Cari fratelli, siamo nel mese di Maggio,
il mese scelto per molti sacramenti o comunque tra i piu’ importanti per me: In
questi due mesi ci saranno le Prime
Confessioni, le Prime comunioni, i matrimoni e chissà quanti bambini verranno
affidati al Signore attraverso il loro Battesimo, è il mese della Madonna l’8
Maggio è’ dedicato alla Madonna di Pompei e il 13 alla Madonna di Fatima dove quest’anno ricorre il Suo centenario anche
io affido quest’anno la vita dei miei figli impegnati in due Sacramenti diversi
alla loro Madre Celeste, colei che non sbaglia come faccio io, colei che può
seguirli ovunque e in questo mese che voglio dedicare questo libro di Don
Leonardo Maria Pompei affinché
ognuno di noi possa avere chiaro l’importanza de
“I SETTE SACRAMENTI”
Oggi la Chiesa cattolica vive una crisi di fede, crisi di fervore, crisi di Santità motivata da una generalizzata perdita di
percezione del ruolo primario e fondamentale dei sacramenti, come strumenti unici e ordinari di
comunicazione della Grazia. Il nostro Redentore, nel Vangelo di san
Giovanni, ha lapidariamente sentenziato: “senza di Me non potete fare nulla”
(Gv 15,5). Vuol dire che senza la Divina Grazia l’uomo non è capace di compiere
alcuna azione utile alla salvezza. Nulla, cioè, di realmente e totalmente buono e
soprannaturalmente meritorio. Ma la Grazia, meritata da Gesù per tutto il
genere umano con la sua Passione e Morte, giunge all’uomo solo attraverso il
canale dei sacramenti, ricevuti con le debite disposizioni. Senza sacramenti e,
sopratutto, senza sacramenti ben ricevuti e celebrati non c’è vita di Grazia,
non c’è regno di Dio.
Questi appunti vogliono diventare guida per conoscere e vivere la grandezza e l’importanza
formidabile dei sacramenti nella vita della Chiesa e dei cristiani e si propone
di aiutare i fedeli a riceverli con le migliori disposizioni, perché copiosi e
splendidi siano i frutti che da essi sgorgano nelle anime, per la gloria di Dio
e il bene della Chiesa e del mondo. I sette sacramenti vengono presentati alla
luce del Magistero della Chiesa, unica vera lampada che brilla anche in tempi
oscuri indicando la rotta della sana dottrina di sempre da conoscere, seguire e
vivere.
Cosa è un sacramento?
sant’Agostino di Ippona lo definisce “segno di una realtà sacra in
quanto santificante gli uomini”. Pertanto
esso e’ segno efficace di grazia. Come afferma sant’Agostino, “la parola raggiunge l’elemento e ne fa un sacramento”. In questo senso ogni sacramento può e deve essere
compreso come “espressione” sia del Verbo incarnato, in quanto Parola unita ad una
carne sensibile, che dell’uomo, in quanto anima unita ad un corpo sensibile.
Ogni sacramento presenta un triplice aspetto costitutivo: è segno
1. commemorativo, inerente alla causa efficiente del sacramento, cioè la Passione
di Cristo, avvenuta nel passato di cui si fa ricordo;
2. dimostrativo, inerente all’efficacia attuale del sacramento in ordine al
conferimento della grazia (res) e della forza (virtus) del sacramento (effetto);
3. E’ segno, infine, prognostico ( o profetico), inerente al fine ultimo di ogni sacramento che è l’acquisto
della gloria, di cui è preannunziatore.
Il duplice fine inerente a ogni sacramento è togliere il peccato e
perfezionare l’anima in ciò
che riguarda il culto di Dio secondo la religione cristiana.
Nessun altro!
Ogni sacramento è efficace “ex opere operato”, cioè per il fatto stesso che l’azione
sacramentale venga compiuta (con l’intenzione di fare ciò che fa
la Chiesa), dal ministro
proprio del sacramento, con le parole corrette (la formula esatta)
e con la materia adatta. In questo senso ogni sacramento può e deve dirsi causa
strumentale di grazia (la causa
principale è Dio e Dio solo), cioè è usato per produrre la grazia in base ad una disposizione divina, che
determina in modo inderogabile sia la materia che la forma dei sacramenti. La grazia
è l’effetto principale dei sacramenti.
I sacramenti sono sette
Fu il Concilio di Firenze (1438-1445) a dare una compiuta ed
esaustiva dottrina sui sette
sacramenti, un secolo prima delle ulteriori importanti definizioni
in chiave antiluterana
del Concilio di Trento (1545-1563).
Viene anzitutto definito il settenario dei sacramenti della nuova
alleanza e precisata la
differenza tra i sacramenti istituiti da Cristo e quelli della
Legge antica: “I sacramenti della
nuova legge sono sette: Battesimo, Confermazione, Eucaristia,
Penitenza, Estrema
Unzione, Ordine e Matrimonio. Essi sono molto differenti dai
sacramenti della legge
antica, quelli infatti non producevano la grazia ma indicavano
solo che questa sarebbe
stata data per la passione di Cristo. I nostri invece contengono in sè la grazia
e la comunicano a chi li riceve degnamente. Di essi, i primi 5 sono ordinati alla perfezione individuale di ciascuno, i due ultimi, al governo e alla
moltiplicazione di tutta la Chiesa” (Denz 1310). In queste parole è sintetizzata tutta l’importanza
straordinaria e unica dei sacramenti: contengono la grazia e realmente
la comunicano a chi li riceve con le debite disposizioni. Sono dunque il cuore assolutamente necessario e insostituibile
della vita e del cristiano. Sono sette e tutti parimenti
necessari per i fini particolari che realizzano.
Subito dopo, il Concilio specifica sinteticamente gli effetti che
produce ciascun sacramento: “Col
battesimo, infatti, noi rinasciamo spiritualmente. La confermazione aumenta
in noi la grazia e ci fortifica nella fede. Rinati e fortificati, siamo nutriti
col cibo della divina eucarestia. E se col peccato ci ammaliamo nell'anima, con
la penitenza veniamo spiritualmente guariti. Spiritualmente - e, se giova
all'anima, anche corporalmente – ci guarisce l'estrema unzione. Con l'ordine la
Chiesa è governata e moltiplicata
spiritualmente; col matrimonio cresce materialmente” (Denz 1311).
