Dio, Jahwè si è manifestato prima come
liberatore di un Popolo che ha fatto suo con l’Alleanza. Poi questo popolo ha
scoperto che questo Dio Salvatore era anche il Dio Creatore, cioè
Colui che aveva creato il cielo e la terra. Il Dio che si fa presente nella storia di Abramo,
Isacco, Giacobbe, Mosè; artefice dalla
liberazione dall’Egitto, dalla conquista della terra promessa: da questo Dio,
Israele è risalito al Dio Creatore. La “Creazione” e la “Caduta”, sono gli atti
determinanti di ciò che seguirà: la graduale avversione a Dio da parte
dell’uomo, e il definitivo intervento di Jahwè nella nuova creazione: quella
del suo Popolo. Nei primi versi della genesi , si narra la creazione del mondo
evidenziando in questo racconto
l’importanza del riposo del sabato che era a quei tempi una tradizione per il
popolo di Israele. Già dai primi versi conosciamo un Dio creatore di ogni cosa
Separazione
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Dominio
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1° : LUCE
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4° : SOLE, LUNA,
STELLE
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2° : FIUMI,
ACQUE
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5° : UCCELLI,
PESCI
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3° : TERRA
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6° :
ANIMALI
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La Tradizione Sacerdotale
aggiunge la convinzione che la distinzione dei sessi è di origine divina e
pertanto buona.; la Tradizione Jahwista, comincia subito il racconto con
l’uomo; dall’inizio alla fine è lui in primo piano. La terra è presentata
come una pianura spoglia, senza erbe o alberi e senza animali. Solo quando fu
plasmato l’uomo col fango di questa pianura, in essere vivente, solo allora Dio
piantò per l’uomo un “giardino” e dopo che l’uomo fu trasportato nel
giardino, Dio modellò dal fango gli animali della terra e gli uccelli del
cielo: tutto viene fatto esclusivamente per l’uomo. L’uomo diventa “essere
vivente” solo quando Dio “soffiò nelle sue narici un alito di vita ”Alito
di vita” Dall’ebraico “nishmah” rimanda al “soffiare”
e “respirare”. Nell’A.T. questo termine indica la spiritualità
dell’uomo, cioè un dono che Dio fa all’uomo per permettergli di
conoscere, di entrare in relazione con gli altri e con Lui stesso.
L’altro termine, invece, “ruah” = “vento”, indica lo
Spirito di Dio. Quest’alito di vita non designa “l’anima”
(termine sconosciuto all’autore sacro; infatti è stato introdotto tardivamente
con la filosofia greca), ma qualcosa simile a ciò che noi chiamiamo “coscienza”.
L’uomo, perciò, è contemporaneamente legato a Dio (alito di vita) e
al mondo (argilla-materia), e questa unità è la sua grandezza e la sua
bellezza. “ Il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo”.
La creazione dell’uomo è rappresentata con l’immagine del vasaio che plasma la
creta. Non per nulla in ebraico “uomo” è “’adam” e la terra
“adamah”. Adamo, perciò, non è un nome proprio, ma indica ogni uomo che è
legato all’argilla (la parola ebraica “adamah” letteralmente indica qualcosa si
“rossastro” come l’argilla), cioè alla materia. L’ebraico oltre al termine
“adam” (che, abbiamo visto, indica l’essere umano nella sua totalità, oppure
umanità), ha un altro termine che traduce la parola “uomo”, ed è il
vocabolo “ish”, con il quale si vuole indicare l’essere umano “maschio”
e spesso anche il “marito”. A questo termine corrisponde il femminile “isshàh”,
cioè la “donna”, ma anche la “moglie”.
“Poi il Signore Dio piantò un
giardino in Eden, ad Oriente”. “Il “giardino” non ha una
collocazione precisa, ma è un’immagine che rappresenta il mondo in armonia con
l’uomo e l’universo intero. Il racconto al di là dei simboli e delle immagini,
dice semplicemente che Dio ha creato l’uomo in una condizione di felicità, in
un “paradiso”; questo termine però va inteso nel giusto senso: Dio ha creato la
felicità, e il paradiso è nell’uomo stesso. Peccato, che abbiano voluto cercare
il Paradiso su una carta geografica, in terre più o meno lontane: la felicità
paradisiaca si trova nel cuore dell’uomo. Dio ha creato l’uomo per “coltivare”, e “custodire”.
