venerdì 27 luglio 2012

Genesi - primi 4 capitoli


Dio, Jahwè si  è manifestato prima come liberatore di un Popolo che ha fatto suo con l’Alleanza. Poi questo popolo ha scoperto che questo Dio Salvatore era anche il Dio Creatore, cioè Colui che aveva creato il cielo e la terra. Il  Dio che si fa presente nella storia di Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè;  artefice dalla liberazione dall’Egitto, dalla conquista della terra promessa: da questo Dio, Israele è risalito al Dio Creatore. La “Creazione” e la “Caduta”, sono gli atti determinanti di ciò che seguirà: la graduale avversione a Dio da parte dell’uomo, e il definitivo intervento di Jahwè nella nuova creazione: quella del suo Popolo. Nei primi versi della genesi , si narra la creazione del mondo evidenziando  in questo racconto l’importanza del riposo del sabato che era a quei tempi una tradizione per il popolo di Israele. Già dai primi versi conosciamo un Dio creatore di ogni cosa
  Separazione
   Dominio
1° :  LUCE
4° : SOLE, LUNA, STELLE
2° :  FIUMI, ACQUE
5° : UCCELLI, PESCI
3° :  TERRA
6° :  ANIMALI

La Tradizione Sacerdotale aggiunge la convinzione che la distinzione dei sessi è di origine divina e pertanto buona.; la Tradizione Jahwista, comincia subito il racconto con l’uomo;  dall’inizio alla fine è lui in primo piano. La terra è presentata come una pianura spoglia, senza erbe o alberi e senza animali. Solo quando fu plasmato l’uomo col fango di questa pianura, in essere vivente, solo allora Dio piantò per l’uomo un “giardino” e dopo che l’uomo fu trasportato nel giardino, Dio modellò dal fango gli animali della terra e gli uccelli del cielo: tutto viene fatto esclusivamente per l’uomo. L’uomo diventa “essere vivente” solo quando Dio “soffiò nelle sue narici un alito di vita Alito di vita” Dall’ebraico “nishmah” rimanda al “soffiare” e “respirare”. Nell’A.T. questo termine indica la spiritualità dell’uomo,  cioè un dono che Dio fa all’uomo per permettergli di conoscere,  di entrare in relazione con gli altri e con Lui stesso. L’altro termine,  invece, “ruah” = “vento”, indica lo Spirito di Dio. Quest’alito di vita non designa   “l’anima” (termine sconosciuto all’autore sacro; infatti è stato introdotto tardivamente con la filosofia greca), ma qualcosa simile a ciò che noi chiamiamo “coscienza”.  L’uomo, perciò, è contemporaneamente legato a Dio (alito di vita) e al mondo (argilla-materia), e questa unità è la sua grandezza e la sua bellezza. “ Il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo”. La creazione dell’uomo è rappresentata con l’immagine del vasaio che plasma la creta. Non per nulla in ebraico “uomo” è  “’adam” e la terra “adamah”. Adamo, perciò, non è un nome proprio, ma indica ogni uomo che è legato all’argilla (la parola ebraica “adamah” letteralmente indica qualcosa si “rossastro” come l’argilla), cioè alla materia. L’ebraico oltre al termine “adam” (che, abbiamo visto, indica l’essere umano nella sua totalità, oppure umanità), ha un altro termine che traduce la parola “uomo”, ed è il vocabolo “ish”, con il quale si vuole indicare l’essere umano “maschio” e spesso anche il “marito”. A questo termine corrisponde il femminile “isshàh”, cioè la “donna”, ma anche la “moglie”.
 “Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, ad Oriente”. “Il “giardino” non ha una collocazione precisa, ma è un’immagine che rappresenta il mondo in armonia con l’uomo e l’universo intero. Il racconto al di là dei simboli e delle immagini, dice semplicemente che Dio ha creato l’uomo in una condizione di felicità, in un “paradiso”; questo termine però va inteso nel giusto senso: Dio ha creato la felicità, e il paradiso è nell’uomo stesso. Peccato, che abbiano voluto cercare il Paradiso su una carta geografica, in terre più o meno lontane: la felicità paradisiaca si trova nel cuore dell’uomo.  Dio ha creato l’uomo per “coltivare”, e “custodire”.