Si specifica, inoltre che ogni sacramento presenta tre elementi costitutivi:
1. la materia (o segno sensibile),
2. la forma (formula con cui il sacramento deve essere
amministrato) e il
3. ministro abilitato a celebrarlo. “Tutti questi
sacramenti constano di tre elementi: cose come
·
materia,
·
parole come forma,
·
la persona del ministro che
conferisce il sacramento, con l'intenzione di fare quello che fa la Chiesa.
Se manca uno di questi elementi, il sacramento non si compie”
(Denz 1312).
Il Concilio di Firenze pone anche la distinzione tra
sacramenti indelebili, cioè che non si possono mai ripetere perché lasciano
un carattere indelebile e
sono :
v Battesimo: dona il carattere del sacramento di cristiano,
v Cresima: dona il carattere del soldato di cristo
v E Ordine
Sacro: di ministro di Cristo (diaconato), sacerdoti di Gesù” il presbiterato,
“sommi sacerdoti” l’episcopato
essi imprimono indelebilmente nell'anima il carattere, ossia un
segno spirituale che
distingue dagli altri. Gli altri quattro sono chiamati sacramenti ripetibili perche’ possono
ripetersi” (Denz. 1313).
I sette sacramenti nel Concilio di Trento
Il Concilio di Trento (1545-1563), tuttavia, contiene
la più completa, esauriente e dettagliata dottrina su di essi che mai sia stata
elaborata nel corso della storia della Chiesa. È noto che esso fu convocato per
reagire al poderoso attacco frontale al cuore della Chiesa cattolica sferrato
dalla riforma protestante, a partire da Lutero e Melantone per terminare con
Calvino. Lutero negò l’esistenza dei sette sacramenti, riconoscendone solo due (battesimo
ed eucaristia) e formulando sul secondo una dottrina largamente eretica, che travisava
il vero senso della presenza reale di Gesù nell’eucaristia e negava il valore realmente sacrificale della santa Messa che ne costituisce il nucleo
assolutamente essenziale. Il Concilio emanò dapprima il decreto sulla
giustificazione (già, a suo tempo, esaminato) e poi un decreto generale sui
sette sacramenti. Successivamente si occupò, nel particolare, di tutti i
sacramenti e del santo sacrificio della Messa, con eccezione del sacramento del
Battesimo di cui aveva già ampiamente spiegato la natura nei decreti sul
peccato originale e sulla penitenza e per il quale dedica alcuni canoni nel decreto
generale sui sacramenti, si afferma che
I.
i sacramenti sono 7
II.
sono stati istituiti da nostro
Signore Gesù Cristo. Sono sacramenti veri e propri, non semplici sacramentali.
L’affermazione è importantissima perché un sacramento è un’azione di Cristo
stesso che è efficace indipendentemente
dalla fede del ministro e del
destinatario del sacramento, mentre i sacramentali sono segni sacri compiuti
“in nome” (non “in persona”) di Cristo, la cui forza è totalmente dipendente
dalla fede di chi li amministra e di chi
li riceve.
Per esempio: se un sacerdote battezza un bambino quel sacramento è
sempre valido, anche se il
sacerdote non crede a quel che fa e anche
se il padrino avesse una fede debole o
poco consistente. Ma una benedizione di
una casa è tanto più efficace e forte quanto il sacerdote crede in quello che
sta facendo e il padrone di casa la riceve con fede.
III.
Seppur tutti sono veri sacramenti, ce n’è qualcuno
che ha maggiore dignità: si
riferisce ovviamente all’eucaristia, unico sacramento
in cui non solo c’è la grazia ma
l’Autore della grazia, cioè Gesù Cristo nostro Signore in persona.
IV.
Afferma la perentoria necessità
dei sacramenti per ottenere la grazia e – quando non fosse possibile riceverli
realmente – almeno il desiderio di essi, a testimonianza che l’uomo non può
salvarsi da solo, ma può ricevere la salvezza solo da Gesù Cristo. Inoltre,
tutte le altre forme di ricerca di Dio, tutte le buone opere o quant’altro si
possa fare da soli, anche se sono ben viste dall’Altissimo non possono mai e in
nessun modo surrogare il bisogno di essere salvati dall’unico Signore e di essere
raggiunti e toccati realmente dalla salvezza da Lui operata attraverso l’unico
canale
che la veicola: appunto i sacramenti. Questi, pertanto non sono
meri “segni della fede” o
simboli, ma strumenti efficaci di comunicazione della grazia che
significano, per ottenere
la quale, ordinariamente, sono indispensabili.
Ecco perché bisogna essere
o
battezzati,
o
confessarsi per essere perdonati,
o
andare
a Messa per entrare in contatto salvifico con la Passione di Gesù,
o
comunicarsi per averlo nel cuore,
o
sposarsi in Chiesa per essere realmente una sola carne, etc.
L’efficacia dei sacramenti è sempre e per tutti garantita, purché,
ovviamente siano amministrati e ricevuti nel debito modo; cioè siano
amministrati dal ministro competente, con la forma esatta, la materia giusta e
se il destinatario abbia le debite disposizioni (stare in grazia di Dio per i
cinque sacramenti “dei vivi”: eucaristia, cresima, ordine, matrimonio e
unzione; pentimento reale e confessione integra per la penitenza. Il battesimo
è un caso “a parte”).
V. Questa efficacia certa e
oggettiva dei sacramenti, a prescindere dalla fede soggettiva di ministro e
destinatario, si chiama, con espressione tecnica “ex opere operato”, che significa “per il fatto stesso che l’azione (in
questo caso il sacramento) sia posta in essere”.
