giovedì 4 ottobre 2012

dalla nascita di Isacco alla fine della genesi



 la promessa divina della discendenza si adempie. Sara è “visitata” dal Signore della vita,  che dona a lei sterile e a suo marito vecchio, un figlio: Isacco :  indica il riso, l’allegria, la danza.Al ridere incredulo di Sara e di Abramo  si sostituisce ora il “riso di Jahwè”, cioè Isacco, espressione del “sorriso” del Signore che ha mantenuto e attuato la sua promessa.  La scena si popola allora di grida di gioia, di risa­te allegre, di festa, proprio come avveniva all’interno delle tribù e delle famiglie quando nasceva l’erede del capotribù. Isacco cresce e giunge all’età dello svezzamento;  Entra in scena, a questo punto,  Ismaele,  l’altro figlio di Abramo e Agar  (la moglie- schiava) di Abramo.  Sara esige l’al­lontanamento di entrambi;  una richiesta che addolora Abramo,  ma Dio avalla questa scelta:  anche Ismaele avrà un futuro glo­rioso,  ma l’erede della promessa divina è solo Isacco,  anche se minore rispetto all’altro. Nel deserto Agar vaga col suo bambino,  ma stando alla trama della Genesi, dovrebbe essere un giovane  di 13 anni).  Disperata,  Agar,  abbandona suo figlio sotto un arbusto e si al­lontana per non vederlo morire di sete.  Ma Dio ascolta la voce dei piccoli e dei soffrenti ed entra in scena con tenerezza.  Invita la donna a “non temere”,  e li indirizza verso un pozzo nel deserto.  La tensione è finita,  il ragazzo e la madre sono salvi.  Comincia ora per Agar e Ismaele,  la vita nomadica pura.  Nel deserto meridionale che conduce alla penisola del Sinai,  il Paran, Ismaele cresce vigoroso e battagliero: in mano ha l’arco col quale va a caccia e col quale si difende. Ancora una volta in Ismaele si vede l’antenato degli uomini del deserto; il suo matrimonio con una connazionale di sua madre,  un’egiziana,  mostra che egli si inserisce in un’altra linea rispetto a quel­la di Israele. La prova a cui Dio sottopone Abramo alla scelta del sacrificio del figlio dovuto all’ordine che Dio da’ ad Abramo “Prendi tuo figlio, il tuo diletto che ami, Isacco e... offrilo in olocausto”  (v. 2). Poi scende il silenzio. Abramo, come era partito da Ur e da Carran senza opporre obiezione,  s’incammina col figlio,  con due servi, con un asino e il carico della legna per l’olocausto,  cioè per il sacrificio che nel fuoco avrebbe arso quel figlio che pure Dio gli aveva promesso e donato. La prova a cui Dio sottopone Abramo è terribile. Egli deve scegliere tra l’amore per l’unico figlio che ha, e il dovere dell’obbedienza a Dio che gli comanda di immolarlo. Tuttavia la prova, come la tentazione, non è mai superiore alle forze dell’uomo (1 Cor. 10,13:  “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze”). La lettera agli Ebrei 11, 7  porrà in risalto la fede di Abramo nella prova:  “Per la fede Abramo ha offerto Isacco,  quando fu provato”;  Il viaggio drammatico dura tre giorni sempre accompagnato dal silenzio. Solo quando si è ai piedi del monte “nel territorio di Mòria” Abramo e Isacco stanno salendo le pendici, quel silen­zio irreale è squarciato dal figlio che, con straziante ingenui­tà, intesse un dialogo col padre, e dove Dio appare crudele e in­comprensibile. I padri della Chiesa videro in Isacco che porta la legna, il tipo di Cristo che porta la croce. Giunti ormai al vertice del dramma, sarà un ariete a essere sacrificato; e non sono mancati gli studiosi che hanno visto, in questa sostituzione, la giustificazione dell’uso di sacrificare un animale invece di un figlio, correggendo e superando così il rito originario. Allora l’angelo del Signore rinnova la promessa ad Abramo di una discendenza immensa come le stelle e la sabbia delle spiagge,  segno fra tutti i popoli che ad essa faranno riferimento per ot­tenere loro stessi benedizione. Abramo ora ritorna verso la sua regione a Bersabea, il luogo del “pozzo delle sette agnelle e del giuramento”.  Sara muore a 127 anni . Si apre davanti al lettore il più lungo racconto della Genesi, quello delle trattative per trovare una moglie a Isacco. Abramo vuole che il matrimonio sia “endogamico” (cioè dello stesso clan, o gruppo sociale), per mantenere la purezza della propria razza e della propria tradizione, per evitare ogni con­tatto con i Cananei, dediti al culto degli idoli. Si rivolge, quindi, al suo servo più fidato, forse quell’Eliezer di Damasco a cui aveva pensato di lasciare tutto in eredità quando teme­va di morire senza figli (Gen. 15,2). Abramo costringe il servo a un giuramento solenne: “mettere la mano sotto il femore”  (v.2),  che è un modo riservato per indicare un solenne giuramento compiuto sul sesso di Abramo, radice della vita e della fecondità, doni fondamentali offerti da Dio. Il servo così giura su quanto vi è di più sacro, e par­te verso il paese e la parentela di Abramo, per convincere, senza costrizioni, una donna di quella famiglia a seguirlo per diventare la sposa di Isacco. E’ qui che il servo eleva al cielo la prima delle molte pre­ghiere che punteggeranno la lunga narrazione delle nozze di Isacco. Esse hanno lo scopo di far risaltare che la donna des­tinata a diventare la moglie di Isacco è anch’essa partecipe del disegno e della promessa divina. Il servo chiede al Signore un segno che attesti la scelta divina:  un segno di generosità e di gentilezza della futura spo­sa. Ed ecco apparire in scena, Rebecca, pronipote di Abramo, essendo figlia di suo fratello Nacor. Il narratore sembra creare attorno a lei un alone di luce e un’atmosfera di silenzio: “era assai avvenente di aspetto” e “non aveva conosciuto alcun uomo”,  (il verbo “conoscere” è usa­to nella Bibbia per indicare anche i rapporti sessuali). La verginità della sposa nell’antichità era vista più come un bene familiare, che come persona in senso pieno. Intanto il servo la contemplava in silenzio, in attesa di vedere attuata in pienezza la sua preghiera. Rebecca ha un fratello, Labano, che invita in casa il servo di Abramo, e interviene nelle trattative del matrimonio (combinare il matrimonio è conforme ai costumi del tempo), della so­rella, fungendo da capofamiglia. Rebecca, quindi, offre ospitalità per la notte al servo di Abramo. Ora costui, avendo avuto conferma della generosità e del­l’ospitalità di Rebecca, può tirare un sospiro di sollievo: ha raggiunto lo scopo della sua missione ed offre l’anello alla futura sposa. La sua nuova preghiera è appunto una benedizione di ringraziamento al Dio di Abramo che guida i suoi fedeli.  Egli, infatti, svela subito la sua identità di “servo di Abramo” e dipinge l’evento clamoroso e gioioso della nascita, allo zio di Labano e alla moglie Sara, di un figlio in tarda età; così racconta l’intera storia della sua missione: egli è venuto nel luogo ove risiede la famiglia d’origine di Abramo per trovare la moglie al suo figlio Isacco, all’interno della propria tribù. Il servo descrive la gravità del suo incarico, i rischi e il solenne giu­ramento a cui è vincolato. Esso si trasformerebbe in maledizio­ne per lui, qualora non fosse osservato nell’impegno che com­porta. Il servo di Abramo, inoltre ricostruisce in modo pitto­resco davanti ai suoi interlocutori la scena da lui appena vis­suta al pozzo, con la preghiera, l’apparizione di Rebecca, la sua generosità e la scoperta della sua identità.  La domanda del servo di Abramo è alla fine precisa:. La loro risposta  è una dichiarazione religiosa che vede negli eventi appena accaduti un esplicito segno divino. Se “la cosa procede dal Signore noi non possiamo opporre nessuna reazione ne in male ne in bene”. Rebecca è, quindi, concessa ufficialmente in moglie a Isacco. Nell’ambito della famiglia patriarcale il matrimonio nasceva attorno a una meticolosa contrattazione, che il padre dello sposo conduceva nella casa della futura sposa. Il contratto di matrimonio comprendeva la decisione da parte del capofamiglia, la consegna di un prezzo o di una dote ai genitori della futura sposa, l’offerta di regali, la richiesta della volontà di matri­monio della ragazza. La fase della contrattazione corrispondeva al nostro fidanzamento. Ma già in questa fase la donna era con­siderata “moglie”, anche se sarebbe entrata nella casa del marito in un secondo momento, generalmente circa un anno dopo. La donna sposata diventavaproprietà” del marito, considerato il “ba’al” cioè “padrone”. Evidentemente non dobbiamo giudicare secondo la nostra sensibilità, nè interrogarci sulla libertà di scelta della donna, che allora era priva di personalità giuridica.  