Coltivare: nell’originale ebraico (abàd), ossia servire,
lavorare ma usato anche per indicare il
“servizio” liturgico nel Tempio. “Custodire” : (shamar), ossia
vigilare, osservare, ma anche e soprattutto al “custodire” e “osservare” la
Legge e la parola del Signore. Il compito dell’uomo è, allora, quello di
custodire il dono di Dio, il creato, riconoscendo in esso la Sua opera.
“L’albero della
vita” : è, la ricerca
dell’albero per cibarsi dei suoi frutti e così evitare la morte.
“L’albero
della conoscenza del bene e del male”: La “conoscenza” per la Bibbia, non è solo
un’attività mentale, ma anche vitale e della volontà, è simile alla decisione.
“Bene” e “male” sono le due facce della realtà morale. Quell’albero è,
quindi, il simbolo delle scelte morali. E’ solo Dio che decide ciò che è bene e
ciò che è male: questo è il senso di quel comando. Se violato, l’uomo
sperimenterà la morte, che non è solo l’esperienza fisica del morire, ma
soprattutto la separazione dal Dio della vita.
“Creazione
della donna”: L’uomo nel
giardino o “Eden” (= piacere) è solo. Questa solitudine è parzialmente superata
con la creazione degli animali a cui l’uomo “impone il nome” (nella
Bibbia significa dare un ordine a tutte le realtà; sottrarla al caos e al nulla
e quindi poterla controllare e dominare per il proprio benessere; questo è il
momento della scienza e della tecnica, del lavoro che trasforma e domina il
mondo e le sue creature). Ma giunto a sera della sua giornata, l’uomo si sente
ancora solo. Gli “animali” e le “cose” non sono “un aiuto degno di lui”.
Egli allora entra in un sogno-visione, ove Dio, con la stessa materia di cui è
costituito l’uomo (la “costola” in alcune lingue semite indica: “vita”,
“femminilità”), forma una Nuova creatura umana fatta dalla stessa realtà, e
dotata della stessa dignità. Il “sonno profondo” dell’uomo, suggerisce
la natura altamente misteriosa ed importante dell’attività divina. “Osso
delle mie ossa, carne della mia carne”. Tra i due si è stabilita una
comunione profonda, così da essere una sola “carne”. Questa espressione
rimanda non solo all’atto sessuale matrimoniale, ma anche all’unità della vita
(la “carne” è simbolo dell’esistenza, nella Bibbia).L’autore conclude
questa prima parte della sua narrazione, con un principio generale; l’unione
matrimoniale e il suo carattere monogamico, sono voluti da Dio. Il primo atto
del racconto si chiude con l’uomo e la donna nudi e sereni. La “nudità”
nella Bibbia è segno dell’essere creatura: l’uomo non peccatore si accetta
così, con serenità. Dopo il peccato, la “veste” sarà il tentativo di
ritrovare la dignità perduta, perché allora l’uomo non potrà più accettarsi
come egli è. La prima parte di questo nuovo racconto della creazione ha
ribadito la bellezza della realtà uscita dalle mani di Dio. Essa è come un
tessuto di armonie: l’uomo è in armonia con Dio, a cui è legato dall’alito
di vita; è in armonia con la materia e gli animali a cui “impone il nome”;
è in armonia con il suo simile, cioè la “donna”.
“Il peccato”: “Il serpente era il più astuto tra tutti gli
animali”. Per comprendere perché proprio al “serpente” (e non un altro
animale), sia stato attribuito il ruolo di tentatore dell’uomo, bisogna
ricordare che nelle antiche civiltà orientali, questo animale era considerato
il simbolo dell’ immortalità e della fertilità. Quindi il richiamo al “serpente”
evocava nell’autore del racconto i culti idolatrici dei Cananei, difatti essi
immaginavano che la divinità fosse presente nella sessualità, nella fecondità
dei greggi e nella fertilità dei campi. Il tentatore per eccellenza è
l’idolatria, (l’idolo), il falso dio. Pertanto qui si può pensare a un
motivo polemico con questi “culti pagani”, a cui Israele non è stato esente, a
motivo delle varie infiltrazioni nel suo “credo” religioso. Lungo la
storia dell’interpretazione biblica, la figura del “serpente” andrà via via
delineandosi come forza ostile a Dio e al suo piano, fino ad essere
identificato con “Satana” e “diavolo”: “per invidia del Diavolo la morte è
entrata nel mondo” (Sapienza 2,24); “il Dragone, il Serpente antico, che è il
Diavolo e Satana” (Apocalisse 12, 9, e 20,2); “egli è stato omicida fin da
principio, è menzognero e padre della menzogna” (Gv. 8,44). Difatti il nome
stesso del serpente viene messo in rapporto alla sua azione di tentatore: “nahash”,
infatti, in ebraico significa “serpente”, ma anche “indurre in tentazione”. Il
serpente è definito come “astuto”, cioè sapiente, perché offre una visione del
mondo e di Dio, alternativa. Ed è proprio questo tentatore, attraverso un fine
gioco psicologico a coinvolgere prima la donna e poi l’uomo nell’atto di
ribellione a Dio. Il sogno che egli fa balenare davanti ai loro occhi è quello
del “diventare come Dio” cioè “conoscitori del bene e del male”.
