la promessa divina della discendenza si
adempie. Sara è “visitata” dal Signore della vita, che dona a lei sterile
e a suo marito vecchio, un figlio: Isacco : indica il riso, l’allegria, la danza.Al
ridere incredulo di Sara e di Abramo si
sostituisce ora il “riso di Jahwè”, cioè Isacco, espressione del
“sorriso” del Signore che ha mantenuto e attuato la sua promessa. La
scena si popola allora di grida di gioia, di risate allegre, di festa, proprio
come avveniva all’interno delle tribù e delle famiglie quando nasceva l’erede
del capotribù. Isacco cresce e giunge all’età dello svezzamento; Entra in
scena, a questo punto, Ismaele, l’altro figlio di Abramo e
Agar (la moglie- schiava) di Abramo. Sara esige l’allontanamento
di entrambi; una richiesta che addolora Abramo, ma Dio avalla
questa scelta: anche Ismaele avrà un futuro glorioso, ma l’erede
della promessa divina è solo Isacco, anche se minore rispetto all’altro.
Nel deserto Agar vaga col suo bambino, ma stando alla trama della Genesi,
dovrebbe essere un giovane di 13 anni). Disperata,
Agar, abbandona suo figlio sotto un arbusto e si allontana per non
vederlo morire di sete. Ma Dio ascolta la voce dei piccoli e dei
soffrenti ed entra in scena con tenerezza. Invita la donna a “non
temere”, e li indirizza verso un pozzo nel deserto. La tensione è
finita, il ragazzo e la madre sono salvi. Comincia ora per Agar e
Ismaele, la vita nomadica pura. Nel deserto meridionale che conduce
alla penisola del Sinai, il Paran, Ismaele cresce vigoroso e battagliero:
in mano ha l’arco col quale va a caccia e col quale si difende. Ancora una
volta in Ismaele si vede l’antenato degli uomini del deserto; il suo matrimonio
con una connazionale di sua madre, un’egiziana, mostra che egli si
inserisce in un’altra linea rispetto a quella di Israele. La prova a cui Dio sottopone Abramo alla scelta del
sacrificio del figlio dovuto all’ordine che Dio da’ ad Abramo “Prendi tuo
figlio, il tuo diletto che ami, Isacco e... offrilo in olocausto” (v. 2).
Poi scende il silenzio. Abramo, come era partito da Ur e da Carran senza
opporre obiezione, s’incammina col figlio, con due servi, con un
asino e il carico della legna per l’olocausto, cioè per il sacrificio che
nel fuoco avrebbe arso quel figlio che pure Dio gli aveva promesso e donato. La
prova a cui Dio sottopone Abramo è terribile. Egli deve scegliere tra l’amore
per l’unico figlio che ha, e il dovere dell’obbedienza a Dio che gli comanda di
immolarlo. Tuttavia la prova, come la tentazione, non è mai superiore
alle forze dell’uomo (1 Cor. 10,13: “Dio è fedele e non permetterà che
siate tentati oltre le vostre forze”). La lettera agli Ebrei 11,
7 porrà in risalto la fede di Abramo nella prova: “Per la fede
Abramo ha offerto Isacco, quando fu provato”; Il viaggio drammatico
dura tre giorni sempre accompagnato dal silenzio. Solo quando si è ai piedi del
monte “nel territorio di Mòria” Abramo e Isacco stanno salendo le pendici, quel
silenzio irreale è squarciato dal figlio che, con straziante ingenuità,
intesse un dialogo col padre, e dove Dio appare crudele e incomprensibile. I
padri della Chiesa videro in Isacco che porta la legna, il tipo di Cristo che
porta la croce. Giunti ormai al vertice del dramma, sarà un ariete a essere
sacrificato; e non sono mancati gli studiosi che hanno visto, in questa
sostituzione, la giustificazione dell’uso di sacrificare un animale invece di
un figlio, correggendo e superando così il rito originario. Allora
l’angelo del Signore rinnova la promessa ad Abramo di una discendenza immensa
come le stelle e la sabbia delle spiagge, segno fra tutti i popoli che ad
essa faranno riferimento per ottenere loro stessi benedizione. Abramo ora
ritorna verso la sua regione a Bersabea, il luogo del “pozzo delle sette
agnelle e del giuramento”. Sara muore a 127 anni . Si apre davanti al lettore il più lungo racconto della
Genesi, quello delle trattative per trovare una moglie a Isacco. Abramo vuole
che il matrimonio sia “endogamico” (cioè dello stesso
clan, o gruppo sociale), per mantenere la purezza della propria razza e della
propria tradizione, per evitare ogni contatto con i Cananei, dediti al culto
degli idoli. Si rivolge, quindi, al suo servo più fidato, forse quell’Eliezer
di Damasco a cui aveva pensato di lasciare tutto in eredità quando temeva di
morire senza figli (Gen. 15,2). Abramo costringe il servo a un giuramento
solenne: “mettere la mano sotto il femore”
(v.2), che è un modo riservato per indicare un solenne
giuramento compiuto sul sesso di Abramo, radice della vita e della fecondità,
doni fondamentali offerti da Dio. Il servo così giura su quanto vi è di più
sacro, e parte verso il paese e la parentela di Abramo, per convincere, senza
costrizioni, una donna di quella famiglia a seguirlo per diventare la sposa di
Isacco. E’ qui che il servo eleva al cielo la prima delle molte preghiere che
punteggeranno la lunga narrazione delle nozze di Isacco. Esse hanno lo scopo di
far risaltare che la donna destinata a diventare la moglie di Isacco è
anch’essa partecipe del disegno e della promessa divina. Il servo chiede al
Signore un segno che attesti la scelta divina: un segno di generosità e
di gentilezza della futura sposa. Ed ecco apparire in scena, Rebecca,
pronipote di Abramo, essendo figlia di suo fratello Nacor. Il narratore sembra
creare attorno a lei un alone di luce e un’atmosfera di silenzio: “era assai
avvenente di aspetto” e “non aveva conosciuto alcun uomo”, (il verbo
“conoscere” è usato nella Bibbia per indicare anche i rapporti sessuali). La
verginità della sposa nell’antichità era vista più come un bene familiare, che
come persona in senso pieno. Intanto il servo la contemplava in silenzio, in
attesa di vedere attuata in pienezza la sua preghiera. Rebecca ha un fratello,
Labano, che invita in casa il servo di Abramo, e interviene nelle trattative
del matrimonio (combinare il matrimonio è conforme ai costumi del tempo), della
sorella, fungendo da capofamiglia. Rebecca, quindi, offre ospitalità per la
notte al servo di Abramo. Ora costui, avendo avuto conferma della generosità e
dell’ospitalità di Rebecca, può tirare un sospiro di sollievo: ha raggiunto lo
scopo della sua missione ed offre l’anello alla futura sposa. La sua nuova
preghiera è appunto una benedizione di ringraziamento al Dio di Abramo che
guida i suoi fedeli. Egli, infatti,
svela subito la sua identità di “servo di Abramo” e dipinge l’evento clamoroso
e gioioso della nascita, allo zio di Labano e alla moglie Sara, di un figlio in
tarda età; così racconta l’intera storia della sua missione: egli è venuto nel
luogo ove risiede la famiglia d’origine di Abramo per trovare la moglie al suo
figlio Isacco, all’interno della propria tribù. Il servo descrive la gravità
del suo incarico, i rischi e il solenne giuramento a cui è vincolato. Esso si
trasformerebbe in maledizione per lui, qualora non fosse osservato
nell’impegno che comporta. Il servo di Abramo, inoltre ricostruisce in modo
pittoresco davanti ai suoi interlocutori la scena da lui appena vissuta al
pozzo, con la preghiera, l’apparizione di Rebecca, la sua generosità e la
scoperta della sua identità. La domanda
del servo di Abramo è alla fine precisa:. La loro risposta è una dichiarazione religiosa che vede negli
eventi appena accaduti un esplicito segno divino. Se “la cosa procede dal
Signore noi non possiamo opporre nessuna reazione ne in male ne in bene”.