Raggiunto lo scopo della sua missione, il servo loda Dio, il vero artefice del successo, offre una specie di dote a Rebecca e finalmente si inizia la grande cena. Ma il pensiero del servo è tutto proteso verso il ritorno. L’indomani egli vorrebbe già rientrare; la famiglia che lo ospita desidera trattenerlo, se­condo la prassi dell’ospitalità, per qualche giorno. E’ a ques­to punto che entra in scena Rebecca e per la prima volta viene chiesto a lei di esprimere la sua decisione: “Partirò”, è la sua risposta. Essa va incontro all’uomo della sua vita, che per ora non conosce, convinta che quella scelta fac­cia parte di un suo disegno superiore. Questa preghiera di benedizione (v.60), fa par­te di una formula antica e solenne, in cui si augura fiducia e certezza in un futuro glorioso, con una grande discendenza (“migliaia di miriadi” di figli); difatti il nome Rebecca (Ribqah) viene associato al termine “rebabah” che in ebraico significa “miriadi”. Il termine crea così un gioco di parole “Diventa migliaia di miriadi”. Pertanto la benedizione compren­de un augurio di fecondità per la sposa, dal momento che un ma­trimonio senza figli era considerato una maledizione. La storia del matrimonio tra Isacco e Rebecca sta per giunge­re al suo esito finale. Il narratore ci introduce nella terra promessa, nel deserto meridionale del Negheb. Siamo al tramon­to e Isacco sta rientrando dall’area del pozzo di Lacai-Roi, il luogo ove era stata ambientata la storia di Agar e Ismaele (Gen. 16,14). Isacco vede da lontano una carovana di cammelli: è il corteo della sua futura sposa. L’autore biblico evoca il gioco degli occhi: Isacco “alza gli occhi” e vede la carovana; anche Rebecca “alza gli occhi” e vede Isacco, e subito si copre col velo che nascondeva il volto delle donne. Isacco prende per mano la sua sposa e la introduce nella tenda femminile, quella occupata dalla madre defunta (Sara). D’ora innanzi sarà lei, Rebecca, la “principessa” del clan. Scocca ormai la scintilla dell’amore ed è bellissima la so­bria annotazione finale: “Così Isacco si consolò dopo la mor­te di sua madre” dopo la menzione di un secondo matrimonio del patriarca - ormai vedovo in seguito alla morte di Sara - con Chetura  il nome significa “incenso” e allude alle popola­zioni che si insedieranno nelle regioni dell’Arabia (il paese dell’incenso). Queste popolazioni erano considerate discendenze di Abramo e, quindi, collegate in qualche modo a Israele. Esse però non sono destinatarie delle benedizioni di Dio, che spet­tavano unicamente a Isacco e alla sua discendenza.  Trasferita l’eredità a Isacco e sistemati gli altri figli, Abramo  muore a 175 anni “sazio di giorni” (tipica espres­sione per indicare pienezza di vita e di bene). Nella concezio­ne biblica una vita corta e abbreviata è considerata una puni­zione, mentre una vita lunga e “sazia di giorni”, come quella dei patriarchi, è considerata una benedizione. Anche Rebecca, moglie di Isacco era sterile  E infatti, ecco la preghiera di Isacco e il risultato nei due gemelli che rendono la gestazione pesante: Il parto gemellare era seguito con attenzione perché si do­veva decidere la primogenitura e non sempre era facile identi­ficare il primo neonato venuto alla luce. I figli crebbero, Esaù divenne cacciatore nomade La caccia era praticata con l’arco, sebbene gli Israeliti solo eccezionalmente si cibassero di cacciagione (troviamo in Deut. 14,5 un elenco di animali che potevano essere caccia­ti: cervo, gazzella, daino, stambecco, antilope, bufalo, camo­scio). Le allusioni, nei testi biblici a reti, lacci, buche, fanno pensare anche a una caccia mediante trappole, e Giacobbe pastore sedentario: Tra i due “gemelli”, ci sono anche le preferenze dei geni­tori, quella di Isacco per Esaù e di Rebecca per Giacobbe. Nella famiglia patriarcale il primogenito detiene una posi­zione di privilegio, che lo colloca al primo posto tra gli al­tri fratelli, lo fa succedere al padre come capofamiglia e gli fa ricevere una doppia parte di eredità. Nel caso di gemelli, come Esaù e Giacobbe, ha la primogenitura chi è nato per primo. Il primogenito può anche perdere o cedere il suo privilegio, come avviene per Esaù, che cede la primogenitura in cambio di un pranzo. Tutto il racconto va letto alla luce del tema bibli­co della “elezione” e delle scelte di Dio, che segue una linea misteriosa nella storia della salvezza . S. Paolo vede nella vicenda di Esaù la grande libertà di Dio, che non è legato a nessuna legge naturale della primogenitura (Rom. 9, 11-13). Adesso l’autore ci presenta la solenne promessa della terra e della discendenza che Dio fa a Isacco, confermandolo perciò come erede di Abramo. Isacco teme di essere ucciso dagli abitanti di Gerar, atti­rati dalla bellezza di Rebecca e perciò la fa passare per sua sorella (come per Abramo e Sara in Egitto, così Isacco fa pas­sare Rebecca per “sorella”, però nel senso di “cugina”; la lin­gua ebraica non conosce un termine corrispondente a “cugino”; l’ebraico “ah” indica sia “fratello” sia “cugino”). Ma il re Abimelech scopre la verità del rapporto che inter­corre tra i due, vedendoli per caso teneramente abbracciati nella casa che li ospitava. Segue un interrogatorio piuttosto teso tra Isacco e il re che mostra il rischio di adulterio in cui sarebbero incorsi i cittadini di Gerar, qualora avessero preso in moglie Rebecca, e che si conclude con una solenne san­zione protettiva per la coppia. Vista la benevolenza di questi stranieri, Isacco, si stabili­sce nel territorio di Gerar, nel sud della terra di Canaan. La prosperità bussa alla porta della sua casa al punto tale da renderlo un ricco proprietario; la nostra attenzione, però, non va alla sola prosperità del terreno e dei pascoli nella loro materialità, ma a Dio creatore che rende feconda e abita­bile la terra promessa ad Abramo e ai suoi discendenti. Ma scat­ta anche l’invidia degli abitanti della città che vedono con ostilità l’accrescersi della potenza di un estraneo. I filistei allora ricorrono a una tecnica “terroristica” ben nota in Oriente: la cancellazione dei pozzi, elemento vi­tale nella vita della steppa. Si ricordi che anche tra Abime­lech e Abramo le difficoltà erano sorte proprio per la contesa di un pozzo (Gen. 21,25). Isacco, sollecitato da Abimelech, decide allora di abbandonare la città di Gerar e di ritornare alla vita nomadica, stabilen­dosi non lontano di là, presso il torrente che attraversava e dava il nome a quella città filistea. Ma egli non si rassegna a rinunciare ai pozzi ricevuti in eredità da suo padre e turati per odio degli abitanti di Gerar. I servi di Isacco riescono a scavare un nuovo pozzo sorgivo ma si scatena la contesa per il suo possesso coi pastori di Gerar, il patriarca lo denomina “Esech” - “lite”. Ne scavano un secondo ed ecco ancora la contestazione degli abitanti di Gerar: il nome sarà , allora, “Sitna” = “contesa”, “accusa”.  Subito dopo, ecco un terzo pozzo scavato da Isacco. Finalmente i pastori di Gerar non avanzano pretese. Si spiega così il nome “Recobat” - “spazi vasti e liberi”, spiegazione offerta dallo stesso Isacco: “il Signore ci ha dato spazio libero”. Subito dopo si descrive un itinerario di Isacco verso il luogo: Bersabea, ove suo padre Abramo, aveva soggiornato e ave­va stipulato un accordo col re Abimelech. Le due narrazioni (questa e quella del cap. 21 della Genesi), sono indipendenti. Qui Isacco ha una nuova manifestazione di Dio e in questa apparizione il Signore gli rinnova la promessa e la benedizio­ne nel nome del “Dio di Abramo, tuo padre e mio servo”. Nella storia dei patriarchi viene man mano delineandosi la figura del Dio biblico, come Dio del dono della terra, Dio delle pro­messe e Dio del dono della discendenza, che le prime formula­zioni di fede, conoscono come “Dio dei padri”, “Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe”. E Isacco risponde costruendo un altare che verrà considerato come la radice ideale di un culto e di un santuario probabilmente ancora in funzione al tempo in cui si narrava questa storia.  Frattanto all’orizzonte si profila di nuovo il re Abimelech, questa volta però per trattare un accordo di convivenza; si stipula un trattato che viene siglato con un pranzo ufficiale (qui viene descritto il patto di fratellanza tra Isacco e i capi del luogo secondo il cosiddetto “diritto del sale” dei beduini; presso gli antichi condividere il sale e mangiare in­sieme creavano un forte legame tra i partecipanti e davano va­lore quasi sacro , definitivo e stabile a ogni tipo di contrat­tazione, giuramento e alleanze), e con un giuramento, ancora presso un pozzo, “Sibea”, che commemora l’evento. “Sibea” allude sia al numero “sette”, sia a “giuramento”: si ritorna così a spiegare il significato del nome “Bersabea” (= “giuramento). Rebecca prepara una vera e propria truffa, ai danni del vec­chio e cieco Isacco, per favorire Giacobbe. Dio passa anche attraverso i grovigli degli intrighi umani e conduce a pienezza il suo disegno.  La benedizione (vv. 27-28) fa riferimento ad attività agri­cole, anche se l’ambiente entro cui si svolge la storia di Isac­co e Giacobbe è quello dei pastori. Si intuisce allora, che il contesto in cui la storia è stata narrata e trasmessa era pro­babilmente degli agricoltori sedentari, i quali hanno sovrap­posto al racconto elementi propri della loro cultura. In Israe­le, come presso i popoli dell’antico Oriente, la fertilità del suolo era condizione essenziale di sopravvivenza e di benessere. Pertanto era importante che Dio garantisse, con la sua benedi­zione, la prosperità del lavoro agricolo. Nel rito di benedizione ci sono alcune norme da rispettare:
1)    L’abbraccio e il bacio, che svolgono una funzione nel rito di benedizione: il contatto fisico serve infatti a trasmettere la vitalità e la prosperità legate alla benedizione.