Coltivare: nell’originale ebraico (abàd), ossia servire, lavorare ma usato anche per  indicare il “servizio” liturgico nel Tempio.                                                                                                                           “Custodire” : (shamar), ossia vigilare, osservare, ma anche e soprattutto al “custodire” e “osservare” la Legge e la parola del Signore. Il compito dell’uomo è, allora, quello di custodire il dono di Dio, il creato, riconoscendo in esso la Sua opera.
“L’albero della vita” : è, la ricerca dell’albero per cibarsi dei suoi frutti e così evitare la morte.
“L’albero della  conoscenza del bene e del male”: La “conoscenza” per la Bibbia, non è solo un’attività mentale, ma anche vitale e della volontà, è simile alla decisione. “Bene” e “male” sono le due facce della realtà morale. Quell’albero è, quindi, il simbolo delle scelte morali. E’ solo Dio che decide ciò che è bene e ciò che è male: questo è il senso di quel comando. Se violato, l’uomo sperimenterà la morte, che non è solo l’esperienza fisica del morire, ma soprattutto la separazione dal Dio della vita.
 “Creazione della donna”: L’uomo nel giardino o “Eden” (= piacere) è solo. Questa solitudine è parzialmente superata con la creazione degli animali a cui l’uomo “impone il nome” (nella Bibbia significa dare un ordine a tutte le realtà; sottrarla al caos e al nulla e quindi poterla controllare e dominare per il proprio benessere; questo è il momento della scienza e della tecnica, del lavoro che trasforma e domina il mondo e le sue creature). Ma giunto a sera della sua giornata, l’uomo si sente ancora solo. Gli “animali” e le “cose” non sono “un aiuto degno di lui”. Egli allora entra in un sogno-visione, ove Dio, con la stessa materia di cui è costituito l’uomo (la “costola” in alcune lingue semite indica: “vita”, “femminilità”), forma una Nuova creatura umana fatta dalla stessa realtà, e dotata della stessa dignità. Il “sonno profondo” dell’uomo, suggerisce la natura altamente misteriosa ed importante dell’attività divina. “Osso delle mie ossa, carne della mia carne”. Tra i due si è stabilita una comunione profonda, così da essere una sola “carne”. Questa espressione rimanda non solo all’atto sessuale matrimoniale, ma anche all’unità della vita (la “carne” è simbolo dell’esistenza, nella Bibbia).L’autore conclude questa prima parte della sua narrazione, con un principio generale; l’unione matrimoniale e il suo carattere monogamico, sono voluti da Dio. Il primo atto del racconto si chiude con l’uomo e la donna nudi e sereni. La “nudità” nella Bibbia è segno dell’essere creatura: l’uomo non peccatore si accetta così, con serenità. Dopo il peccato, la “veste” sarà il tentativo di ritrovare la dignità perduta, perché allora l’uomo non potrà più accettarsi come egli è. La prima parte di questo nuovo racconto della creazione ha ribadito la bellezza della realtà uscita dalle mani di Dio. Essa è come un tessuto di armonie: l’uomo è in armonia con Dio, a cui è legato dall’alito di vita; è in armonia con la materia e gli animali a cui “impone il nome”; è in armonia con il suo simile, cioè la “donna”.
