Lev. 11,10) e nel libro dell’Apocalisse appaiono tra i sette flagelli (16,13). Ancora una volta, però, i maghi riescono a riprodurre il prodigio. Il Faraone, tuttavia rimane colpito da questo segno e si rivolge a Mosè perché interceda presso il Signore affinché liberi l’Egitto da questa prova. Ma il mutamento del cuore del Faraone è breve.
E Dio, che aveva già previsto la ribellione del cuore dell’uomo, procede ad un nuovo intervento.
TERZA PIAGA : le zanzare
Esse si riproducono soprattutto in occasione del riflusso delle acque del Nilo che danno origine a zone paludose e a stagni infestati da simili insetti. Questa volta i maghi tentano invano con i loro sortilegi di riprodurre il segno di Mosè, ma restano frustrati. Anzi devono riconoscere che qui c’è “il dito di Dio”.
L’espressione probabilmente allude al bastone di Mosè, usato da Aronne nei vari prodigi e così definito per la sua efficacia. L’ostinazione del Faraone costringe il Signore ad intervenire con la:
QUARTA PIAGA: i mosconi
Questa mosca tropicale  attacca uomini e bestie e si diffonde sempre in occasione del deflusso del Nilo. Il “segno” o prodigio è dato dall’intensità della loro presenza e dall’assenza di loro dal territorio di Gosen, abitato dagli Ebrei, e dalla loro scomparsa in seguito alla preghiera di Mosè.
In questa circostanza il Faraone fa la prima concessione: gli Ebrei possono sacrificare al loro Dio, ma entro i confini d’Egitto. Mosè rifiuta questa offerta, perché i loro sacrifici suscitano l’indignazione del popolo egiziano che consideravano divinità quegli animali usati comunemente nei sacrifici degli Ebrei. Faraone acconsente allora alla richiesta di Mosè, solo per rinnegare poi di nuovo la sua promessa.
QUINTA PIAGA: mortalità del bestiame
Questa piaga colpisce solamente le mandrie e i greggi degli Egiziani, preservando gli animali degli Ebrei. Con enfasi il narratore biblico, afferma che “tutto il bestiame posseduto dagli Egiziani morì” (Es. 9,6).
Il bestiame degli Egiziani, uscendo al pascolo in gennaio, prima delle piogge, avrebbe contratto una grave epidemia. Il bestiame degli Ebrei, invece, condotto ai pascoli più tardi, avrebbe trovato le terre del basso Nilo già purificato a motivo delle piogge che tutto inondavano portando al mare ogni sorta di residui.
SESTA PIAGA: le ulcere
Questa piaga è messa in opera attraverso un gesto simbolico, curioso: Mosè e Aronne gettano in alto, verso il cielo, la fuliggine presa da una fornace ed essa ricade come polvere infettante. Produce eruzioni cutanee, ulcere, pustole, piaghe su uomini e animali. E’ probabile che si voglia alludere alle dermopatie provocate dalle punture della mosca tropicale o alla cosiddetta “scabbia del Nilo”, causata dal grande caldo, che infierisce soprattutto nel periodo d’inondazione del fiume.
I maghi egiziani stessi sono colpiti da queste ulcere; divenuti impuri, secondo l’opinione comune di allora, sono costretti a ritirarsi da corte e a non presentarsi più davanti al Faraone.

SETTIMA PIAGA: la grandine (Esodo 9, 13-35).
 La grandine in questa piaga è accompagnata da tuoni, fuoco e lampi, colpendo il raccolto dell’orzo che aveva già la spiga e il lino che era in fiore, non il grano e la spelta ancora immaturi.
Questa piaga è preparata da un discorso che Dio destina al Faraone, sempre attraverso la mediazione di Mosè. In lui si rileva che il Signore può eliminare con un colpo solo tutto il popolo egiziano cancellandolo dalla terra. Invece Egli ha scelto una via più moderata, con una successione di piaghe progressive nella speranza che il Faraone riconoscesse la forza e la grandezza di Dio e si sottometteva.
Le piaghe rivelano, dunque, anche una funzione “educatrice” e purificatrice, come si dirà altrove nella Bibbia riguardo alla sofferenza in genere. Infatti, la piaga della grandine, sfocia nella confessione del Faraone: “Questa volta ho peccato: il Signore è giusto, io e il mio popolo siamo colpevoli” L’incalzante susseguirsi delle piaghe sembra far breccia nel cuore “indurito” del Faraone, fino quasi a farlo desistere dal tenere schiavi gli Ebrei. All’interno della descrizione dell’intervento di Mosè che placa la tempesta è inserita