Ritorna in scena quell’albero non botanico ma simbolico di cui si era parlato
già nel primo atto. Esso era il simbolo del bene e del male, cioè della morale
che solo Dio decide. L’uomo, col suo peccato “originale”, radice e sorgente di
ogni altro peccato, vuole decidere lui quale sia il bene e il male, vuole
diventare lui l’arbitro della morale, rifiutando il disegno divino. Dopo il peccato, l’uomo e la donna non si
accettano più come creature, si vergognano e cercano di coprire la loro nudità
con un ben misero “segno” di protezione. Il peccato segna una svolta radicale.
Alle armonie che interessavano tutta la prima pagina del racconto Jhawista
subentrano ora le disarmonie: la relazione con la donna diventerà aspra e
segnata dalla violenza, quella con la natura diventerà faticosa e quella con
Dio sarà infranta. Dio ora ritorna in scena. E’ come un sovrano orientale che
passeggia nel suo parco quando soffia la brezza della sera. Da questo momento
in avanti, il racconto si trasforma in un processo. Si comincia con
un’istruttoria e un interrogativo serrato in cui il Signore si rivela un
giudice implacabile che riesce a demolire le false difese dell’uomo. Si
assiste, infatti, da parte della coppia umana, a un curioso tentativo di
sottrarsi alla propria responsabilità. In successione, infatti, l’uomo accusa
la donna, la donna accusa il serpente.
A questo punto scattano “ricerca
delle cause”. Le domande a cui si vuol rispondere sono: “Perché i serpenti
strisciano? Perché i dolori del parto? Perché la fatica e il sudore del
lavoro?”.
C’è innanzitutto il giudizio sul serpente.
In forma popolare, si vuole
anche spiegare perché il serpente sia considerato impuro dagli ebrei e strisci
sulla polvere, cioè, qui, le caratteristiche naturali del serpente vengono
usate per simboleggiare la punizione inflitta alla potenza del male. Ma, al di
là di questa spiegazione concreta, è un segno ulteriore: l’idolo è impuro e
ridotto a essere umiliato nella povere. Difatti nella tentazione il serpente
dapprima nega ineluttabilità del castigo e poi offre la somiglianza con Dio
(“conoscendo il male e il bene”), e quale risultato del
mangiare i frutti di quell’albero. Questa somiglianza con Dio,
potrebbe essere la quasi immortalità attraverso la propria prole ottenuta col
rapporto sessuale; l’autonomia morale - vale a dire - il diritto di decidere da
sè ciò che è male e ciò che è bene, la fiducia in se stessi piuttosto che in
Dio, sono, in sintesi, il primo peccato dell’uomo. Dio, quindi, afferma qui che
tra il seme del serpente (cioè i suoi discendenti), e il seme della donna (cioè
l’umanità), ci sarà una lotta serrata e continua, un’ostilità” irrimediabile.
“Porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: essa ti
schiaccerà la testa”. Questo v. 15 del nostro brano è stato chiamato “protovangelo”
(il “primo” Vangelo di speranza e di liberazione dal male).L’atto di
“schiacciare la testa” è attribuito, nel testo ebraico, alla stirpe o seme
della donna (“hu” = “esso); nella traduzione greca dei “Settanta” viene
attribuito a una singola persona (“autòs” = “egli”); e nella versione latina
della “Volgata”, alla donna (“ipsa”= “ella”) Pertanto su queste sfumature, è
stato letto il testo ebraico, come uno scontro tra il seme del serpente e
quel discendente perfetto della donna che sarà il Messia. Costui saprà schiacciare
per sempre la testa del male. Nella “lettura cristiana”, poi, si è
pensato, che a “schiacciare” la testa del serpente, e della sua discendenza
malvagia, sia la “Donna” per eccellenza, cioè la Madre del Messia e quindi
la Vergine Maria, Madre di Gesù Cristo. Ecco poi la seconda sentenza: quella
indirizzata alla donna. Per indicare che l’armonia tra uomo e donna è spezzata,
si ricorre al dolore del parto, considerato come il vertice della sofferenza.
La generazione, che doveva essere fonte di gioia e segno di benedizione: è
vista come percorso della sofferenza. E’ una spiegazione simbolica e spirituale
di un fatto naturale. La punizione è triplice: la donna partorisce nel dolore;
il suo desiderio verso il marito è controllato con difficoltà; l’uomo domina la
donna nell’ambito domestico e sociale. E’ significativo notare che solo il
serpente è maledetto in modo diretto (“maledetto sii tu”); la donna e l’uomo lo
sono solo indirettamente; Dio non cancella la benedizione radicale che rendeva
vivo e fecondo l’uomo. Infatti ora a essere maledetto è il suolo che ritorna
simile alla steppa dell’inizio della Creazione. La terra diventa avara di
prodotti; da essa spuntano spine, cardi ed erbe, per cui il lavoro dell’uomo è
duro, fonte di sudore e fatica. Si vuole così mostrare la frattura dell’armonia
tra la terra e l’uomo, tra la materia e colui che aveva ricevuto l’incarico di
trasformarla.
“POLVERE SEI E IN
POLVERE RITORNERAI”
La polvere è la nostra meta
ultima con la morte. Su questo tema amaro, la Bibbia ritornerà spesso,
mostrando all’uomo la sua fragilità, il suo essere finito e votato alla morte. Solo
lentamente farà balenare la possibilità di un orizzonte oltre la morte. Ma già
in questo stesso racconto ci sono due note positive e che lasciano sperare. La
prima è il nome nuovo che la donna riceve: prima era chiamata “isshah”
(femminile di “ihs”= uomo), ora viene chiamata “Eva”(dall’ebraico:
“Hawwah”), che significa “la vivente”, la “sorgente della vita”. E’ una nota
positiva dunque: nonostante tutto, la benedizione divina rende feconda la donna
che continua a operare. Dalla Rivelazione sappiamo che Adamo aveva ricevuto la
santità e la giustizia originali non soltanto per sè, ma per tutta la natura
umana. Cedendo al tentatore, Adamo ed Eva commettono un peccato personale, ma
questo peccato intacca la “natura umana’,’ che essi trasmettono in una
condizione decaduta. Si tratta di un peccato che sarà trasmesso per
propagazione a tutta l’umanità, cioè con la trasmissione di una natura umana
privata della santità e della giustizia originali. Per questo il peccato originale
è chiamato “peccato” in modo analogico: è un peccato “contratto” e
non “commesso”, uno stato e non un atto. Il peccato originale,
sebbene proprio a ciascuno, in nessun discendente di Adamo ha un carattere di
colpa personale. Consiste nella privazione della santità e della
giustizia originali, ma la natura umana non è interamente corrotta: è
ferita nelle sue proprie forze naturali, sottoposta all’ignoranza, alla
sofferenza e al potere della morte, e inclinata al peccato (questa
inclinazione al male è chiamata “concupiscenza”). Il Battesimo, donando la
vita della grazia di Cristo, cancella il peccato “originale” e volge di nuovo
l’uomo verso Dio; le conseguenze di tale peccato sulla natura indebolita e
incline al male rimangono nell’uomo e lo provocano al combattimento spirituale.
“Come per colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna,
così anche per l’opera di giustizia di uno solo, si riversa su tutti gli uomini
la giustificazione che dà vita”. (Rom. 5, 18). Dio non ha impedito al primo
uomo di peccare affinché l’uomo da questi mali trasse un bene piu’ grande . Da
qui il detto di San. Paolo: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato
la grazia . (Rom. 5,20)”.
Ma perché la colpa dei
nostri progenitori diventa il peccato di tutti?