2)    Un piatto da mangiare: nella mentalità antica la benedizione veniva intesa come una trasmissione di forza vitale, che coin­volgeva la totalità della persona. Per questo nel rito di be­nedizione si poteva inserire, come accade in questo racconto un pasto che aveva la funzione di corroborare colui che avreb­be impartito la benedizione.
3)    Il rito della benedizione : nella società antica, fondata sulla struttura patriarcale della famiglia, la benedizione del padre era un evento molto importante per la vita religiosa e sociale. Essa garantiva che la divinità continuava a proteg­gere il clan, anche nei discendenti dei patriarchi. Tutto ciò è evidente anche nel racconto di Gen. 27, dove emerge un vero e proprio “rito” per la benedizione. Esso è così articolato: richiesta della benedizione, identificazione della persona da benedire, pasto per la persona che deve benedire, abbraccio (contatto fisico), e infine la benedizione.
4)    Unicità della benedizione. Il dialogo tra Isacco ed Esaù(Gen.27, 30-40), manifesta una concezione antica e quasi magica della benedizione. Poiché la benedizione è parola efficace realmente, e trasmette una forza vitale, non può essere nè ritirata nè ripetuta. Il padre ha già trasmesso “tutto” a Giacobbe e, quindi,  non può benedire Esaù. Ciò che è stato pro­messo a Giacobbe nella benedizione accadrà: egli avrà pros­perità agricola e dominerà sui suoi fratelli.
scoperto l’inganno, Esaù scoppiò in un grido altissimo di  dolore , si crea quindi una certa tensione che si è creata nel clan di Isacco: Esaù cova propositi omicidi nei confronti del fratello, così Rebecca fa riparare Giacobbe nella terra della sua fami­glia a Carran, ove risiede suo fratello Labano, che l’aveva concessa in moglie a Isacco (cap. 24). A questa soluzione Rebec­ca aggiunge un particolare significativo: rifugiandosi presso Labano, Giacobbe potrà contrarre un matrimonio “endogamico”, cioè all’interno del clan d’origine della sua famiglia, evitan­do quei matrimoni “misti” che Esaù aveva consumato unendosi con donne hittite o indigene .Esaù intanto, che si era unito a donne indigene, cerca di ingraziarsi suo padre Isacco, imitando l’abile Giacobbe: spo­serà una figlia di Ismaele, sua cugina, perché nata dallo zio paterno Ismaele. Giacobbe si mette in viaggio e giunge a un pozzo nella steppa vede Rachele, sua cugina, e subito ne è con­quistato, tant’è vero che, con uno sforzo sovrumano, riesce a rotolare via la pietra che copriva la bocca del pozzo. I pasto­ri avevano atteso tutti i greggi prima di compiere questo ges­to perché faticoso e perciò da compiere tutti insieme.  Un bacio, una lacrima, il riconoscimento, la corsa della ragazza a casa, gli abbracci e la meta raggiunta: tutto questo è narrato con essenzialità ed è fissato nella frase che esalta la parentela tra Giacobbe e Labano: “Davvero tu sei mio osso e mia carne” (Gen. 2, 23). Tuttavia Labano stipula per Giacobbe un regolare contratto di matrimonio, che, come nell’antico Oriente, prevedeva che lo sposo, o la sua famiglia, versassero una certa somma alla fa­miglia della sposa. Questo perché si riteneva che la sposa la­sciasse la propria famiglia per diventare “proprietà” del ma­rito. Tale somma o dono è indicato in ebraico con il termine mohar”. C’era la possibilità di pagare il “mohar” con la pres­tazione di un servizio o di un lavoro, come accade allo stesso Giacobbe. In pratica, Giacobbe, offrendo il suo lavoro per 7 anni, pre­para la “dote” per riscattarla dalla famiglia di appartenenza, facendola, così, “sua”. Giunto il tempo del contratto definitivo, stipulato con un banchetto, ecco il colpo di scena. Come è noto (si ricordi Rebecca che incontra Isacco, in Gen. 24,65), la sposa veniva condot­ta velata nella tenda nuziale. Labano con questo stratagemma conduce a Giacobbe l’altra figlia, la brutta Lia “dagli occhi smor­ti”(v. 17). Scoperto al mattino, alla luce del sole, l’inganno, Labano cerca di giustificare il suo comportamento, evocando un’usanza locale, quella di sposare per prima la figlia maggiore, Lia per l’appunto. Giacobbe è, così, ripagato della stessa moneta: come aveva ingannato per ottenere la primogenitura, così ora è vittima di un raggiro, operato proprio da un parente, scaltro più di lui. Perfezionato il primo matrimonio con la tradizionale setti­mana di festa, Labano concede a Giacobbe anche Rachele, secon­do l’antico uso della poligamia ampiamente praticata nell’anti­co Oriente, ma con una clausola ben precisa e onerosa: Giacob­be presterà il suo servizio per altri 7 anni. Nuova settimana nuziale e il sogno di Giacobbe si realizza. Inizia, quindi, una relazione a tre con le inevitabili tensioni e rivalità tra Lia (”antilope”) e Rachele (”pecora madre”) che si contendono l’amore e la predilezione del marito. L’uso di sposare due sorelle, non rimase in Israele. L’autore biblico è preoccupato di difendere la giustizia e vede in Lia, trascurata ma feconda, e Rachele, amata ma sterile, un segno dell’azione divina che ne equilibria le sorti delle due donne.  Da Lia nascono “Ruben” (“raah be-oni” che significa: “ha guardato la mia afflizione”); “Simeone” (è accostato al verbo “shama”’ - “ascoltare”, perché il Signore “ha ascoltato che io ero trascurata”); “Levi” (dal verbo “lawah” il cui senso prima­rio è “aderire” ma nelle relazioni personali ha il senso di “affezionarsi”); il nome “Giuda” (rimanda al verbo “Jadah” nel senso di “lodare”).  Il contrasto tra le due mogli di Giacobbe: Rachele-sterile e Lia-feconda, domina la scena; Rachele grida a Giacobbe il suo disperato desiderio: “Dammi dei figli, se no muoio!”. E lui, di rimando, le ricorda che la vita è dono divino. Una via d’uscita al suo dramma Rachele l’intravede nell’uso orientale di genera­re attraverso la propria schiava (si ricordi Sara e Agar). Ora dalla schiava Bila nasce “Dan” (verbo ebraico “din” = “rendere giustizia”), il primo figlio legale di Rachele. La feconda Bila, dà un secondo figlio a Rachele, “Neftali” (dal verbo ebraico “niftal” che significa: “lotta di Dio”; cioè rivalità e vitto­ria su Lia, ricca di figli). Lia reagisce adottando la stessa prassi e, attraverso la sua schiava Zilpa, genera “Gad” (che in ebraico significa “fortuna”). Segue la nascita sempre dalla schiava di Lia, “Aser” (vocabolo ebraico che significa: “proclamare beato”, “felice”).La gara tra le due mogli non ha tregua e si colora di un ele­mento pittoresco, quello delle mandragole, detta anche “le mele dell’ amore”. La “mandragola” è una pianta velenosa alla qua­le nell’antichità si attribuivano proprietà magiche. In partico­lare, prendendo spunto dalla sua radice, che può richiamare una figura umana, si riteneva che avesse, la capacità di guarire la sterilità, ma anche virtù afrodisiache. Il profumo della mandragola viene evocato nel Cantico dei Cantici (7,14), a sottolinea­re la profondità della passione della donna per l’amato. E’ Ruben, il primogenito di Lia, a trovarle e a portarle alla madre. Rachele le contratta con la sua rivale e le ottiene con­cedendole una notte d’amore a Giacobbe.A Lia nasce così il figlio “Issacar” (dall’ebraico: “sakar” -“salario”, “mercede”, “ricompensa”). La fecondità di Lia dilaga: ecco un altro figlio Zabulon” (dal verbo ebraico “zabad” -“dare una buona dote” a una figlia).  