VI. l’irripetibilità dei
tre sacramenti in cui si usa il sacro crisma e che imprimono nell’anima un
“carattere indelebile” che perdura per tutta l’eternità, a prescindere dalla
salvezza o dannazione dell’anima che lo riceve. Il “carattere” è un segno spirituale
indelebile, una sorta di “mistico tatuaggio” che si imprime nell’anima,
conferendole una caratteristica che non può mai essere tolta o cancellata
VII. Non tutti i cristiani
(come vorrebbero le comunità protestanti) hanno il potere
di annunciare la parola di Dio e amministrare i sacramenti,
essendo questo riservato a chi
riceve il sacramento dell’ordine sacro. In particolare si diventa
ministri della Parola col
diaconato, di alcuni sacramenti col presbiterato (tutti meno la
cresima e l’ordine sacro), di
tutti i sacramenti con l’episcopato. Perché un sacramento sia
valido, si richiede nel
ministro, a livello interiore, solo una cosa: l’intenzione “di
fare quello che fa la Chiesa”,
che, in parole povere, significa l’intenzione di celebrare sul
serio (non per scherzo) quel
sacramento così come è celebrato nella Chiesa cattolica. Tutto
qui, ma questo poco, deve essere presente per la validità del sacramento. L’ eventuale condizione di peccato mortale da
parte del ministro celebrante non influisce minimamente sulla sua validità. Per
cui, come diceva sant’Agostino, “se Giuda battezza, è sempre Cristo che
battezza”. Infine
i riti tramandati e approvati dalla Chiesa cattolica non possano
essere disprezzati o
tralasciati a discrezione da chi amministra il sacramento, o cambiati da qualsiasi pastore ecclesiastico con altri nuovi
riti.
IL BATTESIMO
Il battesimo dei bambini
Le principali questioni dottrinali a cui la Chiesa cercò di dare
autorevole furono circa
La validità del battesimo amministrato dagli eretici e circa la
questione del battesimo “di
necessità”, compresa l’importante questione del battesimo dei
bambini su cui ebbe a
pronunciarsi espressamente nel 385 Papa Siricio in questi termini:
“desideriamo che i
bambini – che a motivo della loro età non possono ancora parlare –
o coloro che, per
qualsiasi necessità, hanno bisogno dell’acqua del santo Battesimo,
vengano soccorsi il più
presto possibile, per timore che – se uno lasciasse questo mondo
privo del regno e della
vita per il fatto che gli è stata rifiutata la sorgente della
salvezza da lui desiderata – questo
conduca a rovina le nostre anime” (Denz. 184). L’affermazione è
importante sia perché
testimonia la prassi molto antica, già ampiamente diffusa del
Battesimo dei bambini e poi perché conferma la dottrina di origine evangelica
circa la perentoria necessità del battesimo per la salvezza. Gesù, al riguardo
disse: “se uno non rinasce da acqua e da Spirito Santo non può entrare nel
regno di Dio” (Gv 3,5) ed anche: “andate in tutto il mondo e predicate il
Vangelo ad ogni creature: chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi non
crederà sarà condannato” (Mc16,15-16). Il Pontefice, in questo senso, non fa
altro che confermare ciò che da sempre si era “sentito” e praticato nella
coscienza della Chiesa.
Sul tema del battesimo dei bambini, peraltro, sarebbe dovuto
nuovamente tornare in modo
autorevole Papa Innocenzo III nel 1201, rispondendo al vescovo di
Arles Imberto che
chiedeva al Pontefice indicazioni riguardo alle disposizioni
necessarie per accedere al
sacramento del battesimo nonché chiarimenti circa i suoi effetti.
Il tema è di forte attualità,
perché alcune delle obiezioni alle quali il Papa dovette
rispondere riguardano la supposta
inutilità di battezzare un bambino oppure la illegittimità di
conferire un sacramento senza
(o, peggio, contro) la libertà di chi lo riceve, come evidentemente
accade nel battezzare una creatura priva dell’uso della ragione. E’ bene
pertanto mettersi attentamente in ascolto
delle acute risposte e argomentazioni del Pontefice. “Alcuni,
infatti, affermano che è
inutile dare il battesimo ai bambini… Noi rispondiamo che il
battesimo è succeduto alla
circoncisione… perciò, come l’anima di colui che era stato
circonciso non veniva eliminata
dal suo popolo (cf Gen 17,14), così anche colui che è rinato dall’acqua
e dallo Spirito Santo ottiene l’ingresso nel regno dei cieli […]. Occorre poi
distinguere un duplice peccato:
quello originale e quello attuale. L’originale si contrae senza
consenso e l’attuale si
commette con consenso. Perciò, l’originale che viene contratto
senza consenso, viene anche rimesso senza consenso per la forza del sacramento.
L’attuale, invece, che si contrae con consenso, non viene affatto rimesso senza
consenso. La pena del peccato originale è la privazione della visione di Dio;
invece la pena del peccato attuale è il supplizio eterno della Geenna” (Denz
780).
La portata dottrinale di queste affermazioni è straordinariamente
rilevante. Battezzare un
bambino non è affatto inutile, perché senza il battesimo il
bambino, qualora dovesse
morire, va incontro alla privazione della visione di Dio, ossia non può, come afferma
espressamente Gesù e come vi allude Innocenzo III, “entrare nel
regno di Dio”. Con il
battesimo, infatti, non solo si realizzano i limitati effetti
dell’ebraica circoncisione, che ne
era la prefigurazione storica tipologica, ma viene realmente
infusa la grazia santificante
realizzandosi la rinascita dall’acqua e dallo Spirito Santo.
Inoltre non si realizza nessuna
violazione della libertà della persona né si amministra
invalidamente un sacramento
mancando il consenso del diretto interessato. Come, infatti, la
colpa di origine viene
trasmessa senza il consenso della creatura concepita, così il
sacramento che la toglie non
necessita del consenso del suo destinatario. E come sarebbe
assurdo parlare di “libertà
violata” per il fatto di essere stati macchiati della colpa di
origine, allo stesso modo lo
sarebbe nel caso vi si ponga, con questo sacramento, rimedio.
Sarebbe come se per curare un bambino, affetto da malformazione congenita
bisognasse aspettare che esprimesse il proprio consenso alle cure! Essendo la
colpa d’origine una mortale infermità dell’anima, non solo è lecito e
opportuno, ma è addirittura doveroso intervenire quanto prima perché essa sia
sanata e guarita e ne siano scongiurate le pestifere e nefaste conseguenze.
Concilio di Firenze (1438-1445)
“Primo di tutti i sacramenti è il battesimo, porta d’ingresso alla
vita spirituale; per mezzo
di esso diventiamo membra del Cristo e del Corpo della Chiesa […].