Rebecca è, quindi, concessa ufficialmente in moglie a Isacco. Nell’ambito della
famiglia patriarcale il matrimonio nasceva attorno a una meticolosa
contrattazione, che il padre dello sposo conduceva nella casa della futura
sposa. Il contratto di matrimonio comprendeva la decisione da parte del
capofamiglia, la consegna di un prezzo o di una dote ai genitori della futura
sposa, l’offerta di regali, la richiesta della volontà di matrimonio della
ragazza. La fase della contrattazione corrispondeva al nostro fidanzamento. Ma
già in questa fase la donna era considerata “moglie”, anche se sarebbe entrata
nella casa del marito in un secondo momento, generalmente circa un anno dopo. La
donna sposata diventava “proprietà” del marito, considerato
il “ba’al” cioè “padrone”. Evidentemente non dobbiamo giudicare
secondo la nostra sensibilità, nè interrogarci sulla libertà di scelta della
donna, che allora era priva di personalità giuridica. Raggiunto lo scopo della sua missione, il
servo loda Dio, il vero artefice del successo, offre una specie di dote a
Rebecca e finalmente si inizia la grande cena. Ma il pensiero del servo è tutto
proteso verso il ritorno. L’indomani egli vorrebbe già rientrare; la famiglia
che lo ospita desidera trattenerlo, secondo la prassi dell’ospitalità, per
qualche giorno. E’ a questo punto che entra in scena Rebecca e per la prima
volta viene chiesto a lei di esprimere la sua decisione: “Partirò”, è la
sua risposta. Essa va incontro all’uomo della sua vita, che per ora non
conosce, convinta che quella scelta faccia parte di un suo disegno superiore.
Questa preghiera di benedizione (v.60), fa parte di una formula antica e
solenne, in cui si augura fiducia e certezza in un futuro glorioso, con una
grande discendenza (“migliaia di miriadi” di figli); difatti il nome Rebecca
(Ribqah) viene associato al termine “rebabah” che in ebraico significa “miriadi”.
Il termine crea così un gioco di parole “Diventa migliaia di miriadi”. Pertanto
la benedizione comprende un augurio di fecondità per la sposa, dal momento che
un matrimonio senza figli era considerato una maledizione. La storia del
matrimonio tra Isacco e Rebecca sta per giungere al suo esito finale. Il
narratore ci introduce nella terra promessa, nel deserto meridionale del
Negheb. Siamo al tramonto e Isacco sta rientrando dall’area del pozzo di
Lacai-Roi, il luogo ove era stata ambientata la storia di Agar e Ismaele (Gen.
16,14). Isacco vede da lontano una carovana di cammelli: è il corteo della sua
futura sposa. L’autore biblico evoca il gioco degli occhi: Isacco “alza gli
occhi” e vede la carovana; anche Rebecca “alza gli occhi” e vede Isacco, e
subito si copre col velo che nascondeva il volto delle donne. Isacco prende per
mano la sua sposa e la introduce nella tenda femminile, quella occupata dalla
madre defunta (Sara). D’ora innanzi sarà lei, Rebecca, la “principessa” del
clan. Scocca ormai la scintilla dell’amore ed è bellissima la sobria
annotazione finale: “Così Isacco si consolò dopo la morte di sua madre” dopo
la menzione di un secondo matrimonio del patriarca - ormai vedovo in seguito
alla morte di Sara - con Chetura il nome significa “incenso” e allude
alle popolazioni che si insedieranno nelle regioni dell’Arabia (il paese
dell’incenso). Queste popolazioni erano considerate discendenze di Abramo e,
quindi, collegate in qualche modo a Israele. Esse però non sono destinatarie
delle benedizioni di Dio, che spettavano unicamente a Isacco e alla sua
discendenza. Trasferita l’eredità a
Isacco e sistemati gli altri figli, Abramo muore a 175 anni “sazio di giorni”
(tipica espressione per indicare pienezza di vita e di bene). Nella concezione
biblica una vita corta e abbreviata è considerata una punizione, mentre una
vita lunga e “sazia di giorni”, come quella dei patriarchi, è considerata una
benedizione. Anche Rebecca, moglie di Isacco era sterile E infatti, ecco la preghiera di Isacco e il
risultato nei due gemelli che rendono la gestazione pesante: Il parto gemellare
era seguito con attenzione perché si doveva decidere la primogenitura e non
sempre era facile identificare il primo neonato venuto alla luce. I figli
crebbero, Esaù divenne cacciatore nomade La caccia era praticata con l’arco,
sebbene gli Israeliti solo eccezionalmente si cibassero di cacciagione
(troviamo in Deut. 14,5 un elenco di animali che potevano essere cacciati:
cervo, gazzella, daino, stambecco, antilope, bufalo, camoscio). Le allusioni,
nei testi biblici a reti, lacci, buche, fanno pensare anche a una caccia
mediante trappole, e Giacobbe pastore sedentario: Tra i due “gemelli”, ci sono
anche le preferenze dei genitori, quella di Isacco per Esaù e di Rebecca per Giacobbe.
Nella famiglia patriarcale il primogenito detiene una posizione di privilegio,
che lo colloca al primo posto tra gli altri fratelli, lo fa succedere al padre
come capofamiglia e gli fa ricevere una doppia parte di eredità. Nel caso di
gemelli, come Esaù e Giacobbe, ha la primogenitura chi è nato per primo. Il
primogenito può anche perdere o cedere il suo privilegio, come avviene per
Esaù, che cede la primogenitura in cambio di un pranzo. Tutto il racconto va
letto alla luce del tema biblico della “elezione” e delle scelte di Dio, che
segue una linea misteriosa nella storia della salvezza . S. Paolo vede nella
vicenda di Esaù la grande libertà di Dio, che non è legato a nessuna legge
naturale della primogenitura (Rom. 9, 11-13).
Adesso l’autore ci presenta la solenne promessa della terra e della discendenza
che Dio fa a Isacco, confermandolo perciò come erede di Abramo. Isacco teme di
essere ucciso dagli abitanti di Gerar, attirati dalla bellezza di Rebecca e
perciò la fa passare per sua sorella (come per Abramo e Sara in Egitto, così
Isacco fa passare Rebecca per “sorella”, però nel senso di “cugina”; la lingua
ebraica non conosce un termine corrispondente a “cugino”; l’ebraico “ah”
indica sia “fratello” sia “cugino”). Ma il re Abimelech scopre la verità
del rapporto che intercorre tra i due, vedendoli per caso teneramente
abbracciati nella casa che li ospitava. Segue un interrogatorio piuttosto teso
tra Isacco e il re che mostra il rischio di adulterio in cui sarebbero incorsi
i cittadini di Gerar, qualora avessero preso in moglie Rebecca, e che si
conclude con una solenne sanzione protettiva per la coppia. Vista la
benevolenza di questi stranieri, Isacco, si stabilisce nel territorio di
Gerar, nel sud della terra di Canaan. La prosperità bussa alla porta della sua
casa al punto tale da renderlo un ricco proprietario; la nostra attenzione,
però, non va alla sola prosperità del terreno e dei pascoli nella loro materialità,
ma a Dio creatore che rende feconda e abitabile la terra promessa ad Abramo e
ai suoi discendenti. Ma scatta anche l’invidia degli abitanti della città che
vedono con ostilità l’accrescersi della potenza di un estraneo. I filistei
allora ricorrono a una tecnica “terroristica” ben nota in Oriente: la
cancellazione dei pozzi, elemento vitale nella vita della steppa. Si ricordi
che anche tra Abimelech e Abramo le difficoltà erano sorte proprio per la
contesa di un pozzo (Gen. 21,25). Isacco, sollecitato da Abimelech, decide
allora di abbandonare la città di Gerar e di ritornare alla vita nomadica,
stabilendosi non lontano di là, presso il torrente che attraversava e dava il
nome a quella città filistea. Ma egli non si rassegna a rinunciare ai pozzi
ricevuti in eredità da suo padre e turati per odio degli abitanti di Gerar. I
servi di Isacco riescono a scavare un nuovo pozzo sorgivo ma si scatena la
contesa per il suo possesso coi pastori di Gerar, il patriarca lo denomina “Esech”
- “lite”. Ne scavano un secondo ed ecco ancora la contestazione degli
abitanti di Gerar: il nome sarà , allora, “Sitna” = “contesa”,
“accusa”. Subito dopo, ecco un terzo
pozzo scavato da Isacco. Finalmente i pastori di Gerar non avanzano pretese. Si
spiega così il nome “Recobat” - “spazi vasti e liberi”,
spiegazione offerta dallo stesso Isacco: “il Signore ci ha dato spazio libero”.
Subito dopo si descrive un itinerario di Isacco verso il luogo: Bersabea, ove
suo padre Abramo, aveva soggiornato e aveva stipulato un accordo col re
Abimelech. Le due narrazioni (questa e quella del cap. 21 della Genesi), sono
indipendenti. Qui Isacco ha una nuova manifestazione di Dio e in questa
apparizione il Signore gli rinnova la promessa e la benedizione nel nome del
“Dio di Abramo, tuo padre e mio servo”. Nella storia dei patriarchi viene man
mano delineandosi la figura del Dio biblico, come Dio del dono della terra, Dio
delle promesse e Dio del dono della discendenza, che le prime formulazioni di
fede, conoscono come “Dio dei padri”, “Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe”.