Ora, però, è la volta della povera Rachele, finora dimentica­ta da Dio. Egli “si ricorda” di lei e il ricordo divino è effi­cace: riesce a renderla madre, in modo diretto, di un figlio, Giuseppe”, il cui nome è spiegato in due modi diversi: come derivante dal verbo ebraico “asaf” = “togliere” (“Dio ha tolto il mio disonore”) e più correttamente, dal verbo “jasaf” - “aggiun­gere” (“il Signore mi aggiunga un altro figlio”).Tra i popoli seminomadi dell’antico Oriente, una tribù veni­va indicata con il nome dell’antenato. Così in Israele accade che i nomi delle dodici tribù d’Israele sono fatti risalire ai nomi dei dodici figli di Giacobbe. Raccontare la storia della famiglia dei patriarchi antenati era un modo per raccontare la storia delle tribù. Per questo motivo la distinzione tra i figli di Lia e i figli di Rachele può riferirsi anche a due gruppi dis­tinti di tribù, che abbiano dei legami tra di loro. Gli antenati delle due tribù avranno una funzione politica cen­trale nella storia successiva di Israele: Giuda e Giuseppe so­no presentati come figli delle mogli e non delle schiave. Conclusa la storia delle madri e dei loro figli, ecco ritornare in scena Labano (“bianco”).Il desiderio di Giacobbe è ormai quello di ritornare in pa­tria con le sue mogli, così da costituire una sua famiglia auto­noma. Lo scaltro Labano, però, sa che perderebbe in questo caso uno straordinario lavoratore, perciò avanza in modo discreto la proposta di una permanenza ulteriore di Giacobbe, nonostante l’insistenza di quest’ultimo che non manca di far notare l’alta qualità della sua passata prestazione e il rifiuto di qualsiasi compenso, anche se elevato, in cambio della sua permanenza. Alla fine, però, Giacobbe, cede alle richieste. Ma a una condizione: egli vuole come salario tutte le capre e le pecore che sono ora (e che poi nasceranno) col manto punteggiato o chiazzato; quelle dal manto bianco rimarranno a Labano. Quest’ultimo accoglie con soddisfazione la proposta apparentemente vantaggiosa per lui: la lana candida era molto più pregiata nei greggi dell’oriente. Ma Labano con inganno e all’insaputa di Giacobbe, tolse dal gregge tutti i capi striati e pezzati (che dovevano essere di Giacobbe) e li affidò ai suoi figli che li portarono lontano per tre gior­ni di cammino; cosicché a Giacobbe non rimase altro che pascola­re il restante gregge bianco (che però apparteneva aLabano).  Ma ecco riapparire l’astuzia di Giacobbe e la sua intelligenza, l’autore biblico vede in queste qualità del patriarca, le stesse doti d’Israele, come nazione: Giacobbe, quindi, ricorre a una tecnica che nasceva da una convinzione arcaica e popolare, secon­do la quale, la natura della prole sia, almeno parzialmente deter­minata da influenze esterne, riportate dalla madre durante la gravidanza. Perciò, Giacobbe, mette negli abbeveratoi, rami e verghe striate; le pecore, fissando questi rami  generano animali striati. Così da quel gregge bianco di Labano, nacquero pecore pezzate che cominciano ad appartenere a Giacobbe. Ma il patriarca perfeziona il suo brevetto: sceglie le bes­tie più robuste e, mettendo negli abbeveratoi le verghe, fa nascere animali striati e più forti, mentre quando si abbevera­vano le pecore più deboli (malate o magre), non ricorreva a ques­to stratagemma, e quindi queste pecore deboli rimanevano a Labano. La conclusione di questo stratagemma è evidente: il gregge di Giacobbe da questi accoppiamenti ne esce più forte e numeroso, quello di Labano, invece, più debole e meno numeroso. La vicenda, però, non poteva lasciare indenni i rapporti tra i due clan. I figli di Labano sono morsi dalla gelosia; Labano stesso cova dentro di sè una sorda ostilità nei confronti di Gia­cobbe. Ecco allora la grande decisione. Ispirato dal Signore a ritor­nare nella terra dei suoi padri, Giacobbe convoca le mogli e tiene loro un discorso molto articolato (vv. 5-13) in cui rie­voca le vicende accadute; giustifica il suo comportamento, spie­ga la sua astuzia come un’ispirazione divina e alla fine conclu­de proponendo la partenza. La risposta di Lia e Rachele è netta: Labano si è comportato con loro da padrone egoista vendendola a Giacobbe per averne van­taggi economici: esse alludono ai lunghi anni di servizio offerti, da Giacobbe. Sono , dunque, pronte a partire con il loro mari­to verso la sua patria. Rachele, approfitta dell’assenza del padre e ruba piccole statuet­te che indicavano divinità familiari al padre; e, secondo l’usanza dell’an­tico Oriente, il possesso di queste statuette sanciva il dirit­to all’eredità. Con l’astuzia che gli è propria, Giacobbe, riesce a nasconde­re la sua fuga. Labano, che viveva ormai con il suo clan sepa­rato da quello di Giacobbe, se ne accorge solo dopo che Giacob­be era lontano tre giornate di marcia. A tappe forzate riesce a raggiungerlo al di là del fiume (cioè l’Eufrate v. 21), sui monti di Galaad, in Transgiordania, e si accampa di fronte a lui, quasi come per uno scontro in campo aperto. In realtà, Laba­no vuole solo recriminare su questa partenza che lo ha privato di una fonte di guadagno, ma denuncia anche la scorrettezza di Giacobbe: se n’è andato all’improvviso, impedendogli di abbrac­ciare figlie e nipotini, di festeggiare quella partenza con una solenne cerimonia, di restare in armonia. Gli ha strappato le figlie portandole via quasi fossero prede di guerra. Tuttavia Labano non vuole infierire, anche perché una rivela­zione divina l’ha spinto a essere generoso con Giacobbe. Ciò che però, egli non può tollerare è il furto degli “dei” familiari. Giacobbe lascia perquisire la carovana, ma quando Labano si avvicina alla colpevole, Rachele, essa ricorre a un’astuzia: nasconde le statuette sotto la sella del cammello e si siede sopra, fingendosi sofferente a causa delle mestruazioni. La manovra di Labano è così fallita.  Dopo l’appassionante autodifesa di Giacobbe, Labano ribadisce la rivendicazione del suo possesso sulle figlie, nipoti, greggi, e tuttavia si accorge anche di non poter prevalere e ricorre a un patto:  Tutto è concluso con un giuramento nel nome del Dio di Abramo e del Dio di Nacor, cioè delle due tribù, con un sacrificio su un monte santo e con un banchetto finale. Ora si erge davanti a Giacobbe un futuro oscuro, non privo di incubi. L’incubo è rappresentato dal fratello Esaù, con cui Giacobbe cerca di avere un contatto tramite una delegazione di messagge­ri a cui affida un testo molto semplice e rispettoso, modellato secondo un linguaggio delle ambascerie ufficiali (vv. 5-6). Ma l’esito sembra essere, a prima vista, infausto: Esaù lascia il suo territorio di Edom e marcia con un piccolo esercito di 400 uomini alla volta di Giacobbe: costui non ha altra risorsa che ricorrere a una strategia di difesa, dividendo in due fra­zioni il suo clan, così da poterne salvare almeno una porzione. Ma soprattutto Giacobbe ricorre alla preghiera. Confortato da questa orazione, tenta di sondare ulteriormente le intenzioni del fratello Esaù, dopo la prima gelida reazione. Invia, allora, una nuova ambasceria con ricchi doni, organizzata in tre diver­si scaglioni di persone. La speranza è quella di riuscire a placare il fratello, forse ancora sdegnato per l’inganno della sua primogenitura.