Materia di questo
sacramento è l’acqua pura e naturale, non importa se calda o
fredda. La forma sono le
parole: ‘Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo’ […]. Ministro di
questo sacramento è il sacerdote, cui, per ufficio, compete
battezzare; ma in caso di
necessità può amministrare il battesimo non solo un sacerdote o un
diacono, ma anche un
laico, una donna e persino un pagano o un eretico, purché usi la
forma della Chiesa e
intenda fare ciò che fa la Chiesa. Effetto di questo sacramento è
la remissione di ogni colpa originale e attuale e di ogni pena relativa. Non si
deve, quindi, imporre ai battezzati
nessuna penitenza per i peccati precedenti al battesimo e quelli
che muoiono prima di
commettere qualche colpa sono subito accolti nel regno dei cieli e
ammessi alla visione di
Dio” (Denz 1314-1316).Dal tenore di quanto appena citato, si
comprende anzitutto l’indispensabilità di questo sacramento alla salvezza
dell’anima, cosa che giustifica il fatto che ministro straordinario di questo
sacramento possa essere addirittura un pagano. In caso di necessità, infatti,
basta versare un po’ d’acqua sul capo di una creatura, pronunciando la formula
sopra riportata con l’intenzione di “fare ciò che fa la Chiesa” (formula tecnica
che indica semplicemente la necessaria presenza, nel ministro, della volontà di
amministrare il battesimo così come viene conferito dalla Chiesa, escludendo,
per esempio, l’intenzione di farlo per scherzo o per far diventare il
battezzato membro di una chiesa non cattolica), che tutti gli effetti del battesimo
si producono. La seconda cosa da notare è che solo con questo sacramento vengono
rimessi non solo tutti i peccati (originale e, se presenti, attuali, cioè quelli commessi
con coscienza e volontà) ma anche tutte le pene dovute per i peccati, di modo che
non è necessaria alcuna penitenza da parte del battezzato. Questo rilievo è di
estrema importanza perché molti attaccano il sacramento della confessione
dicendo che è assurdo dare una penitenza se c’è il perdono dei peccati, anche
perché Gesù Cristo ha già sufficientemente pagato per tutti. L’obiezione non è
del tutto peregrina, ma vi si risponde proprio comprendendo bene l’insegnamento
sul Battesimo. Dice infatti san Tommaso che nostro Signore una sola volta è morto in croce per i peccati. Quindi una sola volta i meriti infiniti del suo sacrificio vengono
comunicati in pienezza e totalità, ovvero per la remissione di tutti i peccati e di tutte le pene. Ma
siccome Cristo risuscitato dai morti non muore più, se il battezzato commette
nuovi peccati, la volontà divina consente di ricorrere al valore infinito del
sacrificio di Cristo solo per rimettere le colpe (qualunque colpa, fosse anche
gravissima, purché la si confessi con sincero pentimento), ma non le pene dovute al peccato. Conseguentemente il penitente
dovrà cooperare con il suo sforzo personale a purificarsi dalle scorie del
peccato e a pagare i debiti pendenti con la divina giustizia. Ed ecco perché
gli si impone una proporzionata e salutare soddisfazione sacramentale.
Concilio di Trento (1545-1563)
il Battesimo è un vero e proprio sacramento, a differenza del battesimo
di san Giovanni Battista che era solo un rito esteriore simbolico, un gesto di umiltà espressivo del proprio riconoscersi
peccatori e bisognosi di purificazione, ma non uno strumento efficace di comunicazione della grazia. Altrimenti, Gesù non si sarebbe fatto battezzare da
Giovanni. Il Battesimo, che realizza letteralmente quello che Gesù afferma nel Vangelo secondo Giovanni (cf Gv 3,3-7): una
vera e propria rinascita dall’Alto, causata dall’azione dello Spirito Santo (sacramentalmente unito all’acqua naturale)
che opera efficacemente la cancellazione di ogni peccato (originale e attuale)
e delle relative pene, nonché l’infusione
della grazia santificante,
delle tre virtù teologali e degli abiti di tutte le virtù cardinali,
intellettuali e morali. Il Battesimo è “necessario alla salvezza”.
Questo perché le parole di Gesù, in merito, sono quanto mai
eloquenti: nel Vangelo di san
Giovanni afferma che senza questa rinascita non si può “entrare
nel regno di Dio” (Gv 3,5)
e “vedere il regno di Dio” (Gv 3,3); nel Vangelo di san Marco che
“chi crederà e sarà
battezzato sarà salvo, chi non crederà sarà condannato” (Mc
16,16); e in quello di san
Matteo “andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni
creatura, battezzandoli nel
nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19).
L’estrema leggerezza con cui
si prendono in considerazione queste frasi nette e perentorie del
Nostro Salvatore sta
progressivamente provocando una chiara perdita di percezione
dell’importanza unica e
fondamentale di questo sacramento. Il ritardo sempre più
preoccupante con cui si
amministra il battesimo ai bambini ne è solo una delle tante spie.
Così come le scelte, assai stravaganti e assolutamente da biasimare, di coloro
che omettono di far battezzare i figli per lasciarli “liberi di scegliere
quando saranno grandi”, dimenticando che, purtroppo,
quando veniamo concepiti c’è già – purtroppo - qualcuno che ha
scelto noi e a cui l’anima
appartiene fino a quando questo sacramento non gliela toglie…
Dalla necessità del battesimo per la salvezza consegue
necessariamente che, senza una
qualche forma di contatto con esso, non è possibile raggiungere la
salvezza, ossia godere
della visione beatifica della Santissima Trinità e della compagnia
degli eletti. Si badi anche
che non è affatto necessario che il battezzando compia un atto di
fede personale, perché un bambino non può porlo in essere. Si viene battezzati
nella fede della Chiesa che il padrino o la madrina rappresentano ufficialmente
durante il rito e l'amministrazione del
sacramento, esercitando una vera e propria sostituzione vicaria
nei confronti nel
battezzando che in quella fede e per quella fede viene battezzato.