E Isacco risponde costruendo un altare che verrà considerato come la radice
ideale di un culto e di un santuario probabilmente ancora in funzione al tempo
in cui si narrava questa storia. Frattanto
all’orizzonte si profila di nuovo il re Abimelech, questa volta però per
trattare un accordo di convivenza; si stipula un trattato che viene siglato con
un pranzo ufficiale (qui viene descritto il patto di fratellanza tra Isacco e i
capi del luogo secondo il cosiddetto “diritto del sale” dei beduini;
presso gli antichi condividere il sale e mangiare insieme creavano un forte
legame tra i partecipanti e davano valore quasi sacro , definitivo e stabile a
ogni tipo di contrattazione, giuramento e alleanze), e con un giuramento,
ancora presso un pozzo, “Sibea”, che commemora l’evento. “Sibea” allude
sia al numero “sette”, sia a “giuramento”: si ritorna così a
spiegare il significato del nome “Bersabea” (= “giuramento). Rebecca prepara una vera e propria truffa, ai danni
del vecchio e cieco Isacco, per favorire Giacobbe. Dio passa anche attraverso
i grovigli degli intrighi umani e conduce a pienezza il suo disegno. La benedizione (vv. 27-28) fa riferimento ad
attività agricole, anche se l’ambiente entro cui si svolge la storia di Isacco
e Giacobbe è quello dei pastori. Si intuisce allora, che il contesto in cui la
storia è stata narrata e trasmessa era probabilmente degli agricoltori
sedentari, i quali hanno sovrapposto al racconto elementi propri della loro
cultura. In Israele, come presso i popoli dell’antico Oriente, la fertilità
del suolo era condizione essenziale di sopravvivenza e di benessere. Pertanto
era importante che Dio garantisse, con la sua benedizione, la prosperità del
lavoro agricolo. Nel rito di benedizione ci sono alcune norme da rispettare:
1) L’abbraccio e il bacio, che
svolgono una funzione nel rito di benedizione: il contatto fisico serve infatti
a trasmettere la vitalità e la prosperità legate alla benedizione.
2) Un
piatto da mangiare: nella mentalità antica la benedizione veniva intesa
come una trasmissione di forza vitale, che coinvolgeva la totalità della
persona. Per questo nel rito di benedizione si poteva inserire, come accade in
questo racconto un pasto che aveva la funzione di corroborare colui che avrebbe
impartito la benedizione.
3) Il
rito della benedizione : nella società antica, fondata sulla struttura
patriarcale della famiglia, la benedizione del padre era un evento molto
importante per la vita religiosa e sociale. Essa garantiva che la divinità
continuava a proteggere il clan, anche nei discendenti dei patriarchi. Tutto
ciò è evidente anche nel racconto di Gen. 27, dove emerge un vero e proprio
“rito” per la benedizione. Esso è così articolato: richiesta della benedizione,
identificazione della persona da benedire, pasto per la persona che deve
benedire, abbraccio (contatto fisico), e infine la benedizione.
4) Unicità
della benedizione. Il dialogo tra Isacco ed Esaù(Gen.27, 30-40), manifesta
una concezione antica e quasi magica della benedizione. Poiché la benedizione è
parola efficace realmente, e trasmette una forza vitale, non può essere nè
ritirata nè ripetuta. Il padre ha già trasmesso “tutto” a Giacobbe e,
quindi, non può benedire Esaù. Ciò che è stato promesso a Giacobbe nella
benedizione accadrà: egli avrà prosperità agricola e dominerà sui suoi
fratelli.
scoperto l’inganno, Esaù
scoppiò in un grido altissimo di dolore
, si crea quindi una certa tensione che si è creata nel clan di Isacco: Esaù
cova propositi omicidi nei confronti del fratello, così Rebecca fa riparare
Giacobbe nella terra della sua famiglia a Carran, ove risiede suo fratello
Labano, che l’aveva concessa in moglie a Isacco (cap. 24). A questa soluzione
Rebecca aggiunge un particolare significativo: rifugiandosi presso Labano,
Giacobbe potrà contrarre un matrimonio “endogamico”, cioè all’interno del clan
d’origine della sua famiglia, evitando quei matrimoni “misti” che Esaù aveva
consumato unendosi con donne hittite o indigene .Esaù intanto, che si era unito
a donne indigene, cerca di ingraziarsi suo padre Isacco, imitando l’abile
Giacobbe: sposerà una figlia di Ismaele, sua cugina, perché nata dallo zio
paterno Ismaele. Giacobbe si mette in viaggio e giunge a un pozzo nella steppa
vede Rachele, sua cugina, e subito ne è conquistato, tant’è vero che, con uno
sforzo sovrumano, riesce a rotolare via la pietra che copriva la bocca del
pozzo. I pastori avevano atteso tutti i greggi prima di compiere questo gesto
perché faticoso e perciò da compiere tutti insieme. Un bacio, una lacrima, il riconoscimento, la
corsa della ragazza a casa, gli abbracci e la meta raggiunta: tutto questo è
narrato con essenzialità ed è fissato nella frase che esalta la parentela tra
Giacobbe e Labano: “Davvero tu sei mio osso e mia carne” (Gen. 2, 23). Tuttavia
Labano stipula per Giacobbe un regolare contratto di matrimonio, che, come
nell’antico Oriente, prevedeva che lo sposo, o la sua famiglia, versassero una
certa somma alla famiglia della sposa. Questo perché si riteneva che la sposa
lasciasse la propria famiglia per diventare “proprietà” del marito. Tale
somma o dono è indicato in ebraico con il termine “mohar”. C’era
la possibilità di pagare il “mohar” con la prestazione di un servizio o di un
lavoro, come accade allo stesso Giacobbe. In pratica, Giacobbe, offrendo il suo
lavoro per 7 anni, prepara la “dote” per riscattarla dalla famiglia di
appartenenza, facendola, così, “sua”. Giunto il tempo del contratto definitivo,
stipulato con un banchetto, ecco il colpo di scena. Come è noto (si ricordi
Rebecca che incontra Isacco, in Gen. 24,65), la sposa veniva condotta velata
nella tenda nuziale. Labano con questo stratagemma conduce a Giacobbe l’altra
figlia, la brutta Lia “dagli occhi smorti”(v. 17). Scoperto al mattino, alla
luce del sole, l’inganno, Labano cerca di giustificare il suo comportamento,
evocando un’usanza locale, quella di sposare per prima la figlia maggiore, Lia
per l’appunto. Giacobbe è, così, ripagato della stessa moneta: come aveva
ingannato per ottenere la primogenitura, così ora è vittima di un raggiro,
operato proprio da un parente, scaltro più di lui. Perfezionato il primo
matrimonio con la tradizionale settimana di festa, Labano concede a Giacobbe
anche Rachele, secondo l’antico uso della poligamia ampiamente praticata
nell’antico Oriente, ma con una clausola ben precisa e onerosa: Giacobbe
presterà il suo servizio per altri 7 anni. Nuova settimana nuziale e il sogno
di Giacobbe si realizza. Inizia, quindi, una relazione a tre con le inevitabili
tensioni e rivalità tra Lia (”antilope”) e Rachele (”pecora madre”) che si
contendono l’amore e la predilezione del marito. L’uso di sposare due sorelle,
non rimase in Israele. L’autore biblico è preoccupato di difendere la giustizia
e vede in Lia, trascurata ma feconda, e Rachele, amata ma sterile, un segno
dell’azione divina che ne equilibria le sorti delle due donne. Da Lia nascono “Ruben” (“raah
be-oni” che significa: “ha guardato la mia afflizione”); “Simeone”
(è accostato al verbo “shama”’ - “ascoltare”, perché il Signore “ha ascoltato
che io ero trascurata”); “Levi” (dal verbo “lawah” il cui senso
primario è “aderire” ma nelle relazioni personali ha il senso di
“affezionarsi”); il nome “Giuda” (rimanda al verbo “Jadah” nel
senso di “lodare”). Il contrasto tra le
due mogli di Giacobbe: Rachele-sterile e Lia-feconda, domina la scena; Rachele
grida a Giacobbe il suo disperato desiderio: “Dammi dei figli, se no
muoio!”. E lui, di rimando, le ricorda che la vita è dono divino. Una via
d’uscita al suo dramma Rachele l’intravede nell’uso orientale di generare
attraverso la propria schiava (si ricordi Sara e Agar). Ora dalla schiava Bila
nasce “Dan” (verbo ebraico “din” = “rendere giustizia”), il primo
figlio legale di Rachele. La feconda Bila, dà un secondo figlio a Rachele,
“Neftali” (dal verbo ebraico “niftal” che significa: “lotta di Dio”;
cioè rivalità e vittoria su Lia, ricca di figli). Lia reagisce adottando la
stessa prassi e, attraverso la sua schiava Zilpa, genera “Gad”
(che in ebraico significa “fortuna”). Segue la nascita sempre dalla schiava di