In questa atmosfera carica di tensione. Il narratore vuole anche sottolineare le paure e le difficoltà dello stesso Giacobbe. Al nome è data una interpretazione amplificata (“e con gli uomini”) per indicare che le lotte di Giacobbe (ed implicitamen­te del popolo ebraico) si concluderanno in vittorie; Alla fine sorge l’aurora: essa è l’alba di una nuova era; si apre una nuova fase della storia della salvezza, incentrata su un uomo nuovo: colui che ha lottato con Dio ed è stato benedet­to ed eletto per una grandiosa missione. Uscito da quella straordinaria esperienza, Giacobbe si trova di fronte al fratello e ai suoi 400 uomini. Fa avanzare le donne e i bambini e, alla fine, si presenta lui, in atto di totale sot­tomissione, prostrandosi sette volte fino a terra. Ma ecco la sor­presa: Esaù si precipita incontro al fratello, lo abbraccia e lo bacia tra le lacrime. La tensione è sciolta, l’incubo è svanito: è una scena inattesa, però a lieto fine. L’incontro tra Esaù e Giacobbe si svolge tra una serie conti­nua di gentilezze e si conclude (dopo che Giacobbe avrebbe voluto offrire i donativi preparati: segno della potenza da lui raggiunta con la benedizione divina), con la proposta di Esaù, di marcia­re insieme, ricomponendo quasi un unico clan familiare. Affiora ancora una volta l’indiscutibile astuzia di Giacobbe che abil­mente ricusa l’invito un po’ sospetto, adducendo una scusa fon­data e non offensiva: la sua carovana composta di donne e bambi­ni, animali, è in marcia da molto tempo ed è bisognosa di proce­dere in modo lento. Respinta con diplomazia anche l’offerta di una scorta, avan­zata da Esaù, i due fratelli si separano, fissando un appunta­mento a Seie, il deserto meridionale ove risiedeva Esaù-Edom. Ora il racconto della Genesi seguirà il filo delle vicende di Giacobbe e dei suoi figli, in particolare di Giuseppe. Il capi­tolo inizia con la menzione del trasferimento, quasi in pelle­grinaggio a Betel, il luogo dove il Signore era apparso a Gia­cobbe che stava fuggendo dal fratello Esaù (cap. 28). Ma per accedere a quel luogo santo era necessario purificarsi. Ecco, allora, l’invito rivolto dal patriarca ai membri del suo clan perché compiano un bagno rituale, si vestano con abiti da ceri­monia e soprattutto rinuncino agli amuleti e agli idoli che si erano portati .Il rifiuto e l’abbandono di questi oggetti indicavano il riconoscimento dell’unico Dio. Seppelliti sotto una quercia a Sichem questi residuati paga­ni, essi s’incamminano verso Betel, dove Giacobbe erige un alta­re dedicandolo al Dio di Betel (El-Betel) che l’aveva protetto nella sua vita di esule. Si esalta, così, l’importanza di uno dei grandi santuari d’Israele, nei cui pressi si levava la “Quercia del pianto”, in memoria della tomba della nutrice di Rebecca.Dio appare in una visione al Patriarca, lo benedice, gli con­ferma il mutamento del nome da Giacobbe in Israele (cap. 32), gli rinnova la promessa di una grande discendenza e del possesso della terra. La carovana, compiuto il pellegrinaggio, si rimette in mar­cia. Mentre si trova a “Efrata”, Rachele è colta dalle doglie di un parto difficile e drammatico. Dal suo grembo esce un bam­bino, l’unico dei figli di Giacobbe nato nella terra promessa. Rachele muore subito dopo il parto. Rachele dunque muore, ed è sepolta a Efrata; una stele è pos­ta sulla sua tomba. Ancor oggi all’ingresso di Betlemme si erge un piccolo mausoleo dedicato a Rachele, e la sua tomba è meta di pellegrinaggio di molti ebrei. Continua anche il viaggio della famiglia di Giacobbe che ora raggiunge, a Mamre-Ebron, il vecchio padre Isacco.Ed è con la morte di Isacco che si chiude il nostro capitolo. A Sichem, si apre una questione piuttosto spinosa : Sichem, l’omonimo principe ereditario della città, figlio di Camor dopo aver violentato Dina, figlia di Lia e di Gia­cobbe, se ne innamora. Cerca allora di stabilire un’alleanza ma­trimoniale con i fratelli della ragazza, per poter riparare al “disonore” inferto a Dina e alla sua famiglia. La legislazione in Israele, prevedeva, nel caso in cui la ra­gazza vergine fosse sedotta o violentata da un uomo, che egli po­tesse prenderla in sposa versando il consueto “prezzo” nuziale. Nel caso però in cui il padre della ragazza rifiutasse la richie­sta, l’uomo era tenuto a versare una somma pari al prezzo nuzia­le, come risarcimento per il danno arrecato alla ragazza e alla famiglia (Esodo 22, 15-16).  Il padre del giovane è pronto ad offrire, oltre a una ricca dote per la ragazza (il “mohar”), anche un donativo di riparazione. I fratelli di Dina fingono di accettare questa proposta così van­taggiosa; in realtà essi stanno macchinando una tremenda vendet­ta nei confronti di chi aveva disonorato la loro sorella. Alla radice della decisione sta il fatto che Sichem “aveva commesso un’infamia a Israele” e una cosa del genere “non doveva fare” perché immorale. I fratelli di Dina accettano di concedere in matrimonio la sorella a una condizione: quella della circoncisione di ogni maschio di Sichem . Farsi circoncidere signi­ficava quindi convertirsi ed entrare a far parte del popolo elet­to. Al terzo giorno, dopo la circoncisione, quando do­lori e febbre sono più intensi e rendono inabili i maschi a qual­siasi reazione, i due fratelli uterini di Dina, Simeone e Levi (figli di Lia, la prima moglie di Giacobbe), piombano in città e compiono non solo una vendetta, ma un vero e proprio bagno di sangue, accompagnato da una razzia e dal saccheggio: greggi, be­ni, proprietà, bambini e donne vengono rapinati. Giacobbe comprende l’eccesso dei due figli e le conseguenti difficoltà per la sua famiglia; egli teme, infatti, la reazione degli altri paesi indigeni della terra promessa: i Cananei e i Perizziti. Da questa storia verra’ proibito per gli Ebrei i matrimoni misti, così da impedire anche l’inquinamento religio­so dei popolo eletto; “Tu non ti imparenterai con le altre gen­ti, non darai tua figlia a un loro figlio, ne prenderai una loro figlia per tuo figlio” (Deut. 7,3). Sulla montagna di Seir si stabili Esaù, quando si divise da Giacobbe. La discendenza di esau si divide in
1.       Edomiti o Idumei, è motivato dal fatto che essi sono imparenta­ti con gli Israeliti. Il loro capostipite è infatti, Esaù-Edom, fratello di Giacobbe-Israele. Nonostante i due popoli si siano spesso affrontati in guerra, il libro dei Deut. 23,8 riteneva questo legame familiare (cioè di clan) molto forte: “Non avrai in abominio l’Idumeo, perché è tuo fratello”.
2.        Gli Hurriti (da “hor” = “grotta”, sarebbero gli “abitanti delle grotte”, del territorio di Seir, prima che lo conquistasse il clan di Esaù-Edom. Secondo una tradizione presente nel Libro del Deut. 2,22  “... i figli di Esaù, che abitano in Seir, sterminarono gli Hurriti, davanti a loro”, più probabilmente, però, si trattò di una fusione tra le due razze.