Non solo dunque si
devono battezzare i bambini, ma - come diceva l'immortale
catechismo di san Pio X -
occorre farlo il più presto possibile, non oltre i primi dieci
giorni di vita. Questo per due
motivi. Anzitutto perché in caso di morte accidentale o improvvisa
del piccolo si ha la
certezza assoluta del suo immediato ingresso in Paradiso. Ma anche
perché, come
semplicemente ed efficacemente insegnava ai suoi figli padre Pio
da Pietrelcina, fino a
quando non si riceve la grazia santificante e non viene tolta la
colpa d'origine, si è né più
né meno che "schiavi di satana". Un'anima non in grazia,
priva del battesimo, appartiene al nemico. Un bambino non battezzato, non
avendo colpe personali,
di certo non può essere trascinato da satana all'inferno, ma può
essere (e di fatto è) per
questo impedito di vedere Dio. Perché quel bambino rimane fermo nel Limbo
, lo si ricordi, l'espressione di Gesù è tassativa: se non si
rinasce da acqua e da Spirito Santo non si può entrare nel regno di Dio e non si può vedere il regno di Dio. Un qualche contatto sacramentale, pertanto,
ci deve essere. La tradizione della Chiesa, per le persone adulte e viventi, ha
in questo senso elaborato la dottrina del "battesimo di sangue" e del
"battesimo di desiderio" per rispondere alle situazioni in cui, pur
essendoci una chiara intenzione di volersi battezzare, non c'era stato il tempo
sufficiente per farlo. Così un catecumeno che subisse il martirio, insegnavano
i santi Padri, riceve il battesimo non nell'acqua, ma nel suo proprio sangue e certamente
è da annoverare tra i santi del cielo. Così un catecumeno che pur senza martirio
dovesse morire prima di ricevere il sacramento, sarebbe supplito dal suo desiderio
di essere battezzato, in quanto, proprio in quanto catecumeno, stava compiendo il
cammino di preparazione per quel battesimo che desiderava ricevere; ed essendo
la celebrazione del sacramento mancata per causa non imputabile alla libera
volontà del catecumeno, basta il desiderio di riceverlo per supplirne gli
effetti, come quando un peccatore si pente e muore prima di riuscire a
confessarsi. Vale, in questo caso, il principio per cui Dio opera
ordinariamente per mezzo dei sacramenti ma non ne è ad essi legato o da essi
irrimediabilmente condizionato. Anche il problema della possibilità di salvezza
di coloro che, senza colpa propria (si badi!), ignorano la necessità della Chiesa e del
battesimo per la salvezza, ma compiono il bene conosciuto dal dettame della
coscienza è da inquadrare in questa dottrina. La buona volontà equivale ad una
sorta di desiderio implicito del Battesimo che si sarebbe senz’altro ricevuto
se se ne fosse conosciuta la necessità. Che dire però dei bambini abortiti
spontaneamente o, peggio, volontariamente?
Nella dottrina c'è qui un vuoto che deve essere colmato.
Personalmente, ma questa è mia
opinione personale per cui se ne faccia l'uso che si crede, sono
fermamente convinto che ci deve essere una sorta di "battesimo di
desiderio" celebrato da uno dei genitori del bimbo abortito. Si tratta di
far celebrare una Messa con l'intenzione di dare alla creatura abortita gli
effetti del sacramento del battesimo, in forza del fatto che, se fosse nato, i
genitori lo avrebbero condotto al sacro fonte. In caso diverso, sempre a mio
parere, ci sono serissime probabilità che quelle creature non godano, almeno
nell’immediato, della visione beatifica. Fatto questo atto dai genitori (che
hanno l’autorità sulla propria creatura), si può a mio parere avere la certezza
morale che l'anima di quel bimbo sia divenuta una sorta di “angelo aggiunto”,
che prega per mamma e papà, li ringrazia per averlo concepito e fatto vivere
per la vita eterna e li attende in cielo per dir loro la sua filiale
gratitudine.
L’affermazione della necessità e della perfetta validità
del Battesimo dei bambini, a mio
parere, offre lo spunto per alcune importanti considerazioni sulla
dinamica e
sull’economia sacramentale. Anzi, sotto questo particolare aspetto, la
prassi della Chiesa
orientale è ancora, se possibile, più significativa e esplicativa.
il battesimo è talmente necessario alla salvezza che può, anzi deve essere amministrato a una
creatura del tutto ignara e incosciente, anche senza un suo atto di volontà o di richiesta. In Oriente, addirittura,
i tre sacramenti dell’iniziazione cristiana (battesimo, confermazione e eucaristia)
vengono conferiti simultaneamente: sì, anche la comunione, che viene amministrata all’infante con un cucchiaino
contenente il sangue di Cristo. Si comprende allora che il piano di azione dei
sacramenti – e quindi della Grazia – è prettamente spirituale, “sovracosciente” e insensibile. Si tratta di un’azione divina, operata da Dio in persona,
sulla sostanza stessa dell’anima che produce effetti straordinariamente
meravigliosi operati, appunto, dalla sola virtù divina (si ricordi: “ex opere operato”) senza
alcuna partecipazione o cooperazione da parte del soggetto
interessato. Effetti salutari e
necessari al bene spirituale della persona! Si badi che anche per
quanto riguarda i
sacramenti conferiti agli adulti, la dottrina non cambia. Devono
certamente essere ricevuti
con le “debite disposizioni”, ma la loro mancanza non impedisce che l’effetto spirituale del
sacramento, sia, di per sé, sempre e comunque attivo. Siamo salvati
solo dai sacramenti, perché solo in essi è contenuta la forza
salvifica procurataci dalla redenzione operata da Cristo, Unico Salvatore
dell’uomo.
LA CRESIMA O CONFERMAZIONE
Concilio di Firenze (1438-1445)
“Il secondo sacramento è la confermazione, la cui materia è il
crisma, benedetto dal
vescovo, composto di olio, ad indicare lo splendore della
coscienza e di aroma, ad indicare il profumo della buona fama […]. Ministro
ordinario è il vescovo.
Questa unzione può conferirla solo il vescovo, perché solo degli
apostoli, di cui i vescovi fanno le veci, si legge che davano lo Spirito Santo
con l’imposizione delle mani […]. E la confermazione, nella Chiesa, tiene
proprio il luogo di quell’imposizione delle mani [di cui in At 8,14-17]. […] Effetto di questo sacramento è che il cristiano
possa coraggiosamente confessare il nome di Cristo; infatti per mezzo suo viene
conferito lo Spirito Santo per rendere forti, come agli apostoli il giorno di
Pentecoste. Perciò il confermando viene unto sulla fronte, dove alberga il
senso di vergogna, perché non arrossisca nel confessare il nome di Cristo e
soprattutto la sua croce, che, secondo l’Apostolo, è scandalo per i Giudei e
stoltezza per i pagani, per cui viene segnato col segno della croce” [Denz.
1317-1319].