Perché Ogni gruppo di popolazione è rappresentato
come tratto da un capostipite, che gli trasmette sia il proprio nome, sia i
primi caratteri etnici e psicologici. Il numero di questi esempi porta a
concludere che per il documento Jahwista e per l’autore finale della Genesi,
un’eredità si trasmette da una generazione all’altra, ed è questa una delle
leggi più importanti della storia.
L’uomo, in forza della sua costituzione naturale, è mortale (“tornerai al
terreno, perché da esso sei stato tratto; perché tu sei polvere e alla polvere
tornerai”). Dopo la colpa, è preclusa all’uomo la via all’albero della vita e
ciò significa che l’uomo non ha più la possibilità di vivere sempre
b)
L’integrità. Adamo ed Eva dopo il
peccato si accorgono della loro nudita’ come di qualcosa di nuovo e di
umiliante, e due volte si parla della necessità di coprirsi. Pertanto tra le
conseguenze del peccato, sono messi in rilievo, non solo i pericoli della
gravidanza e i dolori del parto, ma anche la passione della donna ad
abbandonarsi all’uomo e l’istinto di conquista dell’uomo sulla donna. Questo
privilegio viene comunemente denominato “immunità della concupiscenza” per
indicare lo stato di perfetto equilibrio interiore, per cui l’uomo sentiva nel
suo intimo solo la spinta verso il bene ed era sottratto a quel perenne urto
interiore tra bene e male, vita e morte.
c)
L’immunità dal dolore. I
progenitori vengono collocati in un paradiso-giardino “ricco di ogni specie di
alberi” e in Gen. 1, 26-28 era stato rilevato il dominio dell’uomo su tutti
gli animali: pesci, volatili, fiere. Il tutto nel racconto sta a indicare uno
stato di felicità e quindi di assenza di dolore, nell’utilizzazione della
creatura da parte dell’uomo.Il lavoro, per sua natura, comporta una fatica, ma
la fatica non sempre comporta dolore, anzi spesso anche nelle situazioni
attuali è piacevole ed esaltante. Il racconto biblico presenta il lavoro
agricolo dell’uomo come sforzo penoso soltanto dopo il peccato e come
conseguenza del peccato. Non è cambiata la natura del lavoro, è cambiato il
rapporto dell’uomo con Dio. Il peccato ha provocato nell’uomo una frattura
dolorante in tutte le direzioni.Il castigo della donna consiste nelle
sofferenze inerenti alla convivenza coniugale e alla maternità. La
preservazione di questo tipo di dolore, sempre stando al racconto biblico, era
soltanto ipotetico, cioè nel caso in cui non ci fosse il peccato. Infatti
prima del peccato il racconto non fa cenno di rapporti coniugali e di
generazione di figli.E’ del tutto superfluo porsi il problema di come la madre
li avrebbe dati alla luce in caso non ci fosse stato il peccato. Lo stato
di felicità dei progenitori viene denominato dai teologi: “immunità dal
dolore.Questo privilegio è in parte frutto e completamento dei due
precedenti. Questo dogma, secondo cui i progenitori erano costituiti in stato
di giustizia e santità, si deduce dal N.T. (Colossesi 3, 9-10 e Rom. 5, 10-19),
ed è la chiave di volta per intendere l’essenza del peccato originale e la
perdita degli altri privilegi. Sarà Gesù Cristo a ridare all’uomo quei
privilegi perduti; infatti nella visione simbolica dell’umanità rinnovata,
nell’Apocalisse 22,2 ricompare “l’albero della vita” in relazione con la
santità riconquistata: “Beati quelli che lavano le loro vesti nel sangue
dell’Agnello, essi avranno potere sull’albero della vita” (Apocalisse 22,14). Del cielo e della terra, delle piante, degli animali
e dell’uomo, possono parlare lo scienziato, il filosofo, il teologo, ognuno
secondo le sue competenze e in base ai metodi che utilizza; le scienze
naturali si basano sull’osservazione e sulla sperimentazione, la filosofia sul
concetto e sul significato dell’essere, la teologia sulla Sacra Scrittura e
sulla Tradizione della Chiesa. La Bibbia - ha osservato S. Agostino - non ci
dice la verità sul corso del sole e della luna, non ci dice che cos’è il cielo,
ma ci dice come si va in cielo. Il messaggio della Bibbia, anche quando
utilizza “generi letterari”, è essenzialmente religioso, ci offre verità
importanti intorno al significato dell’esistenza, non è di tipo scientifico,
come pretende una lettura “fondamentalista” della Bibbia. “Fede e scienza”, ha
osservato Giovanni Paolo Il, “appartengono a due ordini di conoscenza diversi,
che non sono sovrapponibili... La ragione può cogliere l’unità che lega il
mondo e verità alla loro origine solo all’interno di modi parziali di
conoscenza” (Discorso agli scienziati di Colonia, 15/11/1980).