3.       I Tematiti (termine ebraico: “Teman” indica il “Sud”) abitavano anch’essi nel territorio di Edom.
 Giacobbe chiede l’intervento di Giuseppe, il figlio prediletto di Giacobbe e Rachele e vediamo ora che Giuseppe sta cercando i fratelli su incarico del padre, Gia­cobbe, e li incrocia a “Dotan” a dodici miglia da Sichem, il luogo della strage compiuta dai figli di Giacobbe per la violen­za fatta alla loro sorella (cap. 34). Ora Giuseppe è davanti ai suoi fratelli, con la sua “tunica dalle maniche lunghe” (in ebraico “Ketonet”), regalatagli dal padre; essa era simbolo di distinzione e di grande dignità. Era un abito che scendeva fino ai piedi e contraddistingueva i prin­cipi e le principesse (2Sam. 13, 18-19). Gli altri fratelli di Giuseppe, dediti alla cura del gregge e alle attività spicciole di ogni giorno, indossavano una tunica corta e senza maniche.                  I fratelli di Giuseppe, negandogli il saluto, (in Oriente aveva una grande importanza; esso comprendeva gesti  come alzarsi in piedi, scendere da cavallo, baciarsi, prostrarsi, abbracciar­si;  e parole  soprattutto col termine “shalom”= “pace” ; negare il saluto, come fanno i fratelli di Giuseppe, significava la rottura di ogni rapporto) lo afferrano e lo gettano, secondo il consiglio di Ruben, in una cisterna vuota. Le cisterne erano destinate a raccogliere l’acqua piovana e venivano scavate in ogni terreno, anche nel deserto. Nel periodo estivo esse erano di solito asciutte e potevano prestarsi ad altri usi. Entra pero’  in scena Giuda, figlio di Lia (29,35) che ripro­pone il salvataggio del fratello, così come aveva fatto Ruben. Giuda suggerisce la vendita del fratello come schiavo a quei mer­canti. A prendere le difese di Giuseppe sono Ruben e Giuda, suoi fratelli.  Ruben è il primogenito ed è in questa veste che interviene. Le due stesse tradizioni si intrecciano nel presentare la differente identità dei mercanti ai quali viene venduto Giuseppe.L’autore biblico descrive il dolore di Giacobbe alla finta morte di Giuseppe con i tradizionali riti orientali del lutto: stracciarsi le vesti, legarsi il cilicio ai fianchi, lamentarsi e gridare.L’obiettivo ora si sposta da Giuseppe che è venduto come schiavo a un alto funzionario egiziano, l’ ”eunuco” del Faraone Potifar, a una vicenda particolare che riguarda Giuda, uno dei figli di Giacobbe. Col termine “eunuco” si indicava un uomo sessualmente impo­tente, che, perciò, veniva incaricato di custodire l’abitazio­ne delle donne nel palazzo reale (harem). Nel linguaggio bibli­co assume anche il significato di “maggiordomo” o uomo di fidu­cia, al quale venivano affidati alti incarichi (2 Re 25,19). Riferito a Potifar, di cui sappiamo che era sposato, il termine probabilmente va inteso in questo secondo senso. Questo intermezzo, nella storia di Giuseppe, ha alla base la giustificazione di un’usanza legale, codificata dalla Bibbia (Deut. 25,5), ed è chiamata dagli studiosi “levirato” (dal latino “levir” - “cognato”). Vediamo di che cosa si tratta: se un uomo moriva senza lasciare figli, i suoi fratelli o i parenti prossimi dovevano sposare la vedova per assicurare al fratello defunto la discendenza: segno di immortalità nel tempo e di continuità della stirpe.
La sopravvivenza del proprio nome nella discendenza era molto importante nella mentalità dell’an­tico Oriente. Questa era l’unica condizione che permetteva di superare la limitatezza della vita, segnata dalla morte. Il destino del singolo era quello di scendere nello “sheòl”, luogo delle ombre, ma il suo nome poteva rimanere sulla terra e conti­nuare a vivere nei discendenti. Oltre a una forte solidarietà “orizzontale” tra i membri della stessa famiglia o clan, esiste­va, infatti, una profonda solidarietà “verticale” fra antenati e discendenti, tanto che le azioni dei padri e degli avi aveva­no effetto, a seconda dei casi, sull’esistenza dei figli e dei discendenti (Esodo 34,7).
Il figlio nato da questa unione (cioè dalla vedova con un fratello o un parente del defunto) era ufficialmente considera­to stirpe del defunto. Ora Giuda trovò moglie al suo primogenito “Er”, la donna si chiamava “Tamar”, ma “Er”, morì, e l‘altro figlio di Giuda, “Onan”, non ne vuole sapere di adempiere al dovere del levirato, ben sapendo che l’eventuale figlio non sarebbe stato suo. Per questo motivo Onan evita sistematicamente di mettere incinta la cognata Tamar, disperdendo il suo seme fuori dal grembo della donna. E’ da lui, com’è noto, che è originato il termine “onanismo” inteso genericamente anche come “masturbazione”. In realtà, come si diceva, si tratta di un costume ben più preciso, quello a cui fa riferimento il nostro racconto (cioè il levirato). Tamar decide, allora, di far rispettare questa legge, che do­veva onorare la memoria di suo marito, attraverso uno strano stratagemma: essa si traveste da prostituta e, in una località ove si era recato Giuda per impegni di lavoro, lo adesca1, cos­tringendolo, almeno lui, ad avere un rapporto con lei (se il figlio Onan si rifiuta, sarà Giuda, il padre, a dare una discendenza a Er, marito di Tamar). Il racconto non si preoccupa di far notare l’immoralità del mezzo adottato. Tutta l’attenzione, infat­ti, è concentrata sul diritto del “levirato”, una legge che Tamar vuole far osservare. Tamar, per essersi fatta valere nell’assicurarsi i suoi di­ritti di vedova, viene ammirata nel mondo biblico, come esempio di risolutezza e di accortezza (Rut 4,12). Insieme con Raab, Rut e Betsabea (la moglie di Una), anche Tamar diventa uno de­gli anelli determinanti nella genealogia di Gesù (Mt. 1,3). La presenza di queste donne, dalla storia matrimoniale così discutibile, nella linea genealogica, che conduce al Messia, viene interpretata alla luce delle scelte libere e gratuite di Dio, che guida la storia, non soggetto a condizionamenti umani. Torniamo al racconto: Tamar con abilità si fa consegnare da Giuda, in attesa dell’invio del capretto, (per pagare il suo “debito”) il sigillo (che conteneva inciso il proprio nome; era a forma di anello o cilindro forato e si portava al collo), il cordone (che regge al collo il sigillo), e il bastone (con incisi i simboli della tribù); tutto questo equivaleva alla nostra carta d’identità.Quando Giuda cerca di riavere questi pegni, per pagare la sua “prestazione” col capretto, scopre con sorpresa che quella donna si è quasi volatilizzata, anche i residenti non ricordano di aver mai visto una prostituta in quella strada, e Giuda si rassegna alla perdita di quei documenti. Ecco, però, che nella famiglia si sparge una voce: Tamar è incinta e non di un membro del clan della sua famiglia! Si è quindi prostituita ad altri e merita la condanna a morte per adulterio, cioè il rogo alla porta della città. Ma a questo punto la donna, in modo astuto, porta a compimento il suo piano: il sigillo col suo cordone e il bastone sono la prova schiaccian­te. E Giuda riconosce che quella donna era più giusta di lui, perché egli non si era preoccupato di concederle un membro della famiglia che adempisse al dovere del “levirato”.Giunge, allora, per Tamar il momento del parto: sono due ge­melli. E’ curioso notare il modo con cui si cerca da parte del­la levatrice di determinare quale sia il primogenito, per i ben noti diritti ereditari (si ricordi la nascita di Esaù e Giacobbe). Si ricorre, dunque, a un filo scarlatto come contrassegno che viene legato attorno alla mano di colui che verrà chiamato: “Zerach” (cioè “filo scarlatto”, legato alla sua mano prima di uscire). In realtà a uscire per primo dal grembo di Tamar sarà “Esrnz” (che in ebraico significa: “breccia”, il cui nome rimanda alla spiegazione dell’ostetrica: “come ti sei aperto una breccia?”) . Perez è il capostipite dei Perizziti, ed è tra gli antenati di “Booz”, che è all’origine del casato di Davide. Ancora una volta i nomi di personaggi che daranno origine a clan ebraici vengono spiegati in modo libero e popolare. Nascono, così, due figli al defunto “Er”, marito di Tamar, e la legge del levirato ha raggiunto il suo scopo.  Alla figura di Tamar, donna ribelle all’ingiustizia, si accosta ora quella di un’altra donna da condannare perché pronta a com­piere un’ingiustizia: è la moglie di Potifar, che incarna, nel nostro racconto, il simbolo della donna straniera seduttrice, spesso condannata dalla sapienza biblica, perché fa deviare l’ebreo dalla sua fede e dalla sua morale. Ora la moglie di Potifar tenta di conquistare quel giovane ebreo, che suo marito ha nominato sovrintendente del suo palazzo.Questo passo biblico rivela qualche collegamento con un’ope­ra egiziana, dal titolo: “Il racconto dei fratelli” una specie di novella composta tra il 1500 e il 1000 a.C. “Due fratelli vi­vevano insieme. Il maggiore, aveva una casa e una moglie; mentre il minore lo serviva nei campi. Un giorno il minore entrò in casa per prendere delle sementi e la moglie di suo fratello lo invitò a unirsi a lei. Egli respinse con forza i suoi tentativi, per­ché voleva mantenersi fedele al fratello, perché era come un padre per lui,. A sera il fratello maggiore tornò a casa e tro­vò la moglie piena di ferite, che si era inferta da sola; essa mosse una falsa accusa contro il fratello minore”.E’ possibile, quindi, che i due racconti (questo della Gene­si e quello egiziano), si siano influenzati a vicenda. Così, Giuseppe, calunniato presso il suo padrone, è gettato in carcere (nel mondo antico la prigione non era concepita co­me nel nostro tempo: si teneva qualcuno in carcere in attesa del processo che avrebbe appurato i fatti, o in attesa dell’esecu­zione della sentenza capitale a processo avvenuto; non esisteva­no edifici destinati a carcere, ma venivano adibiti a celle di detenzione alcuni locali dei palazzi reali o di altri edifici). Ma ecco apparire un altro elemento costante nella nostra narra­zione: quello della provvidenza divina che non dimentica il gius­to oppresso.