Lia, “Aser” (vocabolo ebraico che significa: “proclamare beato”,
“felice”).La gara tra le due mogli non ha tregua e si colora di un elemento
pittoresco, quello delle “mandragole”, detta
anche “le mele dell’ amore”. La “mandragola” è una pianta velenosa alla quale
nell’antichità si attribuivano proprietà magiche. In particolare, prendendo
spunto dalla sua radice, che può richiamare una figura umana, si riteneva che
avesse, la capacità di guarire la sterilità, ma anche virtù afrodisiache. Il
profumo della mandragola viene evocato nel Cantico dei Cantici (7,14), a
sottolineare la profondità della passione della donna per l’amato. E’ Ruben,
il primogenito di Lia, a trovarle e a portarle alla madre. Rachele le contratta
con la sua rivale e le ottiene concedendole una notte d’amore a Giacobbe.A Lia
nasce così il figlio “Issacar” (dall’ebraico: “sakar” -“salario”,
“mercede”, “ricompensa”). La fecondità di Lia dilaga: ecco un altro figlio “Zabulon”
(dal verbo ebraico “zabad” -“dare una buona dote” a una figlia). Ora, però, è la volta della povera Rachele,
finora dimenticata da Dio. Egli “si ricorda” di lei e il ricordo divino è efficace:
riesce a renderla madre, in modo diretto, di un figlio, “Giuseppe”,
il cui nome è spiegato in due modi diversi: come derivante dal verbo ebraico
“asaf” = “togliere” (“Dio ha tolto il mio disonore”) e più correttamente, dal
verbo “jasaf” - “aggiungere” (“il Signore mi aggiunga un altro figlio”).Tra i
popoli seminomadi dell’antico Oriente, una tribù veniva indicata con il nome
dell’antenato. Così in Israele accade che i
nomi delle dodici tribù d’Israele sono fatti risalire ai nomi dei dodici figli di Giacobbe. Raccontare la storia della
famiglia dei patriarchi antenati era un modo per raccontare la storia delle
tribù. Per questo motivo la distinzione tra i figli di Lia e i figli di Rachele
può riferirsi anche a due gruppi distinti di tribù, che abbiano dei legami tra
di loro. Gli antenati delle due tribù avranno una funzione politica centrale
nella storia successiva di Israele: Giuda e Giuseppe sono presentati come
figli delle mogli e non delle schiave. Conclusa la storia delle madri e dei
loro figli, ecco ritornare in scena Labano (“bianco”).Il desiderio di Giacobbe
è ormai quello di ritornare in patria con le sue mogli, così da costituire una
sua famiglia autonoma. Lo scaltro Labano, però, sa che perderebbe in questo
caso uno straordinario lavoratore, perciò avanza in modo discreto la proposta
di una permanenza ulteriore di Giacobbe, nonostante l’insistenza di
quest’ultimo che non manca di far notare l’alta qualità della sua passata
prestazione e il rifiuto di qualsiasi compenso, anche se elevato, in cambio
della sua permanenza. Alla fine, però, Giacobbe, cede alle richieste. Ma a una
condizione: egli vuole come salario tutte le capre e le pecore che sono ora (e
che poi nasceranno) col manto punteggiato o chiazzato; quelle dal manto bianco
rimarranno a Labano. Quest’ultimo accoglie con soddisfazione la proposta apparentemente
vantaggiosa per lui: la lana candida era molto più pregiata nei greggi
dell’oriente. Ma Labano con inganno e all’insaputa di Giacobbe, tolse dal
gregge tutti i capi striati e pezzati (che dovevano essere di Giacobbe) e li
affidò ai suoi figli che li portarono lontano per tre giorni di cammino;
cosicché a Giacobbe non rimase altro che pascolare il restante gregge bianco
(che però apparteneva aLabano). Ma ecco
riapparire l’astuzia di Giacobbe e la sua intelligenza, l’autore biblico vede
in queste qualità del patriarca, le stesse doti d’Israele, come nazione:
Giacobbe, quindi, ricorre a una tecnica che nasceva da una convinzione arcaica
e popolare, secondo la quale, la natura della prole sia, almeno parzialmente
determinata da influenze esterne, riportate dalla madre durante la gravidanza.
Perciò, Giacobbe, mette negli abbeveratoi, rami e verghe striate; le pecore,
fissando questi rami generano animali striati. Così da quel gregge bianco
di Labano, nacquero pecore pezzate che cominciano ad appartenere a Giacobbe. Ma
il patriarca perfeziona il suo brevetto: sceglie le bestie più robuste e,
mettendo negli abbeveratoi le verghe, fa nascere animali striati e più forti,
mentre quando si abbeveravano le pecore più deboli (malate o magre), non
ricorreva a questo stratagemma, e quindi queste pecore deboli rimanevano a
Labano. La conclusione di questo stratagemma è evidente: il gregge di Giacobbe
da questi accoppiamenti ne esce più forte e numeroso, quello di Labano, invece,
più debole e meno numeroso. La vicenda, però, non poteva lasciare indenni i
rapporti tra i due clan. I figli di Labano sono morsi dalla gelosia; Labano
stesso cova dentro di sè una sorda ostilità nei confronti di Giacobbe. Ecco
allora la grande decisione. Ispirato dal Signore a ritornare nella terra dei
suoi padri, Giacobbe convoca le mogli e tiene loro un discorso molto articolato
(vv. 5-13) in cui rievoca le vicende accadute; giustifica il suo
comportamento, spiega la sua astuzia come un’ispirazione divina e alla fine
conclude proponendo la partenza. La risposta di Lia e Rachele è netta: Labano
si è comportato con loro da padrone egoista vendendola a Giacobbe per averne
vantaggi economici: esse alludono ai lunghi anni di servizio offerti, da
Giacobbe. Sono , dunque, pronte a partire con il loro marito verso la sua
patria. Rachele, approfitta dell’assenza del padre e ruba piccole statuette
che indicavano divinità familiari al padre; e, secondo l’usanza dell’antico
Oriente, il possesso di queste statuette sanciva il diritto all’eredità. Con
l’astuzia che gli è propria, Giacobbe, riesce a nascondere la sua fuga.
Labano, che viveva ormai con il suo clan separato da quello di Giacobbe, se ne
accorge solo dopo che Giacobbe era lontano tre giornate di marcia. A tappe
forzate riesce a raggiungerlo al di là del fiume (cioè l’Eufrate v. 21), sui
monti di Galaad, in Transgiordania, e si accampa di fronte a lui, quasi come
per uno scontro in campo aperto. In realtà, Labano vuole solo recriminare su
questa partenza che lo ha privato di una fonte di guadagno, ma denuncia anche
la scorrettezza di Giacobbe: se n’è andato all’improvviso, impedendogli di
abbracciare figlie e nipotini, di festeggiare quella partenza con una solenne
cerimonia, di restare in armonia. Gli ha strappato le figlie portandole via
quasi fossero prede di guerra. Tuttavia Labano non vuole infierire, anche
perché una rivelazione divina l’ha spinto a essere generoso con Giacobbe. Ciò
che però, egli non può tollerare è il furto degli “dei” familiari. Giacobbe
lascia perquisire la carovana, ma quando Labano si avvicina alla colpevole,
Rachele, essa ricorre a un’astuzia: nasconde le statuette sotto la sella del
cammello e si siede sopra, fingendosi sofferente a causa delle mestruazioni. La
manovra di Labano è così fallita. Dopo
l’appassionante autodifesa di Giacobbe, Labano ribadisce la rivendicazione del
suo possesso sulle figlie, nipoti, greggi, e tuttavia si accorge anche di non
poter prevalere e ricorre a un patto: Tutto
è concluso con un giuramento nel nome del Dio di Abramo e del Dio di Nacor,
cioè delle due tribù, con un sacrificio su un monte santo e con un banchetto
finale. Ora si erge davanti a Giacobbe un futuro oscuro, non privo di incubi. L’incubo
è rappresentato dal fratello Esaù, con cui Giacobbe cerca di avere un contatto
tramite una delegazione di messaggeri a cui affida un testo molto semplice e
rispettoso, modellato secondo un linguaggio delle ambascerie ufficiali (vv.
5-6). Ma l’esito sembra essere, a prima vista, infausto: Esaù lascia il suo
territorio di Edom e marcia con un piccolo esercito di 400 uomini alla volta di
Giacobbe: costui non ha altra risorsa che ricorrere a una strategia di difesa,
dividendo in due frazioni il suo clan, così da poterne salvare almeno una
porzione. Ma soprattutto Giacobbe ricorre alla preghiera. Confortato da questa
orazione, tenta di sondare ulteriormente le intenzioni del fratello Esaù, dopo
la prima gelida reazione. Invia, allora, una nuova ambasceria con ricchi doni,
organizzata in tre diversi scaglioni di persone. La speranza è quella di
riuscire a placare il fratello, forse ancora sdegnato per l’inganno della sua
primogenitura.