“Il peccato”: “Il serpente era il più astuto tra tutti gli animali”. Per comprendere perché proprio al “serpente” (e non un altro animale), sia stato attribuito il ruolo di tentatore dell’uomo, bisogna ricordare che nelle antiche civiltà orientali, questo animale era considerato il simbolo dell’ immortalità e della fertilità. Quindi il richiamo al “serpente” evocava nell’autore del racconto i culti idolatrici dei Cananei, difatti essi immaginavano che la divinità fosse presente nella sessualità, nella fecondità dei greggi e nella fertilità dei campi. Il tentatore per eccellenza è l’idolatria,  (l’idolo), il falso dio. Pertanto qui si può pensare a un motivo polemico con questi “culti pagani”, a cui Israele non è stato esente, a motivo delle varie infiltrazioni nel suo “credo” religioso.  Lungo la storia dell’interpretazione biblica, la figura del “serpente” andrà via via delineandosi come forza ostile a Dio e al suo piano, fino ad essere identificato con “Satana” e “diavolo”: “per invidia del Diavolo la morte è entrata nel mondo” (Sapienza 2,24); “il Dragone, il Serpente antico, che è il Diavolo e Satana” (Apocalisse 12, 9, e 20,2); “egli è stato omicida fin da principio, è menzognero e padre della menzogna” (Gv. 8,44). Difatti il nome stesso del serpente viene messo in rapporto alla sua azione di tentatore: “nahash”, infatti, in ebraico si­gnifica “serpente”, ma anche “indurre in tentazione”. Il serpente è definito come “astuto”, cioè sapiente, perché of­fre una visione del mondo e di Dio, alternativa. Ed è proprio questo tentatore, attraverso un fine gioco psi­cologico a coinvolgere prima la donna e poi l’uomo nell’atto di ribellione a Dio. Il sogno che egli fa balenare davanti ai loro occhi è quello del “diventare come Dio” cioè “conoscitori del bene e del male”. Ritorna in scena quell’albero non botanico ma simbolico di cui si era parlato già nel primo atto. Esso era il simbolo del bene e del male, cioè della morale che solo Dio decide. L’uomo, col suo peccato “originale”, radice e sorgente di ogni altro peccato, vuole decidere lui quale sia il bene e il male, vuole diventare lui l’arbitro della morale, rifiutando il disegno divino.  Dopo il peccato, l’uomo e la donna non si accettano più come creature, si vergognano e cercano di coprire la loro nudità con un ben misero “segno” di protezione. Il peccato segna una svolta radicale. Alle armonie che interessavano tutta la prima pagina del racconto Jhawista subentrano ora le disarmonie: la relazione con la donna diventerà aspra e segnata dalla violenza, quella con la natura diventerà faticosa e quella con Dio sarà infranta. Dio ora ritorna in scena. E’ come un sovrano orientale che passeggia nel suo parco quando soffia la brezza della sera. Da questo momento in avanti, il racconto si trasforma in un processo. Si comincia con un’istruttoria e un interrogativo serrato in cui il Signore si rivela un giudice implacabile che riesce a demolire le false difese dell’uomo. Si assiste, infatti, da parte della coppia umana, a un curioso tentativo di sottrarsi alla propria responsabilità. In successione, infatti, l’uomo accusa la donna, la donna accusa il serpente.
A questo punto scattano “ricerca delle cause”. Le domande a cui si vuol rispondere sono: “Perché i serpenti strisciano? Perché i dolori del parto? Perché la fatica e il sudore del lavoro?”.
C’è innanzitutto il giudizio sul serpente.
In forma popolare, si vuole anche spiegare perché il serpente sia considerato impuro dagli ebrei e strisci sulla polvere, cioè, qui, le caratteristiche naturali del serpente vengono usate per simboleggiare la punizione inflitta alla potenza del male. Ma, al di là di questa spiegazione concreta, è un segno ulte­riore: l’idolo è impuro e ridotto a essere umiliato nella po­vere. Difatti nella tentazione il serpente dapprima nega ineluttabilità del castigo e poi offre la somiglianza con Dio (“conoscendo il male e il bene”), e quale risultato del mangiare i frutti di quell’albero. Questa somiglianza con Dio, potrebbe essere la quasi immortalità attraverso la propria prole ottenuta col rapporto sessuale; l’autonomia morale - vale a dire - il diritto di decidere da sè ciò che è male e ciò che è bene, la fiducia in se stessi piuttosto che in Dio, sono, in sintesi, il primo peccato dell’uomo. Dio, quindi, afferma qui che tra il seme del serpente (cioè i suoi discendenti), e il seme della donna (cioè l’umanità), ci sarà una lotta serrata e