Questo sacramento segna la piena incorporazione alla Chiesa di
Cristo fondata sulle
colonne dei dodici apostoli ed anche la ricezione di
quell’effusione dello Spirito Santo che
avviene – in forma sacramentale, come sigillo del battesimo già
ricevuto – soltanto
attraverso l’imposizione delle mani del Vescovo che possiede la
pienezza del sacerdozio ministeriale. Con questo sacramento il cristiano sia abilitato
alla confessione del nome di Cristo: essa va fatta anzitutto emanando il “profumo”
delle virtù, ma anche con la professione pubblica della propria appartenenza a Cristo
e alla Chiesa, senza alcuna vergogna, ma anzi con vera fortezza e sana
fierezza.
Basterebbe questo per comprendere quanto ci sia da preoccuparsi
del fatto che qualcuno,
negli ultimi tempi, notando come moltissimi ragazzi lasciano la chiesa
e la frequenza ai
sacramenti proprio dopo aver ricevuto la Cresima, lo abbia
ironicamente definito
“sacramento dell’addio”. È infatti a dir poco grottesco che
proprio nel momento in cui si
diventa capaci di professare Cristo, si smetta addirittura di
frequentare Lui (nei
sacramenti) e la comunità dei suoi discepoli che è la Chiesa! Un
dato, questo, di cui dolersi non poco e su cui riflettere e pregare, ma che ci
fa amaramente comprendere quanto grande sia al giorno d’oggi, lo smarrimento
della rette fede e la perdita di percezione della grandezza e serietà dei
sacramenti.
Il fondamento biblico della confermazione, , si trova infatti nella Sacra Scrittura, in
particolare negli Atti degli Apostoli (At 19,1-7). Quando san Paolo giunse ad
Efeso, trovò dodici uomini che“ non avevano nemmeno sentito dire che ci sia uno
Spirito Santo”. Avevano ricevuto il battesimo di san Giovanni Battista, per cui
Paolo anzitutto li battezzò nel nome della Santissima Trinità e, dopo averli battezzati, impose loro le mani: solo in quel momento lo Spirito Santo scese su questi dodici
uomini. Un gesto, dunque, sacramentale distinto compiuto dall’Apostolo delle genti, che fa
comprendere che l’effusione dello Spirito Santo è fenomeno diverso dall’infusione della Grazia santificante che avviene nel
Battesimo. Quando poi si comprese (assai presto!) l’importanza e la necessità di battezzare i bambini, la
Cresima cominciò a chiamarsi anche con il nome di Confermazione, a
significare un duplice evento oggettivo e soggettivo che con essa si compie. La
discesa dello Spirito Santo sul candidato, che conferma e rafforza la grazia
infusa nel Battesimo, aggiungendovi il peculiare carattere di rendere il
cresimato capace di testimoniare, con la parola e la vita, la fedeltà a Gesù e al vangelo (aspetto oggettivo);
la soggettiva ratifica dei voti e delle promesse battesimali, fatta liberamente
e consapevolmente dal candidato che, acquisito l’uso della ragione, può
e deve scegliere di osservarli
facendo proprio ciò che – a suo tempo – il padrino o la madrina promise per lui (dimensione soggettiva).
Un sacramento dunque ben distinto e con una grazia specifica, propria e
particolare. L’obiezione confutata dal concilio di Trento (1545- 1563)
dal primo canone, il quale afferma che la Cresima sia un vero e
proprio sacramento e non una verifica della propria fede davanti alla Chiesa, peraltro,
fa riferimento a ciò che possiamo considerare una sorta di prefigurazione
veterotestamentaria della Cresima, che era il particolare rito della “barmitzvàh” (“figlio della legge”) in uso presso gli Ebrei e a cui anche nostro Signore
in persona sembra essersi sottoposto come fa pensare l’episodio, narrato da san Luca,
del suo smarrimento e ritrovamento nel Tempio all’età di dodici anni. Proprio a questa età i genitori erano obbligati a
portare al Tempio il proprio figlio, per sottoporlo a tale rito, che consisteva
in un esame meticoloso e dettagliato, fatto dai rabbini e dai sacerdoti, circa
la conoscenza che il ragazzo avesse della dottrina, della liturgia e della legge
ebraica. Se il candidato superava l’esame, veniva appunto dichiarato “figlio della legge”, cioè responsabile davanti a Dio ed
agli uomini dei suoi atti, in una sorte di acquisizione della maggiore età dal punto di vista morale e
religioso, liberando il padre da ogni responsabilità per l’operato del figlio. Tuttavia,
come ben insegna san Tommaso d’Aquino sulla scia della dottrina contenuta nella
lettera agli Ebrei, questi riti ebraici, che avevano una loro dignità ed efficacia peculiare fino al
tempo della nuova Alleanza, erano ombre e prefigurazione della pienezza e della
realtà operata dai sette sacramenti. E se certamente l’aspetto soggettivo della
confermazione può vedersi prefigurato in questa cerimonia ebraica, ciò che manca è proprio il fatto oggettivo di una
reale trasmissione di una grazia particolare dello Spirito Santo, che invece si
attua nella Cresima. Un discorso analogo vale, mutatis mutandis, per il battesimo di san Giovanni Battista. Quel
battesimo era un simbolo e un segno di penitenza e di purificazione, nonostante
la viva somiglianza con il nostro battesimo; ma solo quest’ultimo conferisce il perdono dei
peccati e l’infusione della grazia santificante. Così solo la reale ricezione del sacramento
della Cresima corrobora definitivamente lo stato di “figlio di Dio” del cresimando, lo incorpora
perfettamente alla Chiesa e lo rende “soldato di Cristo”, capace di rendere ragione della sua fede, di viverla
e difenderla con la parola e con i fatti e, se necessario, anche col martirio.
Proprio per questa piena incorporazione a Cristo e alla Chiesa che avviene con
questo sacramento, ne consegue che il ministro ordinario deve necessariamente
essere il vescovo e che solo coloro a cui egli delega – come può – il mandato di amministrarlo, lo
conferiscono in maniera lecita e legittima.
L’EUCARISTIA
Le prime dichiarazioni dottrinali
Papa Innocenzo III, grande Pontefice, oltre che sul sacramento del
Battesimo intervenne anche a difesa della presenza reale di Gesù nell’eucaristia,
utilizzando per la prima volta il termine “transustanziare” ed affermando che le parole “mistero della fede” pronunciate dal
sacerdote nella consacrazione non devono intendersi nel senso che alluderebbero
ad una sorta di mistero rievocato in modo simbolico, ma si dicono “perché ciò che
ivi si crede è differente da ciò che si vede e ciò che si vede è differente da ciò che si crede.