In questa atmosfera carica di tensione. Il narratore vuole
anche sottolineare le paure e le difficoltà dello stesso Giacobbe. Al nome è
data una interpretazione amplificata (“e con gli uomini”) per indicare che le
lotte di Giacobbe (ed implicitamente del popolo ebraico) si concluderanno in
vittorie; Alla fine sorge l’aurora: essa è l’alba di una nuova era; si apre una
nuova fase della storia della salvezza, incentrata su un uomo nuovo: colui che
ha lottato con Dio ed è stato benedetto ed eletto per una grandiosa missione. Uscito
da quella straordinaria esperienza, Giacobbe si trova di fronte al fratello e
ai suoi 400 uomini. Fa avanzare le donne e i bambini e, alla fine, si presenta
lui, in atto di totale sottomissione, prostrandosi sette volte fino a terra.
Ma ecco la sorpresa: Esaù si precipita incontro al fratello, lo abbraccia e lo
bacia tra le lacrime. La tensione è sciolta, l’incubo è svanito: è una scena
inattesa, però a lieto fine. L’incontro tra Esaù e Giacobbe si svolge tra una
serie continua di gentilezze e si conclude (dopo che Giacobbe avrebbe voluto
offrire i donativi preparati: segno della potenza da lui raggiunta con la
benedizione divina), con la proposta di Esaù, di marciare insieme,
ricomponendo quasi un unico clan familiare. Affiora ancora una volta
l’indiscutibile astuzia di Giacobbe che abilmente ricusa l’invito un po’
sospetto, adducendo una scusa fondata e non offensiva: la sua carovana
composta di donne e bambini, animali, è in marcia da molto tempo ed è
bisognosa di procedere in modo lento. Respinta con diplomazia anche l’offerta
di una scorta, avanzata da Esaù, i due fratelli si separano, fissando un
appuntamento a Seie, il deserto meridionale ove risiedeva Esaù-Edom. Ora il
racconto della Genesi seguirà il filo delle vicende di Giacobbe e dei suoi
figli, in particolare di Giuseppe. Il capitolo inizia con la menzione del
trasferimento, quasi in pellegrinaggio a Betel, il luogo dove il Signore era
apparso a Giacobbe che stava fuggendo dal fratello Esaù (cap. 28). Ma per
accedere a quel luogo santo era necessario purificarsi. Ecco, allora, l’invito
rivolto dal patriarca ai membri del suo clan perché compiano un bagno rituale,
si vestano con abiti da cerimonia e soprattutto rinuncino agli amuleti e agli
idoli che si erano portati .Il rifiuto e l’abbandono di questi oggetti
indicavano il riconoscimento dell’unico Dio. Seppelliti sotto una quercia a
Sichem questi residuati pagani, essi s’incamminano verso Betel, dove Giacobbe
erige un altare dedicandolo al Dio di Betel (El-Betel) che l’aveva protetto
nella sua vita di esule. Si esalta, così, l’importanza di uno dei grandi
santuari d’Israele, nei cui pressi si levava la “Quercia del pianto”, in
memoria della tomba della nutrice di Rebecca.Dio appare in una visione al
Patriarca, lo benedice, gli conferma il mutamento del nome da Giacobbe in
Israele (cap. 32), gli rinnova la promessa di una grande discendenza e del possesso
della terra. La carovana, compiuto il pellegrinaggio, si rimette in marcia.
Mentre si trova a “Efrata”, Rachele è colta dalle doglie di un
parto difficile e drammatico. Dal suo grembo esce un bambino, l’unico dei
figli di Giacobbe nato nella terra promessa. Rachele muore subito dopo il
parto. Rachele dunque muore, ed è sepolta a Efrata; una stele è posta sulla
sua tomba. Ancor oggi all’ingresso di Betlemme si erge un piccolo mausoleo
dedicato a Rachele, e la sua tomba è meta di pellegrinaggio di molti ebrei. Continua
anche il viaggio della famiglia di Giacobbe che ora raggiunge, a Mamre-Ebron,
il vecchio padre Isacco.Ed è con la morte di Isacco che si chiude il nostro
capitolo. A Sichem, si apre una questione piuttosto spinosa : Sichem, l’omonimo
principe ereditario della città, figlio di Camor dopo aver violentato Dina,
figlia di Lia e di Giacobbe, se ne innamora. Cerca allora di stabilire
un’alleanza matrimoniale con i fratelli della ragazza, per poter riparare al
“disonore” inferto a Dina e alla sua famiglia. La legislazione in Israele,
prevedeva, nel caso in cui la ragazza vergine fosse sedotta o violentata da un
uomo, che egli potesse prenderla in sposa versando il consueto “prezzo”
nuziale. Nel caso però in cui il padre della ragazza rifiutasse la richiesta,
l’uomo era tenuto a versare una somma pari al prezzo nuziale, come
risarcimento per il danno arrecato alla ragazza e alla famiglia (Esodo 22,
15-16). Il padre del giovane è pronto ad
offrire, oltre a una ricca dote per la ragazza (il “mohar”), anche un donativo
di riparazione. I fratelli di Dina fingono di accettare questa proposta così
vantaggiosa; in realtà essi stanno macchinando una tremenda vendetta nei
confronti di chi aveva disonorato la loro sorella. Alla radice della decisione
sta il fatto che Sichem “aveva commesso un’infamia a Israele” e una cosa del
genere “non doveva fare” perché immorale. I fratelli di Dina accettano di
concedere in matrimonio la sorella a una condizione: quella della circoncisione
di ogni maschio di Sichem . Farsi circoncidere significava quindi convertirsi
ed entrare a far parte del popolo eletto. Al terzo giorno, dopo la
circoncisione, quando dolori e febbre sono più intensi e rendono inabili i
maschi a qualsiasi reazione, i due fratelli uterini di Dina, Simeone e Levi
(figli di Lia, la prima moglie di Giacobbe), piombano in città e compiono non
solo una vendetta, ma un vero e proprio bagno di sangue, accompagnato da una
razzia e dal saccheggio: greggi, beni, proprietà, bambini e donne vengono
rapinati. Giacobbe comprende l’eccesso dei due figli e le conseguenti
difficoltà per la sua famiglia; egli teme, infatti, la reazione degli altri
paesi indigeni della terra promessa: i Cananei e i Perizziti. Da questa storia
verra’ proibito per gli Ebrei i matrimoni misti, così da impedire anche
l’inquinamento religioso dei popolo eletto; “Tu non ti imparenterai con le
altre genti, non darai tua figlia a un loro figlio, ne prenderai una loro
figlia per tuo figlio” (Deut. 7,3).
Sulla montagna di Seir si stabili Esaù, quando si divise da Giacobbe. La
discendenza di esau si divide in
1. Edomiti o Idumei, è motivato dal fatto che essi sono
imparentati con gli Israeliti. Il loro capostipite è infatti, Esaù-Edom,
fratello di Giacobbe-Israele. Nonostante i due popoli si siano spesso
affrontati in guerra, il libro dei Deut. 23,8 riteneva questo legame familiare
(cioè di clan) molto forte: “Non avrai in abominio l’Idumeo, perché è tuo
fratello”.
2. Gli Hurriti
(da “hor” = “grotta”, sarebbero gli “abitanti delle grotte”, del territorio di
Seir, prima che lo conquistasse il clan di Esaù-Edom. Secondo una tradizione
presente nel Libro del Deut. 2,22 “... i figli di Esaù, che abitano in
Seir, sterminarono gli Hurriti, davanti a loro”, più probabilmente, però, si
trattò di una fusione tra le due razze.
3. I Tematiti (termine ebraico: “Teman”
indica il “Sud”) abitavano anch’essi nel territorio di Edom.