continua, un’ostilità” irrimediabile. “Porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: essa ti schiaccerà la testa”. Questo v. 15 del nostro brano è stato chiamato “protovangelo” (il “primo” Vangelo di speranza e di liberazione dal male).L’atto di “schiacciare la testa” è attribuito, nel testo ebraico, alla stirpe o seme della donna (“hu” = “esso); nella traduzione greca dei “Settanta” viene attribuito a una singola persona (“autòs” = “egli”); e nella versione latina della “Volgata”, alla donna (“ipsa”= “ella”) Pertanto su queste sfumature, è stato  letto il testo ebraico, come uno scontro tra il seme del serpente e quel discendente perfetto della donna che sarà il Messia. Costui saprà schiac­ciare per sempre la testa del male. Nella “lettura cristiana”, poi, si è pensato, che a “schiac­ciare” la testa del serpente, e della sua discendenza malvagia, sia la “Donna” per eccellenza, cioè la Madre del Messia e quin­di la Vergine Maria, Madre di Gesù Cristo. Ecco poi la seconda sentenza: quella indirizzata alla donna. Per indicare che l’armonia tra uomo e donna è spezzata, si ri­corre al dolore del parto, considerato come il vertice della sofferenza. La generazione, che doveva essere fonte di gioia e segno di benedizione: è vista come percorso della sofferenza. E’ una spiegazione simbolica e spirituale di un fatto naturale. La punizione è triplice: la donna partorisce nel dolore; il suo desiderio verso il marito è controllato con difficoltà; l’uomo domina la donna nell’ambito domestico e sociale. E’ significativo notare che solo il serpente è maledetto in modo diretto (“maledetto sii tu”); la donna e l’uomo lo sono solo indirettamente; Dio non cancella la benedizione radicale che rendeva vivo e fecondo l’uomo. Infatti ora a essere maledet­to è il suolo che ritorna simile alla steppa dell’inizio del­la Creazione. La terra diventa avara di prodotti; da essa spun­tano spine, cardi ed erbe, per cui il lavoro dell’uomo è duro, fonte di sudore e fatica. Si vuole così mostrare la frattura dell’armonia tra la terra e l’uomo, tra la materia e colui che aveva ricevuto l’incarico di trasformarla.
“POLVERE SEI E IN POLVERE RITORNERAI”
La polvere è la nostra meta ultima con la morte. Su questo tema amaro, la Bibbia ritornerà spesso, mostrando all’uomo la sua fragilità, il suo essere finito e votato alla morte. Solo lentamente farà balenare la possibilità di un orizzonte oltre la morte. Ma già in questo stesso racconto ci sono due note positive e che lasciano sperare. La prima è il nome nuovo che la donna riceve: prima era chiamata “isshah” (femminile di “ihs”= uomo), ora viene  chia­mata “Eva”(dall’ebraico: “Hawwah”), che significa “la vivente”,  la “sorgente della vita”. E’ una nota positiva dunque: nonostante tutto, la benedizione divina rende feconda la donna che continua a operare. Dalla Rivelazione sappiamo che Adamo aveva ricevuto la santità e la giustizia originali non soltanto per sè, ma per tutta la natura umana. Cedendo al tentatore, Adamo ed Eva commettono un peccato personale, ma questo peccato intacca la “natura umana’,’ che essi trasmettono in una condizione decaduta. Si tratta di un peccato che sarà trasmesso per propagazione a tutta l’umani­tà, cioè con la trasmissione di una natura umana privata della santità e della giustizia originali. Per questo il peccato ori­ginale è chiamato “peccato” in modo analogico: è un peccato “contratto” e non “commesso”, uno stato e non un atto. Il peccato originale, sebbene proprio a ciascuno, in nessun discendente di Adamo ha un carattere di colpa personale. Con­siste nella privazione della santità e della giustizia originali, ma la natura umana non è interamente corrotta: è ferita nelle sue proprie forze naturali, sottoposta all’ignoranza, alla sofferenza e al potere della morte, e inclinata al peccato (ques­ta inclinazione al male è chiamata “concupiscenza”). Il Battesimo, donando la vita della grazia di Cristo, cancella il peccato “originale” e volge di nuovo l’uomo verso Dio; le conseguenze di tale peccato sulla natura indebolita e incline al male rimangono nell’uomo e lo provocano al combattimento spirituale. “Come per colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo, si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita”. (Rom. 5, 18). Dio non ha impedito al primo uomo di peccare affinché l’uomo da questi mali trasse un bene piu’ grande . Da qui il detto di San. Paolo: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia . (Rom. 5,20)”.