In carcere Giuseppe è oggetto di benevolenza, il direttore del carcere gli affida, infatti, il controllo dei detenuti. Un gior­no entrano in cella due alti funzionari: il capo-coppiere (che era incaricato di vigilare su quanto veniva portato sulla tavo­la del sovrano, per prevenire ogni tentativo di avvelenamento), e il capo-panettiere (che era incaricato di preparare per la mensa del sovrano i cibi fatti con pasta: pane, focacce, torte), che erano a servizio del Faraone, in attesa, però, di giudizio per un delitto non specificato: “offesero il loro padrone, il re d’Egitto”. Questi due alti funzionari fanno un sogno nella stessa notte e Giuseppe riesce a interpretarli perfetta­mente, così anche il sogno del Faraone viene spiegato da Giuseppe (le sette vacche e le sette spighe), che, però, rimanda direttamente a Dio la sua interpretazione. Il nome egiziano “Farao­ne”, significa “casa grande”. Questo titolo veniva dato a ogni sovrano d’Egitto ed esprimeva bene il suo potere politico ed economico. A lui erano attribuiti i caratteri della divinità, il diritto di vita e di morte sui sudditi. Nel faraone era sim­boleggiata la forza del Sole e delle piene del Nilo, la forza delle armi e dei guerrieri e delle braccia dei contadini. La sua morte era un grande lutto per l’Egitto). Contrariamente alla mentalità egiziana e babilonese, che attribuiva al Re, pre­rogative divine e ai sacerdoti capacità divinatorie, ritenendo­li destinatari dei misteri della scienza e della natura; la Bib­bia proclama che a Dio solo competono queste caratteristiche. Il sapiente, secondo la Bibbia, è colui che si sottomette a Dio e valuta ogni cosa alla luce della fede. I sapienti nell’antico Oriente erano dei veri e propri “tecnici” o “intellettuali”, preparati in apposite “scuole di sapienza” La sapienza di Giu­seppe, invece, non è frutto di scuola, non è una predisposizione intellettuale è, al contrario, un dono divino maturato attra­verso le amare esperienze di vita. E’ questa la vera sapienza. Il testo biblico è di facile lettura e spiegazione Così Giuseppe viene nominato viceré d’Egitto (nella civiltà egiziana gli anni si computavano con il succedersi delle dinas­tie. Dalla XVIII dinastia compaiono due “visir” che affianca­vano il Faraone nell’organizzazione del regno: uno per l’Egitto inferiore e uno per l’Egitto superiore. Questo vasto paese, in­fatti, era composto da due grandi regioni, che verso il 2850 a.C. vennero unificate). L’autore biblico dimostra una buona conoscenza del mondo antico egiziano, si preoccupa di definire tutti gli aspetti di questo solenne insediamento: c’è la formula di investitura (Gen. 41,41), segue la consegna dell’anello (o sigillo, per l’autenticazione dei decreti e le disposizioni del Faraone (Ester 3, 12; 8,8); l’anello era anche segno di po­tere e di autorità; si offrono gli abiti da cerimonia di lino finissimo, che distingueva i “visir”(ministri del faraone), questo lino in greco si chiamerà poi “bisso”; si impone, quindi, la collana d’oro (alla quale era infilato il sigillo o anello, essa era pure distintivo dell’alta carica di cui Giuseppe era investito ; v. 42). Si esce poi per la parata: Giuseppe è sul cocchio che segue immediatamente quello del faraone, mentre gli araldi gridano un termine: “Abrek” (“Inchinatevi”), che invita alla venerazione e all’omaggio durante il passaggio del corteo di un uomo così importante. Presentato davanti a tutti, con una nuova formula di investitura (Gen. 41,41), Giuseppe entra nella nobiltà egiziana, con un nuovo nome egiziano “Zafnat-Paneach” (“Dio parla: che egli viva”), e con un matrimonio principesco; sua moglie sarà “Asenat” (“colei che appartiene a “Neit” = la dea della regina del cielo), la figlia del sommo sacerdote del dio Sole, del tempio di “On” (grande città consacrata al popolare dio egiziano “Ra”), cioè la successiva “Eliopoli”, ora alla periferia del Cairo. Da quel matrimonio alla coppia nasceranno due figli. Il primogenito sarà chiamato “Manasse”, (un nome che ricordi il passato di ebreo ma anche un nome che faccia “dimenticare” il passato amaro), così, infatti è spiegato dalla Bibbia. Il secondo è “Efraim”, ed è in se una memoria delle promesse divine che sempre si attuano, nonos­tante le prove (“Dio mi ha reso fecondo”).Dopo una lunga parentesi, rientrano in scena i fratelli di Giuseppe; la morsa della fame li convince a partire per l’Egitto per sopravvivere. Partono solo in dieci, perché il vecchio Giacobbe non vuole esporre a pericoli l’altro figlio prediletto, Beniamino, nato da Rachele, morta proprio durante il parto (Gen. 35, 16-20). Giuseppe ha davanti a sè i suoi fratelli prostrati e li rico­nosce, e il suo pensiero corre ai sogni della sua giovinezza (quello dei covoni e delle stelle). Giuseppe, allora, inizia un serrato interrogatorio dei fratelli, accusandoli di spionaggio. Giuseppe, dopo aver messo alla prova i fratelli e aver constatato il loro pentimento, manda a chiamare Beniamino rimasto col padre, ma Giacobbe oppone delle resistenze per lasciare andare Beniamino che ricordiamo essere  nato dal parto che fece morire  Rachele. Giacobbe si decide pero’ a far partire Beniamino con i fratelli verso l’Egitto. Questa narrazione ha lo scopo di colle­gare in modo sempre più consistente la presenza dei “figli d’Israe­le” in Egitto con la loro successiva oppressione e liberazione descritta nell ‘Esodo. Giuseppe alla vista di Beniamino, si commuove e piange, offre poi a tutti i fratelli un pranzo succulento, consumato secondo l’etichetta egiziana: gli Egiziani non potevano essere commensa­li con gli Ebrei, perché evitavano ogni contatto con gli stra­nieri e non si servivano dei loro utensili; a questo si aggiun­ge il fatto che Giuseppe non mangia con loro perché è ancora il viceré egiziano e non il loro fratello.