Infatti si vede l’apparenza del pane e del vino e si crede la realtà della
carne e del sangue di Cristo” (Denz 782). Gli stessi concetti furono ribaditi,
contro gli Albigesi e i Catari dal Concilio Lateranense IV (1215), che
nuovamente intervenne affermando la realtà della transustanziazione del pane e
del vino eucaristici nel vero corpo e sangue di Cristo. Anche il Concilio di
Costanza (1414-1418) si preoccupò di condannare le posizioni dell’eretico
Wyclif che erano vere anticipazioni di quelle luterane,
minimizzando e alterando la radiosa dottrina cattolica
sull’eucaristia.
Concilio di Firenze (1438-1445)
“Il terzo sacramento è l’eucaristia, la cui materia è il pane di
frumento e il vino di uva, al
quale prima della consacrazione deve aggiungersi qualche goccia
d’acqua […]. Questo sta anche a significare l’effetto di questo sacramento, che
è l’unione del popolo cristiano a
Cristo […]. E papa Giulio dice: ‘Il calice del Signore deve essere
offerto, secondo le
disposizioni dei canoni, con acqua e vino mescolati, perché
nell’acqua si prefigura il
popolo e nel vino si manifesta il sangue di Cristo […] e il popolo
fedele si congiunge e si
unisce con colui nel quale crede […]. Forma di questo sacramento
sono le parole con cui il
Salvatore l’ha consacrato. Il sacerdote, infatti, consacra
parlando in persona di Cristo. E in
virtù delle stesse parole la sostanza del pane si trasforma in
Corpo di Cristo e la sostanza
del vino in sangue. Ciò avviene però in modo tale che tutto il
Cristo è contenuto sotto la
specie del pane e tutto sotto la specie del vino e, se anche
questi elementi venissero divisi
in parti, in ogni parte di ostia consacrata e di vino consacrato
vi è tutto il Cristo. Effetto di
questo sacramento, che si opera nell’anima di chi lo riceve
degnamente, è l’unione
dell’uomo a Cristo. E poiché per la grazia l’uomo viene
incorporato al Cristo e unito alle
sue membra, ne consegue che questo sacramento, in coloro che lo
ricevono degnamente,
aumenta la grazia e produce nella vita spirituale tutti gli
effetti che il cibo e la bevanda
materiale producono nella vita del corpo, cioè lo alimentano e lo
fanno crescere, lo
ristorano e gli procurano piacere. In questo sacramento, come dice
papa Urbano IV,
facciamo memoria con animo grato del nostro Salvatore, siamo
distolti dal male, confortati
nel bene e progrediamo in virtù e grazia” (Denz 1320-1322).
Il gesto di unire l’acqua al vino prima della consacrazione è importantissima perché
viene significata e simboleggiata l’unione di Cristo con la Chiesa
e quindi il fatto
che il sacrificio eucaristico è, sempre e imprescindibilmente,
sacrificio di Cristo e della
Chiesa, come del resto emerge dalle parole che, anche nel novus Ordo del rito della Messa, accompagnano il rito e che il
sacerdote recita sottovoce: “l’acqua unita al vino sia segno della nostra
unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”.
Il Concilio fa propria, anche senza usare il termine tecnico
“transustanziazione” la dottrina Tommasiana, spiega la presenza reale di Cristo
nel pane e nel vino consacrati attraverso il miracolo del cambiamento della sostanza
dell’uno e dell’altro nella sostanza “corpo e sangue di Cristo”. Infine si
spiega, egregiamente, che l’eucaristia rappresenta per l’anima ciò che il cibo
rappresenta per il corpo, alludendo addirittura al piacere (!) che causa
l’accostarsi alla divina eucaristia. Si pensi a quante anime, disgraziatamente,
sono ridotte in stato di vera e propria denutrizione, a causa dell’oblio e
della trascuratezza di molti battezzati nei confronti di questo eccelso sacramento,
nonché alla perdita della capacità di gustare gli elevati “diletti dello
spirito” che è direttamente proporzionale a quanto l'uomo si abbassa, si
avvilisce e si abbrutisce ricercando e immergendosi nei piaceri più bassi.
Concilio di Trento (1545-1563)
La luminosa dottrina conciliare su questo aspetto così importante
della fede cattolica
conserva non solo – come è ovvio – tutta la sua perenne e
imperitura validità e verità, ma
anche delle ferme
affermazioni contro l’eresia e in favore dell’ortodossia del proemio. (Denz 1635) In tempi successivi sono stati fatti otto paragrafi a contenuto dogmatico
dottrinale, che si occupano rispettivamente:
1.
di proclamare la presenza vera,
reale e sostanziale di Gesù nostro Signore nel divino sacramento della
santissima eucaristia (§ 1, Denz 1636-1637); di
·
spiegare la ragione per cui
nostro Signore istituì questo santissimo sacramento, cioè darsi come cibo
spirituale delle nostre anime, essere liberati dalle colpe quotidiane e
preservati dai peccati mortali (§ 2, Denz 1638);
·
di illustrare la singolare
eccellenza di questo sacramento su tutti gli altri, perché è l’unico che, oltre
a veicolare alcune grazie (come tuttii sacramenti), contiene in sé l’Autore
della Grazia stessa (§ 3, Denz 1639-1641); di evidenziare il
modo del tutto particolare con cui la presenza reale di Gesù si dà nel sacramento
dell’altare, cioè attraverso la transustanziazione, che significa conversione di tutta la sostanza del pane e del vino
nelle sostanze di vero corpo e sangue di Gesù (§ 4,Denz 1642); di mostrare il culto dovuto a questo
sacramento, vero culto di latria che comporta il dovere di adorare sempre,
interiormente ed esteriormente il Nostro Unico Vero Dio e Salvatore, ammonendo
di guardarsi dall’ipotesi paventata “di abolire i tabernacoli”, essendo
antichissima la loro istituzione il loro uso a fine di conservazione della “riserva eucaristica” (§
5, Denz 1643-1644); di raccomandare la doverosa preparazione
per ricevere questo sacramento, di modo che si possa dire con san Paolo: Amen,
senza “se”, senza strascichi e senza “ma” (§ 7, Denz 1645); infine sancisce la netta distinzione tra
comunione sacramentale e comunione spirituale (§ 8, Denz 1648-1650).