Ma perché la colpa dei nostri progenitori diventa il peccato di tutti?  Perché  Ogni gruppo di popolazione è rappresentato come trat­to da un capostipite, che gli trasmette sia il proprio nome, sia i primi caratteri etnici e psicologici. Il numero di questi esempi porta a concludere che per il do­cumento Jahwista e per l’autore finale della Genesi, un’eredità si trasmette da una generazione all’altra, ed è questa una del­le leggi più importanti della storia. L’uomo, in forza della sua costituzione naturale, è mortale (“tornerai al terreno, perché da esso sei stato tratto; perché tu sei polvere e alla polvere tornerai”). Dopo la colpa, è preclusa all’uomo la via all’albero della vita e ciò significa che l’uomo non ha più la possibilità di vivere sempre
b)   L’integrità. Adamo ed Eva dopo il peccato si accorgono della loro nudita’ come di qualcosa di nuovo e di umiliante, e due volte si parla della necessità di coprirsi. Pertanto tra le conseguenze del peccato, sono messi in rilievo, non solo i pericoli della gravidanza e i dolori del parto, ma anche la passione della donna ad abbandonarsi all’uomo e l’is­tinto di conquista dell’uomo sulla donna. Questo privilegio viene comunemente denominato “immunità del­la concupiscenza” per indicare lo stato di perfetto equilibrio interiore, per cui l’uomo sentiva nel suo intimo solo la spinta verso il bene ed era sottratto a quel perenne urto interiore tra bene e male, vita e morte.
c)   L’immunità dal dolore.  I progenitori vengono collocati in un paradiso-giardino “ricco di ogni specie di alberi” e in Gen. 1, 26-28 era stato rile­vato il dominio dell’uomo su tutti gli animali: pesci, vola­tili, fiere. Il tutto nel racconto sta a indicare uno stato di felicità e quindi di assenza di dolore, nell’utilizzazione della creatura da parte dell’uomo.Il lavoro, per sua natura, comporta una fatica, ma la fatica non sempre comporta dolore, anzi spesso anche nelle situazioni attuali è piacevole ed esaltante. Il racconto biblico presenta il lavo­ro agricolo dell’uomo come sforzo penoso soltanto dopo il peccato e come conseguenza del peccato. Non è cambiata la natura del lavo­ro, è cambiato il rapporto dell’uomo con Dio. Il peccato ha pro­vocato nell’uomo una frattura dolorante in tutte le direzioni.Il castigo della donna consiste nelle sofferenze inerenti alla convivenza coniugale e alla maternità. La preservazione di ques­to tipo di dolore, sempre stando al racconto biblico, era soltan­to ipotetico, cioè nel caso in cui non ci fosse il peccato. Infatti prima del peccato il racconto non fa cenno di rapporti coniugali e di generazione di figli.E’ del tutto superfluo porsi il problema di come la madre li avrebbe dati alla luce in caso non ci fosse stato il peccato. Lo stato di felicità dei progenitori viene denominato dai teo­logi: “immunità dal dolore.Questo privilegio è in parte frutto e completamento dei due precedenti. Questo dogma, secondo cui i progenitori erano cos­tituiti in stato di giustizia e santità, si deduce dal N.T. (Colossesi 3, 9-10 e Rom. 5, 10-19), ed è la chiave di volta per intendere l’essenza del peccato originale e la perdita de­gli altri privilegi. Sarà Gesù Cristo a ridare all’uomo quei privilegi perduti; infatti nella visione simbolica dell’umani­tà rinnovata, nell’Apocalisse 22,2 ricompare “l’albero della vita” in relazione con la santità riconquistata: “Beati quelli che lavano le loro vesti nel sangue dell’Agnello, essi avranno potere sull’albero della vita” (Apocalisse 22,14). Del cielo e della terra, delle piante, degli animali e dell’uo­mo, possono parlare lo scienziato, il filosofo, il teologo, ognuno secondo le sue competenze e in base ai metodi che utiliz­za; le scienze naturali si basano sull’osservazione e sulla sperimentazione, la filosofia sul concetto e sul significato dell’essere, la teologia sulla Sacra Scrittura e sulla Tradi­zione della Chiesa. La Bibbia - ha osservato S. Agostino - non ci dice la verità sul corso del sole e della luna, non ci dice che cos’è il cielo, ma ci dice come si va in cielo. Il messaggio della Bibbia, an­che quando utilizza “generi letterari”, è essenzialmente reli­gioso, ci offre verità importanti intorno al significato del­l’esistenza, non è di tipo scientifico, come pretende una let­tura “fondamentalista” della Bibbia. “Fede e scienza”, ha osservato Giovanni Paolo Il, “appartengo­no a due ordini di conoscenza diversi, che non sono sovrapponi­bili... La ragione può cogliere l’unità che lega il mondo e verità alla loro origine solo all’interno di modi parziali di conoscenza” (Discorso agli scienziati di Colonia, 15/11/1980).