Giacobbe chiede l’intervento di Giuseppe, il
figlio prediletto di Giacobbe e Rachele e vediamo ora che Giuseppe sta cercando
i fratelli su incarico del padre, Giacobbe, e li incrocia a “Dotan” a dodici
miglia da Sichem, il luogo della strage compiuta dai figli di Giacobbe per la
violenza fatta alla loro sorella (cap. 34). Ora Giuseppe è davanti ai suoi
fratelli, con la sua “tunica dalle maniche lunghe” (in ebraico “Ketonet”),
regalatagli dal padre; essa era simbolo di distinzione e di grande dignità. Era
un abito che scendeva fino ai piedi e contraddistingueva i principi e le
principesse (2Sam. 13, 18-19). Gli altri fratelli di Giuseppe, dediti alla cura
del gregge e alle attività spicciole di ogni giorno, indossavano una tunica
corta e senza maniche. I
fratelli di Giuseppe, negandogli il saluto, (in Oriente aveva
una grande importanza; esso comprendeva gesti come alzarsi
in piedi, scendere da cavallo, baciarsi, prostrarsi, abbracciarsi; e
parole soprattutto col termine “shalom”= “pace” ; negare il
saluto, come fanno i fratelli di Giuseppe, significava la rottura di ogni
rapporto) lo afferrano e lo gettano, secondo il consiglio di Ruben, in una cisterna
vuota. Le cisterne erano destinate a raccogliere l’acqua piovana e
venivano scavate in ogni terreno, anche nel deserto. Nel periodo estivo esse
erano di solito asciutte e potevano prestarsi ad altri usi. Entra pero’ in scena Giuda, figlio di Lia (29,35) che
ripropone il salvataggio del fratello, così come aveva fatto Ruben. Giuda
suggerisce la vendita del fratello come schiavo a quei mercanti. A prendere le
difese di Giuseppe sono Ruben e Giuda, suoi fratelli. Ruben è il primogenito ed è in questa veste
che interviene. Le due stesse tradizioni si intrecciano nel presentare la
differente identità dei mercanti ai quali viene venduto Giuseppe.L’autore
biblico descrive il dolore di Giacobbe alla finta morte di Giuseppe con i
tradizionali riti orientali del lutto: stracciarsi le vesti, legarsi il cilicio
ai fianchi, lamentarsi e gridare.L’obiettivo ora si sposta da Giuseppe che è
venduto come schiavo a un alto funzionario egiziano, l’ ”eunuco” del
Faraone Potifar, a una vicenda particolare che riguarda Giuda, uno dei figli di
Giacobbe. Col termine “eunuco” si indicava un uomo sessualmente impotente,
che, perciò, veniva incaricato di custodire l’abitazione delle donne nel
palazzo reale (harem). Nel linguaggio biblico assume anche il significato di
“maggiordomo” o uomo di fiducia, al quale venivano affidati alti incarichi (2
Re 25,19). Riferito a Potifar, di cui sappiamo che era sposato, il termine
probabilmente va inteso in questo secondo senso.
Questo intermezzo, nella storia di Giuseppe, ha alla base la giustificazione di
un’usanza legale, codificata dalla Bibbia (Deut. 25,5), ed è chiamata dagli
studiosi “levirato” (dal latino “levir” - “cognato”). Vediamo di
che cosa si tratta: se un uomo moriva senza lasciare figli, i suoi fratelli o i
parenti prossimi dovevano sposare la vedova per assicurare al fratello defunto
la discendenza: segno di immortalità nel tempo e di continuità della stirpe.
La sopravvivenza del
proprio nome nella discendenza era molto importante nella mentalità dell’antico
Oriente. Questa era l’unica condizione che permetteva di superare la
limitatezza della vita, segnata dalla morte. Il destino del singolo era quello
di scendere nello “sheòl”, luogo delle ombre, ma il suo nome poteva rimanere
sulla terra e continuare a vivere nei discendenti. Oltre a una forte
solidarietà “orizzontale” tra i membri della stessa famiglia o clan, esisteva,
infatti, una profonda solidarietà “verticale” fra antenati e discendenti, tanto
che le azioni dei padri e degli avi avevano effetto, a seconda dei casi,
sull’esistenza dei figli e dei discendenti (Esodo 34,7).
Il figlio nato da questa
unione (cioè dalla vedova con un fratello o un parente del defunto) era
ufficialmente considerato stirpe del defunto. Ora Giuda trovò moglie al suo
primogenito “Er”, la donna si chiamava “Tamar”, ma “Er”, morì, e l‘altro figlio
di Giuda, “Onan”, non ne vuole sapere di adempiere al dovere del
levirato, ben sapendo che l’eventuale figlio non sarebbe stato suo. Per questo
motivo Onan evita sistematicamente di mettere incinta la cognata Tamar,
disperdendo il suo seme fuori dal grembo della donna. E’ da lui, com’è noto,
che è originato il termine “onanismo” inteso genericamente anche
come “masturbazione”. In realtà, come si diceva, si tratta di un costume ben
più preciso, quello a cui fa riferimento il nostro racconto (cioè il levirato).
Tamar decide, allora, di far rispettare questa legge, che doveva onorare la
memoria di suo marito, attraverso uno strano stratagemma: essa si traveste da
prostituta e, in una località ove si era recato Giuda per impegni di lavoro, lo
adesca1, costringendolo, almeno lui, ad avere un rapporto con lei
(se il figlio Onan si rifiuta, sarà Giuda, il padre, a dare una discendenza a
Er, marito di Tamar). Il racconto non si preoccupa di far notare l’immoralità
del mezzo adottato. Tutta l’attenzione, infatti, è concentrata sul diritto del
“levirato”, una legge che Tamar vuole far osservare. Tamar, per essersi fatta
valere nell’assicurarsi i suoi diritti di vedova, viene ammirata nel mondo
biblico, come esempio di risolutezza e di accortezza (Rut 4,12). Insieme con
Raab, Rut e Betsabea (la moglie di Una), anche Tamar diventa uno degli anelli
determinanti nella genealogia di Gesù (Mt. 1,3). La presenza di queste donne, dalla
storia matrimoniale così discutibile, nella linea genealogica, che conduce al
Messia, viene interpretata alla luce delle scelte libere e gratuite di Dio, che
guida la storia, non soggetto a condizionamenti umani. Torniamo al racconto:
Tamar con abilità si fa consegnare da Giuda, in attesa dell’invio del capretto,
(per pagare il suo “debito”) il sigillo (che conteneva inciso il
proprio nome; era a forma di anello o cilindro forato e si portava al collo),
il cordone (che regge al collo il sigillo), e il bastone (con
incisi i simboli della tribù); tutto questo equivaleva alla nostra carta
d’identità.Quando Giuda cerca di riavere questi pegni, per pagare la sua
“prestazione” col capretto, scopre con sorpresa che quella donna si è quasi
volatilizzata, anche i residenti non ricordano di aver mai visto una prostituta
in quella strada, e Giuda si rassegna alla perdita di quei documenti. Ecco,
però, che nella famiglia si sparge una voce: Tamar è incinta e non di un membro
del clan della sua famiglia! Si è quindi prostituita ad altri e merita la
condanna a morte per adulterio, cioè il rogo alla porta della città. Ma a
questo punto la donna, in modo astuto, porta a compimento il suo piano: il
sigillo col suo cordone e il bastone sono la prova schiacciante. E Giuda
riconosce che quella donna era più giusta di lui, perché egli non si era
preoccupato di concederle un membro della famiglia che adempisse al dovere del
“levirato”.Giunge, allora, per Tamar il momento del parto: sono due gemelli.
E’ curioso notare il modo con cui si cerca da parte della levatrice di
determinare quale sia il primogenito, per i ben noti diritti ereditari (si
ricordi la nascita di Esaù e Giacobbe). Si ricorre, dunque, a un filo scarlatto
come contrassegno che viene legato attorno alla mano di colui che verrà
chiamato: “Zerach” (cioè “filo scarlatto”, legato alla sua mano prima di
uscire). In realtà a uscire per primo dal grembo di Tamar sarà “Esrnz” (che in
ebraico significa: “breccia”, il cui nome rimanda alla spiegazione
dell’ostetrica: “come ti sei aperto una breccia?”) . Perez è il
capostipite dei Perizziti, ed è tra gli antenati di “Booz”, che è
all’origine del casato di Davide. Ancora una volta i nomi di personaggi che
daranno origine a clan ebraici vengono spiegati in modo libero e popolare. Nascono,
così, due figli al defunto “Er”, marito di Tamar, e la legge del levirato ha
raggiunto il suo scopo. Alla figura di Tamar, donna ribelle
all’ingiustizia, si accosta ora quella di un’altra donna da
condannare perché pronta a compiere un’ingiustizia: è la moglie di Potifar,
che incarna, nel nostro racconto, il simbolo della donna straniera seduttrice,
spesso condannata dalla sapienza biblica, perché fa deviare l’ebreo dalla sua
fede e dalla sua morale. Ora la moglie di Potifar tenta di conquistare quel
giovane ebreo, che suo marito ha nominato sovrintendente del suo palazzo.Questo
passo biblico rivela qualche collegamento con un’opera egiziana, dal titolo:
“Il racconto dei fratelli” una specie di novella composta tra il 1500 e il 1000
a.C. “Due fratelli vivevano insieme. Il maggiore, aveva una casa e una moglie;
mentre il minore lo serviva nei campi. Un giorno il minore entrò in casa per
prendere delle sementi e la moglie di suo fratello lo invitò a unirsi a lei.