Dopo il pranzo, vengono riempiti i sacchi di viveri; ma nel sacco di Beniamino, Giuseppe, insieme con denaro del pagamento del grano, aveva fatto scivolare la sua coppa d’argento. La “coppa” è simbolo di abbondanza e di immortalità. Il furto della coppa, con­siderato oggetto sacro, era punito con la morte. Giuseppe intanto si fa riconoscere dai fratelli e nelle sue parole rivolte ai fratelli, l’autore biblico rivela, il progetto di Dio sul suo popolo e la sua provvidenza amorosa: Dio ha trat­to il bene dal male: “Dio mi ha mandato avanti a voi, per assi­curare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente (Gen. 45,7)”. Nell’originale ebraico la paro­la “sopravvivenza”, è resa con un termine che indica il “resto”.  Il “resto” è il segno della continua presenza di Dio nella storia, del suo progetto di salvezza che si attua nonostante le contraddizioni e le difficoltà delle vicende umane. All’orizzon­te della vicenda di Giuseppe, l’autore sacro vede già profilarsi la salvezza futura dei “figli d’Israele”, cioè del popolo ebraico, dall’oppressione del Faraone. Questo popolo non verrà mai total­mente distrutto, ma vi sarà sempre un “resto” che sopravvivrà, come segno della fedeltà di Dio alle promesse fatte a Israele. Così Giuseppe concede ai fratelli, dopo che sono andati a prelevare anche Giacobbe, di abitare nella terra di “Gosen”, che è il nome della regione egiziana, dove si stabiliscono gli Israe­liti venuti in Egitto: è situata nel delta del Nilo ed è particolarmente fertile e adatta al pascolo. Adesso è la volta di far riunire giacobbe con i suoi figli e con  Giuseppe ritrovato Giacobbe, in una visione, viene assicurato del viaggio senza rischi in Egitto. “Non temere”: questo invito ricorre nelle parole che Dio rivolge ai Patriarchi. Dio rinnova le sue promesse di protezione e di benedizione; “Non temere”, è un invito a confidare nella vici­nanza del Signore, nonostante i pericoli e le difficoltà che si presentano. Nel nostro contesto (v.3) ci si riferisce ai peri­coli del viaggio e dell’andare a stabilirsi in terra straniera. In questa visione ritornano le parole della promessa “Ti farò risalire”, si applica concretamente a lui, la cui salma ritornerà nella terra dei padri, ma in questa espressione si può anche intravedere anticipatamente il destino d’Israele schiavo d’Egitto e liberato dal Signore. Nei racconti biblici è frequente il caso in cui Dio appare a un personaggio di notte, durante il sonno E’ questo un modo per indicare che la rivelazione divina avviene in una dimensione e con modalità a volte misteriose e superiori all’ordinaria com­prensione che noi abbiamo dell’esistenza umana. A questo punto l’autore biblico disegna la mappa dell’itine­rario di Giacobbe in Egitto, con tappe e dati significativi.  La prima tappa è Bersabea, cara alla memoria di suo nonno Abra­mo  e di suo padre Isacco . Dopo Bersabea, la carovana si mette di nuovo in marcia Finalmente la carovana giunge in Egitto ove il  Faraone aggiunge la possibilità per i fratelli di Giuseppe, di una particolare carriera nella buro­crazia egiziana, soprattutto per i più capaci: “Costituiscili sopra i miei averi come capi del gregge” Cv. 6) La storia di Giuseppe ha raggiunto il suo scopo primario; Gia­cobbe “benedice il Faraone”: questo gesto richiama la promessa di Dio ad Abramo: “In te saranno benedette tutte le tribù della terra”. I Patriarchi, e poi il popolo d’Israele, sono il segno della presenza di Dio in mezzo a tutti gli uomini.Dopo l’udienza, i fratelli di Giuseppe, si stabiliscono, se­condo l’autorizzazione del Faraone, nel fertile “territorio di Ramses”.  In questa legislazione, solo i Sacerdoti avevano dei privi­legi e rendite autonome, - questa particolare condizione era collegata alla loro funzione nel culto - dato che dovevano pro­piziare la benevolenza della divinità, necessaria per la pros­perità del paese, secondo le credenze del tempo. Normalmente i Sacerdoti avevano il diritto ad una parte del raccolto ogni anno e a prelevare per sè parte delle offerte che venivano por­tate al tempio. Potevano avere anche la proprietà della terra intorno al santuario. L’attenzione ora si sposta sulla figura di Giacobbe, la cui vita si sta spegnendo. Al momento dell’arrivo in Egit­to egli aveva confessato di avere 130 anni , Giacobbe, sotto giuramento affida a suo figlio Giuseppe le sue ultime volontà e il suo desiderio di ritornare, alla sua morte, nella terra dei suoi padri.  Come aveva, quindi, fatto Abramo col suo servo (Gen. 24,2), così Giacobbe chiede a Giuseppe di giurare mettendo la mano sotto la coscia, cioè sugli organi genitali, radice santa della vita, dono divino. Nella tradizione ebraica successiva il gesto è stato invece interpretato in riferimento alla circoncisione. Mettere le mani vicino al membro circonciso significava impegnar­si sul segno che sigilla l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Chi giura è legato dal giuramento così come il circonciso si è impegnato ad osservare l’alleanza del Signore. Giuseppe riceve la notizia improvvisa della malattia di suo padre. Egli, allora, accorre con i suoi figli. Giacobbe desidera adottare i due figli di Giuseppe, Efraim e Manasse, come figli propri, allo stesso modo di Ruben e Simeone. Giacobbe adottando i due figli di Giuseppe, li equiparava ai suoi figli e quindi ai capostipiti delle tribù d’Israele.  Giacobbe, allora, vede i due figli di Giuseppe e desidera adottarli come suoi figli. Il rituale dell’adozione comprende una serie di gesti: il bacio, l’abbraccio, il porre l’adottato in grembo “tra le due ginocchia”, (quasi ad affermare che essi sono nati dall’adottante; può anche essere un riferimento alla prassi dell’adozione: prendere dei fanciulli sulle proprie gi­nocchia indicava che si consideravano come figli propri. Ma c’è anche un riferimento alla benedizione, poiché in ebraico “ginocchio” si dice “berek” e benedizione  “berakah”. Il riferimento al ginocchio poteva rimandare agli organi genitali. Infatti la benedizione era anzitutto un augurio di fecondità sia per la persona (Gen. 1,28), sia per la terra (Gen. 27,28). Infine l’imposizione delle mani, la benedizione. Gli ultimi due atti sono fondamentali ed è in essi che si verifica un dato sconcertante ma significativo. Sappiamo già che la “mano destra” per la Bibbia è simbolo della fortuna e del successo, è segno della potenza di Dio che interviene in favore dell’uomo creando (Isaia 48,13) o liberando il suo popolo (Esodo 15,6). Si ricor­di anche il valore del nome : “Beniamino” = “figlio della destra”. La “mano sinistra”, invece, è usata per tradire e ingannare (2 Sam 20, 9-10).
Pertanto, Giacobbe, impone la mano destra sul capo di Efraim (il figlio più giovane di Giuseppe) e la sinistra su Manasse (il primogenito). Giuseppe fa notare l’errore del padre che ripete il gesto, incrociando le braccia, ora che i due ragazzi hanno cambiato posizione, quindi favorendo sempre Efraim.
Questa inversione dei ruoli nella benedizione ha un signifi­cato di tipo storico e di tipo spirituale.
Si vuole innanzitutto giustificare la preminenza storica che la tribù di Efraim avrà su quella di Manasse: non si deve di­menticare che Efraim sarà capo delle dieci tribù che costituiranno il regno settentrionale di Israele. Ma il gesto ha un va­lore ulteriore: quello di riaffermare le scelte divine, che non seguono le strade dell’eredità, ma quelle misteriose della gra­zia. Le benedizioni citate sono di taglio generale e riguardano entrambi i figli; la prima (vv. 15-16) è molto solenne e ricalca formule liturgiche in uso al tempo ( la presenza di Dio nel cammino dell’uomo), la seconda ( presente nel v. 20) si augura che i figli di Giuseppe divengano un segno di benedizione per tutti i popoli. Compiuto il gesto dell’adozione e della benedizione, Giacobbe formula il suo testamento che comprende due clausole: la prima ci è già nota ed è un annuncio del futuro ritorno di tutto Israe­le alla terra promessa; la seconda riguarda un lascito specifico per Giuseppe, un appezzamento di terreno su un dosso di monte, da lui strappato in battaglia agli Amorrei
 Giuseppe chie­de e ottiene il permesso di trasferire la salma di Giacobbe nel­la terra di Canaan. Lo stesso lutto in Israele durava sette giorni. Questo rientro del corpo di Giacobbe nella terra promessa è, in un certo senso, il preannunzio di quell’itinerario futuro che anche il popolo ebraico seguirà ritornando nella terra promessa, cioè dei loro padri, dopo l’oscura e lunga parentesi della schiavi­tù egiziana. Dalle parole di perdono di Giuseppe ai suoi fratelli emer­ge, ancora una volta, la figura esemplare del “sapiente”, ma an­che l’intervento provvidenziale di Dio (v.20), che riesce a sempre a trarre il bene anche dal male. Queste parole fanno da sigillo all’intera vicenda della Genesi, e non solo della sto­ria di Giuseppe. Giuseppe muore a 110 armi ed è sepolto in Egitto. Come Gia­cobbe, anche Giuseppe richiede che la sua sepoltura definitiva sia nella terra di Canaan. Così Mosè, partendo dall’Egitto, prenderà con sè le ossa di Giuseppe (Esodo 13,19); dopo la con­quista della terra promessa, le ossa saranno deposte in una tom­ba a Sichem (Giosuè 24,32).Ormai la vicenda amara e gloriosa dell’Esodo è alle porte ed è preannunziata da Giuseppe nell’ultimo versetto della Gene­si che, per ben due volte, annunzia ai fratelli la “visita del Signore”, dall’ebraico “paqad”, che indica l’intervento del Signo­re Dio in favore del suo Popolo, per liberarlo da una situazio­ne di oppressione e difficoltà. In conclusione , questa “visita del Signore” è sorgente di speranza e di salvezza.
  A cura di Don antonio  schena


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