La teoria evolutiva viene ritenuta la spiegazione più plausi­bile delle forme fossili preumane e umane, come pure delle piante e degli animali fossili. Ma, a prescindere dalle modalità  Ha osservato Giovanni Paolo Il: “Una fede rettamente compresa nella creazione e un insegnamento rettamente inteso dell’evolu­zione non creano ostacoli... La creazione si pone nella luce dell’evoluzione come un avvenimento che si estende nel tempo - come una creatio continua - in cui Dio diventa visibile agli occhi del credente come il creatore del cielo e della terra” (Fede cristiana ed evoluzione, 27/4/1985). L’evoluzione cosmica e l’evoluzione biologica si sviluppano secondo un disegno superiore. Esse corrispondono a un progetto di Dio, in qualunque modo si sia realizzato tale progetto, fosse anche per eventi casuali, che Dio ha preveduto in un quadro di possibilità e di leggi o principi d’ordine insiti nella materia. In tale disegno l’uomo si presenta come il punto culminante del processo evolutivo. L’uomo ha una trascendenza rispetto alle altre creature in forza del principio spirituale che lo caratterizza: l’anima. Essa non può derivare da altri esseri di ordine materiale, ma richiede un concorso particolare di Dio creatore, analogamente a quanto avviene nella formazione di ogni essere umano. In conclusione  la vera alternativa non è tra evoluzione e creazione, ma tra la visione di un mondo autosufficiente, ca­pace di crearsi e trasformarsi da se per eventi puramente casua­li e la visione di un mondo in evoluzione, dipendente da Dio Creatore, secondo un suo disegno. Se nel secondo capitolo ora si apre la vicenda dell’uomo che con la sua libertà ha voluto decidere lui quale sia il bene e quale il male. E subito la violenza dilaga.La coppia dell’uomo e della donna (ora presentati col nome di Adamo ed Eva) ha un figlio, chiamato Caino. Di questo nome l’autore sacro dà una spiegazione popolare, facendolo derivare dalla preghiera della donna che, diventata madre, elevava a Dio: “Ho formato un uomo...” Il verbo ebraico “formare” (qanah) suona come il nome Caino. Tuttavia è quasi certo che il nome “Caino” voglia far rife­rimento anche a una tribù ostile a Israele, che razziava l’area meridionale della terra promessa. Il nome di “Abele” (hebel), fratello di caino invece non viene spiegato, ma l’etimo­logia del termine ebraico: (“soffio”, “alito”), rimanda alla natura transitoria della vita di Abele. Il contesto di questo brano presenta una civiltà ben svilup­pata (v. 2b); l’istituzione del sacrificio (vv. 3-4ss.), l’esis­tenza di altri popoli (vv. 14-l5ss.).Pertanto la verità religiosa che questo episodio insegna è questa: la rivolta dell’uomo contro Dio conduce alla rivolta dell’uomo contro i suoi simili. Il crimine dell’assassinio conferma questo stato di decadenza dell’uomo. Dio è giusto nel punire il peccato ma misericordioso nell’applicare la pena (v. 15); il sacrificio deve essere offerto nelle giuste condizioni di spirito; il peccato deve  e, per ciò stesso, può essere dominato dall’uomo (v. 7).La figura di questi due fratelli viene ripresa lungo la tradizione biblica come un episodio di contrapposizione del giusto (Abele) e del malvagio (Caino).Caino è invece presentato come esempio da non imitare (lGv. 3,12: “Non come Caino, il quale era dal maligno e ha ucciso suo fratello... perché le sue opere erano malvagie, mentre quelle del fratello erano giuste”), e la cui condotta va riprovata. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e l’offerta di lui. L’offerta dei frutti e dei primogeniti era una richiesta a Dio perché benedicesse il lavoro. Questa espressione vuole indicare che Abele, a differenza di Caino, sperimenta il successo e la benedizione di Dio nella sua attività. Ma non bisogna dimenticare che da essa traspare anche un tema caro alla Bibbia, quello delle libere scelte di Dio. Il Signore, però, lancia un monito a Caino: (“Se agisci bene puoi tenere alta la testa”). Alla porta di ogni uomo c’è, accovacciato, il peccato come una specie di belva: il serpente tentatore. Ma l’uomo con la sua libertà lo può dominare! Caino, però, non lo vuol vincere; anzi ne segue la tentazione. Ed ecco il delitto, Caino si scagliò contro suo fratello e lo uccise”.La storia del primo assassinio, emblema di tutta quella ca­tena di sangue che attraversa nei secoli l’umanità, è modellata sullo schema della narrazione del peccato di Adamo.Alla domanda incalzante di Dio l’uomo cerca di sottrarsi, mentendo e rifiutando ogni legame col fratello. Ma secondo una vigorosa immagine cara alla Bibbia, il sangue versato “grida a Dio dal suolo”, esigendo giustizia (per evitare questo “grido” si usava coprire con sabbia o terra il sangue degli uccisi).Scatta allora la sentenza di maledizione: il delitto di Caino ha spezzato l’armonia della famiglia e della società; la conseguenza-pena sarà l’essere “ramingo e fuggiasco”, fuori della società, lontano dal terreno coltivato. Caino “erra” nel paese del Nord, un vocabolo che in ebraico allude appunto al “vagare” qua e là senza meta. A questo punto si accendono in Caino il pentimento e la pau­ra. Egli si sente solo e indifeso, emarginato e senza la pro­tezione della famiglia o della tribù. Si spiega così, in modo religioso, una prassi sociale o un qual­che segno caratteristico tribale di cui si vuole ritrovare l’ori­gine. Caino se ne va, dunque, ramingo con quel segno che non è certo da intendere in senso razzista o vendicativo. Anzi, dopo aver condannato il peccatore, Dio non lo abbandona al suo des­tino ma lo tutela accogliendolo sotto la sua suprema giurisdi­zione a cui appartengono tutte le vite, anche quelle dei crimi­nali. Si passa pertanto dall’ambiente semplice e primitivo si è passati ad una so­cietà più progredita. La vendetta non deve conoscere limiti. Dio puniva l’ingiustizia contro Caino “sette volte”, cioè in modo perfetto (secondo il simbolismo dei numeri), Il “settantasette” volte indica un numero infinito. Questo canto della violenza fa risaltare l’equilibrio della legge del taglione che regolava in parità le tensioni (“occhio per occhio, dente per dente”). Ma soprattutto, fa brillare il detto di Cristo che allude proprio a questo passo. Pietro è pronto a perdonare fino a sette volte; Gesù replica: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Mt. 18, 21-22).
LA POLIGAMIA.   Nel progetto originario di Dio, però, esisteva il solo matrimo­nio monogamico. La poligamia viene, perciò, considerata dalla Bibbia come conseguenza del peccato da caino nasce Enoch ENOCH, occupa un posto di rilievo nella tradizione biblica. I suoi anni (365) corrispondono al numero dei giorni del calen­dario solare; la sua vita è caratterizzata da uno speciale rap­porto con Dio (“camminò con Dio”);  Nel “Libro di Enoch” (testo giudaico apocrifo del II sec. a.C.) viene descritto il suo “rapimento” in cielo e vengono presentate le rivelazioni che egli ebbe sul futuro di Israele e dell’umanità.
Adamo ed Eva  diventano genitori di un nuovo figlio, SET, il cui nome è spiegato libera­mente nell’invocazione successiva:  Dio ha dato (in ebraico Shet (Set) e shat “dare”, “accordare”). Set, “dono di Dio”, sostituisce la perdita di Abele. Set, genererà Enos, che in ebraico è un altro termine per de­signare “uomo fragile e debole”. Il racconto si chiude con la descrizione delle origini del culto: il nome di Jahwè (Signore) fu rivelato solamente più tardi, ma l’autore della tradizione Jahwista usa questo nome fin da principio identificando così, esplicitamente, il Dio di Israele con il Creatore.Forse l’autore sacro Jahwista vuole dirci (v. 26b) che l’uo­mo era in grado di adorare l’unico Dio fin da principio.
tratto da Don Antonio Schena

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