Egli respinse con forza i suoi tentativi, perché voleva mantenersi fedele al
fratello, perché era come un padre per lui,. A sera il fratello maggiore tornò
a casa e trovò la moglie piena di ferite, che si era inferta da sola; essa
mosse una falsa accusa contro il fratello minore”.E’ possibile, quindi, che i
due racconti (questo della Genesi e quello egiziano), si siano influenzati a
vicenda. Così, Giuseppe, calunniato presso il suo padrone, è gettato in carcere
(nel mondo antico la prigione non era concepita come nel nostro tempo: si
teneva qualcuno in carcere in attesa del processo che avrebbe appurato i fatti,
o in attesa dell’esecuzione della sentenza capitale a processo avvenuto; non
esistevano edifici destinati a carcere, ma venivano adibiti a celle di
detenzione alcuni locali dei palazzi reali o di altri edifici). Ma ecco
apparire un altro elemento costante nella nostra narrazione: quello della
provvidenza divina che non dimentica il giusto oppresso.
In carcere Giuseppe è oggetto di benevolenza, il direttore del carcere
gli affida, infatti, il controllo dei detenuti. Un giorno entrano in cella due
alti funzionari: il capo-coppiere (che era incaricato di vigilare
su quanto veniva portato sulla tavola del sovrano, per prevenire ogni
tentativo di avvelenamento), e il capo-panettiere (che era
incaricato di preparare per la mensa del sovrano i cibi fatti con pasta: pane,
focacce, torte), che erano a servizio del Faraone, in attesa, però, di giudizio
per un delitto non specificato: “offesero il loro padrone, il re d’Egitto”.
Questi due alti funzionari fanno un sogno nella stessa notte e Giuseppe riesce
a interpretarli perfettamente, così anche il sogno del Faraone viene spiegato
da Giuseppe (le sette vacche e le sette spighe), che, però, rimanda
direttamente a Dio la sua interpretazione. Il nome egiziano “Faraone”,
significa “casa grande”. Questo titolo veniva dato a ogni sovrano d’Egitto ed
esprimeva bene il suo potere politico ed economico. A lui erano attribuiti i
caratteri della divinità, il diritto di vita e di morte sui sudditi. Nel
faraone era simboleggiata la forza del Sole e delle piene del Nilo, la forza
delle armi e dei guerrieri e delle braccia dei contadini. La sua morte era un
grande lutto per l’Egitto). Contrariamente alla mentalità egiziana e
babilonese, che attribuiva al Re, prerogative divine e ai sacerdoti capacità
divinatorie, ritenendoli destinatari dei misteri della scienza e della natura;
la Bibbia proclama che a Dio solo competono queste caratteristiche. Il
sapiente, secondo la Bibbia, è colui che si sottomette a Dio e valuta ogni cosa
alla luce della fede. I sapienti nell’antico Oriente erano dei veri e propri
“tecnici” o “intellettuali”, preparati in apposite “scuole di sapienza” La
sapienza di Giuseppe, invece, non è frutto di scuola, non è una predisposizione
intellettuale è, al contrario, un dono divino maturato attraverso le amare
esperienze di vita. E’ questa la vera sapienza. Il testo biblico è di
facile lettura e spiegazione Così Giuseppe viene nominato viceré d’Egitto
(nella civiltà egiziana gli anni si computavano con il succedersi delle dinastie.
Dalla XVIII dinastia compaiono due “visir” che affiancavano il Faraone
nell’organizzazione del regno: uno per l’Egitto inferiore e uno per l’Egitto
superiore. Questo vasto paese, infatti, era composto da due grandi regioni,
che verso il 2850 a.C. vennero unificate). L’autore biblico dimostra una
buona conoscenza del mondo antico egiziano, si preoccupa di definire tutti gli
aspetti di questo solenne insediamento: c’è la formula di investitura
(Gen. 41,41), segue la consegna dell’anello (o sigillo, per
l’autenticazione dei decreti e le disposizioni del Faraone (Ester 3, 12; 8,8);
l’anello era anche segno di potere e di autorità; si offrono gli abiti
da cerimonia di lino finissimo, che distingueva i “visir”(ministri del
faraone), questo lino in greco si chiamerà poi “bisso”; si impone, quindi, la
collana d’oro (alla quale era infilato il sigillo o anello, essa era
pure distintivo dell’alta carica di cui Giuseppe era investito ; v. 42).
Si esce poi per la parata: Giuseppe è sul cocchio che segue immediatamente
quello del faraone, mentre gli araldi gridano un termine: “Abrek”
(“Inchinatevi”), che invita alla venerazione e all’omaggio durante il passaggio
del corteo di un uomo così importante. Presentato davanti a tutti, con una
nuova formula di investitura (Gen. 41,41), Giuseppe entra nella nobiltà
egiziana, con un nuovo nome egiziano “Zafnat-Paneach” (“Dio parla: che egli
viva”), e con un matrimonio principesco; sua moglie sarà “Asenat” (“colei che
appartiene a “Neit” = la dea della regina del cielo), la figlia del sommo
sacerdote del dio Sole, del tempio di “On” (grande città consacrata al popolare
dio egiziano “Ra”), cioè la successiva “Eliopoli”, ora alla periferia del
Cairo. Da quel matrimonio alla coppia nasceranno due figli. Il primogenito sarà
chiamato “Manasse”, (un nome che ricordi il passato di ebreo ma
anche un nome che faccia “dimenticare” il passato amaro), così, infatti è
spiegato dalla Bibbia. Il secondo è “Efraim”, ed è in se una
memoria delle promesse divine che sempre si attuano, nonostante le prove (“Dio
mi ha reso fecondo”).Dopo una lunga parentesi,
rientrano in scena i fratelli di Giuseppe; la morsa della fame li convince a
partire per l’Egitto per sopravvivere. Partono solo in dieci, perché il vecchio
Giacobbe non vuole esporre a pericoli l’altro figlio prediletto, Beniamino,
nato da Rachele, morta proprio durante il parto (Gen. 35, 16-20). Giuseppe ha
davanti a sè i suoi fratelli prostrati e li riconosce, e il suo pensiero corre
ai sogni della sua giovinezza (quello dei covoni e delle stelle). Giuseppe,
allora, inizia un serrato interrogatorio dei fratelli, accusandoli di
spionaggio. Giuseppe, dopo aver messo alla prova i fratelli e aver constatato
il loro pentimento, manda a chiamare Beniamino rimasto col padre, ma Giacobbe oppone
delle resistenze per lasciare andare Beniamino che ricordiamo essere nato dal parto che fece morire Rachele. Giacobbe si decide pero’ a far
partire Beniamino con i fratelli verso l’Egitto. Questa narrazione ha lo scopo
di collegare in modo sempre più consistente la presenza dei “figli d’Israele”
in Egitto con la loro successiva oppressione e liberazione descritta nell
‘Esodo. Giuseppe alla vista di Beniamino, si commuove e piange, offre poi a
tutti i fratelli un pranzo succulento, consumato secondo l’etichetta egiziana:
gli Egiziani non potevano essere commensali con gli Ebrei, perché evitavano
ogni contatto con gli stranieri e non si servivano dei loro utensili; a questo
si aggiunge il fatto che Giuseppe non mangia con loro perché è ancora il
viceré egiziano e non il loro fratello.
Dopo il pranzo, vengono
riempiti i sacchi di viveri; ma nel sacco di Beniamino, Giuseppe, insieme con
denaro del pagamento del grano, aveva fatto scivolare la sua coppa d’argento. La
“coppa” è simbolo di abbondanza e di immortalità. Il furto della coppa, considerato
oggetto sacro, era punito con la morte. Giuseppe intanto si fa riconoscere dai
fratelli e nelle sue parole rivolte ai fratelli, l’autore biblico rivela, il
progetto di Dio sul suo popolo e la sua provvidenza amorosa: Dio ha tratto il
bene dal male: “Dio mi ha mandato avanti a voi, per assicurare a voi la
sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente (Gen.
45,7)”. Nell’originale ebraico la parola “sopravvivenza”, è resa con un
termine che indica il “resto”. Il “resto” è
il segno della continua presenza di Dio nella storia, del suo progetto di
salvezza che si attua nonostante le contraddizioni e le difficoltà delle
vicende umane. All’orizzonte della
vicenda di Giuseppe, l’autore sacro vede già profilarsi la salvezza futura dei
“figli d’Israele”, cioè del popolo ebraico, dall’oppressione del Faraone.
Questo popolo non verrà mai totalmente distrutto, ma vi sarà sempre un “resto”
che sopravvivrà, come segno della fedeltà di Dio alle promesse fatte a Israele.
Così Giuseppe concede ai fratelli, dopo che sono andati a prelevare anche
Giacobbe, di abitare nella terra di “Gosen”, che è il nome della regione
egiziana, dove si stabiliscono gli Israeliti venuti in Egitto: è situata nel
delta del Nilo ed è particolarmente fertile e adatta al pascolo. Adesso è la
volta di far riunire giacobbe con i suoi figli e con Giuseppe ritrovato
Giacobbe, in una visione, viene assicurato del viaggio senza rischi in Egitto.