OTTAVA PIAGA: le cavallette
Le invasioni di cavallette molto frequenti in Oriente, e più rare in Egitto, sono ancora oggi i flagelli più temuti; talora sono capaci di oscurare persino il sole. Esse si stendono come un manto sulla campagna e in breve tempo la riducono ad un deserto. Il profeta Gioele (2, 1-11) paragona un’invasione di cavallette ad un’incursione militare. Si ripete anche qui lo schema che ha retto il racconto di tutte le piaghe d’Egitto. Davanti a quest’immane calamità il Faraone si pente, implorando clemenza. Dio, paziente e misericordioso, accetta questa supplica e fa invertire il percorso alle cavallette, il vento porta con se gli sciami delle locuste verso il Mar Rosso.

NONA PIAGA: le tenebre (Esodo 10, 21-29)
Si tratta probabilmente di una tempesta di vento e di sabbia, caratteristica dell’Egitto e favorita da un vento caldo e violento chiamato “Khamsin” (= vento dei “cinquanta” giorni, a motivo della durata). E’ un vento nocivo sia alla campagna sia agli uomini e agli animali. Nel buio gli antichi Egiziani vedevano l’opera delle forze malefiche, fonte di malattie e di morte. “Tre giorni” indicano nella Bibbia il tempo che intercorre tra il castigo e la liberazione o salvezza.
Nella morte dei primogeniti, che Mosè annuncia in un discorso infiammato, si concentra il significato anche delle altre piaghe. Dio stesso, rivestito della sua armatura cosmica, rappresentata dai vari elementi naturali finora usati, combatte a fianco del suo popolo oppresso. Di fronte all’ostinazione dell’oppressore egli scatena il suo giudizio inesorabile che raggiunge ora il suo vertice, colpendo la radice stessa della vita di coloro che si ribellano alla sua parola.
Certo, il Signore è sempre pronto a perdonare, come aveva fatto a più riprese in occasione delle piaghe precedenti. C’è, infatti, una disponibilità degli Egiziani che rivelano una loro generosità – forse costretta dalle molte privazioni subite in schiavitù dal popolo ebraico – nell’offrire loro dei donativi (i vv. 2-3 del cap. 11 saranno ripresi in 12, 35-36). Il Faraone stesso ha rispetto per Mosè. L’ostinazione nell’impedire la liberazione degli Ebrei conduce sull’Egitto l’estrema prova.
Un grido corale di dolore tra poco si stenderà su tutta la nazione, dalle stanze sontuose del Faraone fino alla camera modesta di una donna macinatrice alla mola, per preparare la farina da impastare, e perfino nelle stalle. La morte dei primogeniti creerà disperazione in tutte le famiglie, mentre Israele non sarà lambito da nessuna paura: nessun “cane aguzzerà la sua lingua, in altre parole abbaierà in quella notte, contro le case ebree associandosi al grido che invece dilaga in Egitto.

IL Signire dira’a a mose’ -         
 “Questo mese per voi sarà l’inizio dei mesi, per voi sarà il primo mese dell’anno” ,
 “In quella notte mangeranno la carne arrostita al fuoco, la mangeranno con azzimi ed erbe amare” (Esodo 12,8).
Il termine greco “àzjmos” significa “cibo senza lievito” e corrisponde all’ebraico “mazzot” = “cibo senza gusto”. Si tratta in altre parole di focacce oppure schiacciate da consumarsi senza lievito. Le erbe amare (cicoria, lattuga selvatica, radici) avevano lo scopo di dare gusto al cibo non lievitato.
L’agnello come offerta caratteristica della Pasqua sarà prescritto all’epoca del giudaismo. Infatti, il termine ebraico “seh”, usato nei testi più antichi, può significare sia “pecora” sia “capra”, oltre che “agnello” (Esodo 12,5).