La teoria evolutiva viene
ritenuta la spiegazione più plausibile delle forme fossili preumane e umane,
come pure delle piante e degli animali fossili. Ma, a prescindere dalle
modalità Ha osservato Giovanni Paolo Il:
“Una fede rettamente compresa nella creazione e un insegnamento rettamente
inteso dell’evoluzione non creano ostacoli... La creazione si pone nella luce dell’evoluzione
come un avvenimento che si estende nel tempo - come una creatio continua
- in cui Dio diventa visibile agli occhi del credente come il creatore del
cielo e della terra” (Fede cristiana ed evoluzione, 27/4/1985). L’evoluzione
cosmica e l’evoluzione biologica si sviluppano secondo un disegno superiore.
Esse corrispondono a un progetto di Dio, in qualunque modo si sia realizzato
tale progetto, fosse anche per eventi casuali, che Dio ha preveduto in un
quadro di possibilità e di leggi o principi d’ordine insiti nella materia. In
tale disegno l’uomo si presenta come il punto culminante del processo
evolutivo. L’uomo ha una trascendenza rispetto alle altre creature in forza del
principio spirituale che lo caratterizza: l’anima. Essa non può derivare da
altri esseri di ordine materiale, ma richiede un concorso particolare di Dio
creatore, analogamente a quanto avviene nella formazione di ogni essere umano. In
conclusione la vera alternativa non è tra evoluzione e creazione, ma tra
la visione di un mondo autosufficiente, capace di crearsi e trasformarsi da se
per eventi puramente casuali e la visione di un mondo in evoluzione,
dipendente da Dio Creatore, secondo un suo disegno.
Se nel secondo capitolo ora si apre la vicenda dell’uomo che con la sua libertà
ha voluto decidere lui quale sia il bene e quale il male. E subito la violenza
dilaga.La coppia dell’uomo e della donna (ora presentati col nome di Adamo ed
Eva) ha un figlio, chiamato Caino. Di questo nome l’autore sacro dà una
spiegazione popolare, facendolo derivare dalla preghiera della donna che,
diventata madre, elevava a Dio: “Ho formato un uomo...” Il verbo ebraico
“formare” (qanah) suona come il nome Caino. Tuttavia è quasi certo che il nome
“Caino” voglia far riferimento anche a una tribù ostile a Israele, che
razziava l’area meridionale della terra promessa. Il nome di “Abele” (hebel),
fratello di caino invece non viene spiegato, ma l’etimologia del termine
ebraico: (“soffio”, “alito”), rimanda alla natura transitoria della vita di
Abele. Il contesto di questo brano presenta una civiltà ben sviluppata (v.
2b); l’istituzione del sacrificio (vv. 3-4ss.), l’esistenza di altri popoli
(vv. 14-l5ss.).Pertanto la verità religiosa che questo episodio insegna è
questa: la rivolta dell’uomo contro Dio conduce alla rivolta dell’uomo contro i
suoi simili. Il crimine dell’assassinio conferma questo stato di decadenza
dell’uomo. Dio è giusto nel punire il peccato ma misericordioso nell’applicare la
pena (v. 15); il sacrificio deve essere offerto nelle giuste condizioni di
spirito; il peccato deve e, per ciò stesso, può essere dominato dall’uomo
(v. 7).La figura di questi due fratelli viene ripresa lungo la
tradizione biblica come un episodio di contrapposizione del giusto (Abele) e
del malvagio (Caino).Caino è invece presentato
come esempio da non imitare (lGv. 3,12: “Non come Caino, il quale era dal
maligno e ha ucciso suo fratello... perché le sue opere erano malvagie, mentre
quelle del fratello erano giuste”), e la cui condotta va riprovata. Il Signore
gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e l’offerta di lui. L’offerta
dei frutti e dei primogeniti era una richiesta a Dio perché benedicesse il
lavoro. Questa espressione vuole indicare che Abele, a differenza di Caino,
sperimenta il successo e la benedizione di Dio nella sua attività. Ma non
bisogna dimenticare che da essa traspare anche un tema caro alla Bibbia, quello
delle libere scelte di Dio. Il Signore, però, lancia un monito a Caino: (“Se