“Non temere”: questo invito ricorre nelle parole che Dio rivolge ai Patriarchi.
Dio rinnova le sue promesse di protezione e di benedizione; “Non temere”, è un
invito a confidare nella vicinanza del Signore, nonostante i pericoli e le
difficoltà che si presentano. Nel nostro contesto (v.3) ci si riferisce ai pericoli
del viaggio e dell’andare a stabilirsi in terra straniera. In questa visione
ritornano le parole della promessa “Ti farò risalire”, si applica concretamente
a lui, la cui salma ritornerà nella terra dei padri, ma in questa espressione
si può anche intravedere anticipatamente il destino d’Israele schiavo d’Egitto
e liberato dal Signore. Nei racconti biblici è frequente il caso in cui Dio
appare a un personaggio di notte, durante il sonno E’ questo un modo per
indicare che la rivelazione divina avviene in una dimensione e con modalità a
volte misteriose e superiori all’ordinaria comprensione che noi abbiamo
dell’esistenza umana. A questo punto l’autore biblico disegna la mappa
dell’itinerario di Giacobbe in Egitto, con tappe e dati significativi.
La prima tappa è Bersabea, cara alla memoria di suo nonno Abramo e di suo padre Isacco . Dopo Bersabea, la
carovana si mette di nuovo in marcia Finalmente la carovana giunge in Egitto
ove il Faraone aggiunge la possibilità
per i fratelli di Giuseppe, di una particolare carriera nella burocrazia
egiziana, soprattutto per i più capaci: “Costituiscili sopra i miei averi come
capi del gregge” Cv. 6) La storia di Giuseppe ha
raggiunto il suo scopo primario; Giacobbe “benedice il Faraone”: questo gesto
richiama la promessa di Dio ad Abramo: “In te saranno benedette tutte le tribù
della terra”. I Patriarchi, e poi il popolo d’Israele, sono il segno della
presenza di Dio in mezzo a tutti gli uomini.Dopo l’udienza, i fratelli di
Giuseppe, si stabiliscono, secondo l’autorizzazione del Faraone, nel fertile
“territorio di Ramses”. In questa
legislazione, solo i Sacerdoti avevano dei privilegi e rendite autonome, -
questa particolare condizione era collegata alla loro funzione nel culto - dato
che dovevano propiziare la benevolenza della divinità, necessaria per la prosperità
del paese, secondo le credenze del tempo. Normalmente i Sacerdoti avevano il
diritto ad una parte del raccolto ogni anno e a prelevare per sè parte delle
offerte che venivano portate al tempio. Potevano avere anche la proprietà
della terra intorno al santuario. L’attenzione ora si sposta sulla figura di
Giacobbe, la cui vita si sta spegnendo. Al momento dell’arrivo in Egitto egli
aveva confessato di avere 130 anni , Giacobbe, sotto giuramento affida a suo
figlio Giuseppe le sue ultime volontà e il suo desiderio di ritornare, alla sua
morte, nella terra dei suoi padri. Come
aveva, quindi, fatto Abramo col suo servo (Gen. 24,2), così Giacobbe chiede a
Giuseppe di giurare mettendo la mano sotto la coscia, cioè sugli organi
genitali, radice santa della vita, dono divino. Nella tradizione ebraica
successiva il gesto è stato invece interpretato in riferimento alla
circoncisione. Mettere le mani vicino al membro circonciso significava impegnarsi
sul segno che sigilla l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Chi giura è legato
dal giuramento così come il circonciso si è impegnato ad osservare l’alleanza
del Signore. Giuseppe riceve la
notizia improvvisa della malattia di suo padre. Egli, allora, accorre con i
suoi figli. Giacobbe desidera adottare i due figli di Giuseppe, Efraim e
Manasse, come figli propri, allo stesso modo di Ruben e Simeone. Giacobbe
adottando i due figli di Giuseppe, li equiparava ai suoi figli e quindi ai
capostipiti delle tribù d’Israele. Giacobbe,
allora, vede i due figli di Giuseppe e desidera adottarli come suoi figli. Il
rituale dell’adozione comprende una serie di gesti: il bacio,
l’abbraccio, il porre l’adottato in grembo “tra le due ginocchia”,
(quasi ad affermare che essi sono nati dall’adottante; può anche essere un
riferimento alla prassi dell’adozione: prendere dei fanciulli sulle proprie ginocchia
indicava che si consideravano come figli propri. Ma c’è anche un riferimento
alla benedizione, poiché in ebraico “ginocchio” si dice “berek” e
benedizione “berakah”. Il riferimento al ginocchio poteva rimandare agli
organi genitali. Infatti la benedizione era anzitutto un augurio di fecondità
sia per la persona (Gen. 1,28), sia per la terra (Gen. 27,28). Infine l’imposizione
delle mani, la benedizione. Gli ultimi due atti sono fondamentali ed è
in essi che si verifica un dato sconcertante ma significativo. Sappiamo già che
la “mano destra” per la Bibbia è simbolo della fortuna e del
successo, è segno della potenza di Dio che interviene in favore dell’uomo
creando (Isaia 48,13) o liberando il suo popolo (Esodo 15,6). Si ricordi anche
il valore del nome : “Beniamino” = “figlio della destra”. La “mano
sinistra”, invece, è usata per tradire e ingannare (2 Sam 20, 9-10).
Pertanto, Giacobbe, impone
la mano destra sul capo di Efraim (il figlio più giovane di Giuseppe) e la
sinistra su Manasse (il primogenito). Giuseppe fa notare l’errore del padre che
ripete il gesto, incrociando le braccia, ora che i due ragazzi hanno cambiato
posizione, quindi favorendo sempre Efraim.
Questa inversione dei ruoli
nella benedizione ha un significato di tipo storico e di tipo spirituale.
Si vuole innanzitutto
giustificare la preminenza storica che la tribù di Efraim avrà su quella di
Manasse: non si deve dimenticare che Efraim sarà capo delle dieci tribù che
costituiranno il regno settentrionale di Israele. Ma il gesto ha un valore
ulteriore: quello di riaffermare le scelte divine, che non seguono le strade
dell’eredità, ma quelle misteriose della grazia. Le benedizioni citate sono di
taglio generale e riguardano entrambi i figli; la prima (vv. 15-16) è molto
solenne e ricalca formule liturgiche in uso al tempo ( la presenza di Dio nel
cammino dell’uomo), la seconda ( presente nel v. 20) si augura che i figli di
Giuseppe divengano un segno di benedizione per tutti i popoli. Compiuto il
gesto dell’adozione e della benedizione, Giacobbe formula il suo testamento che
comprende due clausole: la prima ci è già nota ed è un annuncio del futuro
ritorno di tutto Israele alla terra promessa; la seconda riguarda un lascito
specifico per Giuseppe, un appezzamento di terreno su un dosso di monte, da lui
strappato in battaglia agli Amorrei
Giuseppe chiede e ottiene il
permesso di trasferire la salma di Giacobbe nella terra di Canaan. Lo stesso
lutto in Israele durava sette giorni. Questo rientro del corpo di Giacobbe
nella terra promessa è, in un certo senso, il preannunzio di quell’itinerario
futuro che anche il popolo ebraico seguirà ritornando nella terra promessa,
cioè dei loro padri, dopo l’oscura e lunga parentesi della schiavitù egiziana.
Dalle parole di perdono di Giuseppe ai suoi fratelli emerge, ancora una volta,
la figura esemplare del “sapiente”, ma anche l’intervento provvidenziale di
Dio (v.20), che riesce a sempre a trarre il bene anche dal male. Queste parole
fanno da sigillo all’intera vicenda della Genesi, e non solo della storia di
Giuseppe. Giuseppe muore a 110 armi ed è sepolto in Egitto. Come Giacobbe,
anche Giuseppe richiede che la sua sepoltura definitiva sia nella terra di
Canaan. Così Mosè, partendo dall’Egitto, prenderà con sè le ossa di Giuseppe
(Esodo 13,19); dopo la conquista della terra promessa, le ossa saranno deposte
in una tomba a Sichem (Giosuè 24,32).Ormai la vicenda amara e gloriosa
dell’Esodo è alle porte ed è preannunziata da Giuseppe nell’ultimo versetto
della Genesi che, per ben due volte, annunzia ai fratelli la “visita del
Signore”, dall’ebraico “paqad”, che indica l’intervento
del Signore Dio in favore del suo Popolo, per liberarlo da una situazione di
oppressione e difficoltà. In conclusione , questa “visita del Signore” è
sorgente di speranza e di salvezza.
A cura di Don antonio schena
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