“In quella notte attraverserò il paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito in terra d’Egitto” (Esodo12,12).
Questa piaga spietata è collocata nel contesto della celebrazione della Pasqua, durante la quale s’immolerà l’agnello (Esodo 12,12). Il rito di questa festa sembra aver influito nel drammatizzare la decima piaga. Probabilmente poteva trattarsi in origine di un’epidemia mortale che aveva colpito indistintamente gli Egiziani, ma dalla quale gli Israeliti erano stati risparmiati. In seguito si passò alla designazione dei soli primogeniti, per rendere più drammatica la lotta tra il Dio degli Ebrei e il Faraone oppressore.
L’uscita degli Ebrei dall’Egitto è descritta in una duplice versione. La prima parla di una “espulsione” da parte del Faraone (i verbi ebraici sono “garash” = “cacciare via” e “shalah” = “lasciare andare”). La seconda è, invece, quella dominante ed è presentata come una fuga dall’oppressione del Faraone. Di conseguenza, è presentato anche un doppio itinerario dell’esodo: uno a Nord, lungo il Mediterraneo; l’altro a Sud, nella penisola del Sinai. “Quel giorno sarà per voi un memoriale” (Esodo 12,14).
Il termine ebraico “zikkaron” = “memoriale” va compreso nel contesto della festa del popolo ebraico. Esso indica l’attualizzazione di un passato nel presente della celebrazione soprattutto liturgica. La Pasqua è “memoriale” non perché commemora un passato, ma perché riproduce nell’oggi d’ogni generazione la salvezza donata da Dio al suo popolo oppresso. In tal modo Israele, anche quando sarà entrato nella terra promessa e vivrà in libertà, continuerà a celebrare la Pasqua, come segno della salvezza offerta in ogni tempo da Dio. Questo è il senso del dialogo che, durante il cerimoniale della Pasqua, s’intesse tra padre e figlio. Alla domanda del figlio sul significato di questo rito, il padre risponde rievocando l’evento passato dell’esodo ma riproponendolo all’interno della festa che si sta celebrando (vv. 25-27).
Per sette giorni mangerete azzimo” (Esodo 12,15).
Alla solennità di Pasqua, celebrazione di stampo nomadico-pastorale, il racconto associa ora una festa di tipo sedentario-agricolo, quella degli Azzimi, termine greco usato dalla tradizione successiva (“senza lievito”) per tradurre l’ebraico “mazzot” (“senza gusto”). Si trattava di una celebrazione autonoma rispetto a quella di Pasqua e aveva al centro la preparazione di pani non lievitati, che erano consumati durante i sette giorni di durata della festa. Essa si collegava alla prima mietitura dell’orzo ed era scandita da “convocazioni sacre2, cioè da assemblee liturgiche, poste in apertura e a conclusione della settimama tutta festiva. Il pane vecchio fermentato era fatto sparire perché considerato pericoloso e destinato a pregiudicare i risultati del nuovo raccolto, simboleggiato appunto dalle primizie do orzo con cui si preparava il pane azzimo.
Gli Azzimi ormai sono uniti dal libro dell’Esodo alla Pasqua. Queste due feste, dal carattere molto primitivo e che riflettono culture nomadi ed agricole, sono state “storicizzate”, cioè caricate del grande avvenimento della liberazione del popolo di Dio dall’Egitto, ed hanno acquistato così un nuovo significato salvifico.
“Chiunque mangerà del lievitato, dal primo al settimo giorno, quella persona sarà eliminata da Israele” (Esodo 12,19).
Si tratta di un provvedimento d’esclusione dalla comunità tribale e sociale che, nel contesto delle antiche società, fa perdere tutti i diritti, quasi una condanna alla morte civile.
“Procuratevi un animale del gregge per le vostre famiglie e immolate la Pasqua” (Esodo 12,21).
 “Poi impugnate un mazzo d’issopo, lo intingerete nel sangue che è nel catino” (Esodo 12,22).
L’issopo è una piccola pianta aromatica, che cresce lungo i muri (1 Re 5,13). I suoi ramoscelli erano usati nei riti di purificazione per le aspersioni con il sangue e con l’acqua (Esodo 12,22; Lev. 14,4).
Purificare con l’issopo” indicava sia il rito di purificazione dei malati di lebbra che ne sanciva la guarigione, sia la purificazione dai peccati: “Purificami con l’issopo e sarò mondato” (Salmo 51,9).
Col sangue dell’agnello gli Ebrei aspergevano gli stipiti e l’architrave delle loro case, usando i rametti di “issopo” come aspersorio.

LA DECIMA PIAGA: la morte dei primogeniti (Esodo 12, 29-36).
A mezzanotte il Signore, giudice terribile, passa seminando morte in tutte le case d’Egitto. Un forte lamento risuona in tutto il paese. Il Faraone convoca Mosè e Aronne in quella stessa notte e concede il sospirato permesso d’uscita dall’Egitto per tutto Israele, compreso il bestiame di proprietà degli Ebrei. Anzi, si accomiata da loro con un saluto caloroso (“benedite anche me”). Il popolo si mette in marcia portando con se la pasta non lievitata. L’Esodo sta per iniziare: la libertà sembra ormai una realtà e non più un sogno.

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