agisci bene puoi tenere alta la testa”). Alla porta di ogni uomo c’è,
accovacciato, il peccato come una specie di belva: il serpente tentatore. Ma
l’uomo con la sua libertà lo può dominare! Caino, però, non lo vuol vincere;
anzi ne segue la tentazione. Ed ecco il delitto, Caino si scagliò contro suo
fratello e lo uccise”.La storia del primo assassinio, emblema di tutta quella
catena di sangue che attraversa nei secoli l’umanità, è modellata sullo schema
della narrazione del peccato di Adamo.Alla domanda incalzante di Dio l’uomo
cerca di sottrarsi, mentendo e rifiutando ogni legame col fratello. Ma secondo
una vigorosa immagine cara alla Bibbia, il sangue versato “grida a Dio dal
suolo”, esigendo giustizia (per evitare questo “grido” si usava coprire con
sabbia o terra il sangue degli uccisi).Scatta allora la sentenza di
maledizione: il delitto di Caino ha spezzato l’armonia della famiglia e della
società; la conseguenza-pena sarà l’essere “ramingo e fuggiasco”, fuori della
società, lontano dal terreno coltivato. Caino “erra” nel paese del Nord, un
vocabolo che in ebraico allude appunto al “vagare” qua e là senza meta. A
questo punto si accendono in Caino il pentimento e la paura. Egli si sente
solo e indifeso, emarginato e senza la protezione della famiglia o della
tribù. Si spiega così, in modo religioso, una prassi sociale o un qualche
segno caratteristico tribale di cui si vuole ritrovare l’origine. Caino se ne
va, dunque, ramingo con quel segno che non è certo da intendere in senso
razzista o vendicativo. Anzi, dopo aver condannato il peccatore, Dio non lo
abbandona al suo destino ma lo tutela accogliendolo sotto la sua suprema
giurisdizione a cui appartengono tutte le vite, anche quelle dei criminali. Si passa pertanto dall’ambiente semplice e primitivo
si è passati ad una società più progredita. La vendetta non deve conoscere
limiti. Dio puniva l’ingiustizia contro Caino “sette volte”, cioè in modo
perfetto (secondo il simbolismo dei numeri),
Il “settantasette” volte indica un numero infinito. Questo canto della violenza
fa risaltare l’equilibrio della legge del taglione che regolava in parità le
tensioni (“occhio per occhio, dente per dente”). Ma soprattutto, fa brillare il
detto di Cristo che allude proprio a questo passo. Pietro è pronto a perdonare
fino a sette volte; Gesù replica: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a
settanta volte sette” (Mt. 18, 21-22).
LA POLIGAMIA.
Nel
progetto originario di Dio, però, esisteva il solo matrimonio monogamico. La
poligamia viene, perciò, considerata dalla Bibbia come conseguenza del peccato
da caino nasce Enoch ENOCH, occupa un posto di rilievo nella tradizione
biblica. I suoi anni (365) corrispondono al numero dei giorni del calendario
solare; la sua vita è caratterizzata da uno speciale rapporto con Dio
(“camminò con Dio”); Nel “Libro di
Enoch” (testo giudaico apocrifo del II sec. a.C.) viene descritto il suo
“rapimento” in cielo e vengono presentate le rivelazioni che egli ebbe sul
futuro di Israele e dell’umanità.
Adamo ed Eva diventano genitori di un nuovo figlio, SET, il
cui nome è spiegato liberamente nell’invocazione successiva: Dio ha dato
(in ebraico Shet (Set) e shat “dare”, “accordare”). Set, “dono di Dio”,
sostituisce la perdita di Abele. Set, genererà Enos, che in ebraico è un altro
termine per designare “uomo fragile e debole”. Il racconto si chiude con la
descrizione delle origini del culto: il nome di Jahwè (Signore) fu rivelato
solamente più tardi, ma l’autore della tradizione Jahwista usa questo nome fin
da principio identificando così, esplicitamente, il Dio di Israele con il
Creatore.Forse l’autore sacro Jahwista vuole dirci (v. 26b) che l’uomo era in
grado di adorare l’unico Dio fin da principio.
tratto da Don Antonio Schena
tratto da Don Antonio Schena
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