E perché un così grande sacramento non sia ricevuto indegnamente
e, quindi, a morte e a condanna, lo stesso santo Sinodo stabilisce e dichiara che
quelli che hanno la consapevolezza di essere in peccato mortale, per quanto
essi credano di essere contriti, se vi è un confessore, devono necessariamente
premettere la confessione sacramentale.
La dottrina tridentina sul sacramento dell’eucaristia è davvero un
faro di luce sfolgorante
e sarebbe molto bello poter vedere che i riflessi di tale
luminosità tornassero a brillare un
po’ di più sui cieli della santa Chiesa, specie in questi tempi di
reiterate e gravissime
irriverenze e profanazioni verso Gesù eucaristia. La fede della
Chiesa afferma che in
questo sacramento è contenuto veramente, realmente (cioè non in modo apparente o simbolico) e sostanzialmente (cioè attraverso la sostanza del corpo e del sangue,
non attraverso le membra fisiche, che ora si trovano in cielo alla destra del
Padre) lo stesso nostro Signore Gesù Cristo. È condannata esplicitamente
qualunque dottrina riduttiva che esca da questo fortissimo realismo. Per cui le
dottrine moderne della transignificazione e transfinalizzazione non possono affatto essere presentate come una
lettura aggiornata del modo con cui Gesù è presente nell’eucaristia, ma sono
formalmente (oltre che materialmente) eretiche. La prima in quanto coglie il
senso della presenza reale nell’essere simbolo di ciò che Gesù fece (nell’ultima
cena e nella passione) e di ciò che l’eucaristia rappresenta. La seconda in quanto afferma che dopo la
consacrazione cambierebbe semplicemente il “fine” del pane e del vino: non più
elementi per nutrire il corpo, ma cibo spirituale per nutrire l’anima. Anche la
luterana dottrina della “consostanziazione” (= la presenza di Gesù si
“affianca” al pane e al vino e rimane per tutta la durata del rito, salvo poi
cessare) è assolutamente da respingere
come falsa e del tutto erronea, come qualunque dottrina che vagheggi su una “potenza
delle specie eucaristiche” senza affermare tale realismo. La Chiesa insegna che
avviene una reale trasformazione della sostanza del pane e del vino in quella del corpo
e del sangue di Cristo (transustanziazione), rimanendo integre solo le specie (o apparenze) delle sostanze
originarie: ossia il colore, la forma, il sapore e l’odore del pane e del vino.
Questo, come si può intuire, è un miracolo assolutamente strepitoso in quanto
abbiamo alcune caratteristiche di certe sostanze che ineriscono però ad una sostanza
diversa. La sostanza delle cellule di un corpo umano non ha colore “bianco”,
non ha sapore di “pane”, non ha odore di pane, non ha la forma di un’ostia di
pane azzimo. La stessa cosa si può e si deve dire del sangue. I miracoli eucaristici
(almeno 25 accertati in tutta Italia) testimoniano in maniera evidente ed
eclatante questo realismo, non essendo altro che una trasformazione sensibile
di tali “accidenti” (colore, sapore, forma e odore) in quelli “propri” della
nuova sostanza (corpo e sangue di Cristo) che ad essi sottostà, cosa che
normalmente (grazie a Dio!) non avviene. Si pensi al miracolo di Lanciano: la
carne
viva in cui si è trasformata l’Ostia appartiene al pericardio
umano, con tanto di un
ventricolo che ancora pulsa!!!!
E i cinque grumi di sangue, fuoriusciti da tale carne, analizzati
in laboratorio, hanno dato come esito appartenere ad un essere umano di sesso
maschile con gruppo sanguigno AB Rh positivo. Questo attesta l’infinita bontà di Gesù,
che rimane con noi realmente e veramente, oltre che la sua
infinita e umilissima degnazione e che chiede ai destinatari di questo dono un amore
e una riverenza tanto più grandi quanto maggiore è la straordinarietà del
regalo che il Signore ci ha fatto.
La Chiesa ha introdotto la comunione in mano dopo la reintroduzione della comunione
da parte dei Protestanti , ovvero proprio quelli che non credono alla vera
dottrina sull’eucaristia . Il distribuire la Santa Comunione in mano, seppur
accettata dalla disciplina della Chiesa
e attualmente lecita da un punto di vista formale non favorisce la comprensione
di certo la ricezione della dottrina cattolica su questo sacramento, ma anzi
piuttosto ne svilisce e banalizza la comprensione, già di per se stessa tanto
difficile.
Pertanto e’ consigliabile che ognuno di noi prenda coscienza dell’importanza
di avere l’ostia nelle mani per evitare di farla cadere a terra o portarla in
giro,
Che prima di accostarsi
alla santa comunione, esaminassimo cento volte la propria coscienza per essere
certo di non avere sulla coscienza peccati mortali che profanino direttamente
il Signore in persona. L’infinita umiltà di Gesù richiede rispetto e adorazione
e non autorizza nessuno ad abusare di essa a propria rovina e perdizione.
Ogni sacerdote è lo strumento di questo miracolo e del privilegio
di poter toccare le Sacre Specie. E’
importante ricordare che Gesù è
realmente presente non solo tutto intero in ciascuna delle due specie, ma anche
in ogni singolo frammento o partedi esse, anche infinitesimale; secondo, tale
presenza perdura anche dopo l’uso o dopo l’atto liturgico, fino a quando le
sacre specie non vengano completamente dissolte questo perché se la sostanza
della specie “pane”, dopo la consacrazione diventa “sostanza corpo di Cristo”, dobbiamo considerare che, anche in un micron
infinitesimale di pane consacrato
(che, analizzandolo chimicamente, mostrerebbe l’esistenza degli
elementi chimici che
compongono il pane) sarebbe presente (sotto gli accidenti del
pane) la vera sostanza
“corpo di Cristo”. Sappiamo dalla chimica che anche in un atomo di
una certa sostanza è
presente “quella” sostanza; ma dato che, dopo la
consacrazione, avviene per miracolo che
ciò che era ”sostanza-pane” cede il posto alla sostanza “corpo di
Cristo”, ne consegue che
in un atomo di “pane consacrato” c’è la conformazione chimica
della sostanza “corpo di
Cristo” ovvero del vero corpo umano di nostro Signore!!! Ma dato
che nostro Signore Gesù
è vivo e siede alla destra del Padre , è evidente che - come in
ogni corpo di un essere
vivente – al suo interno scorre il suo sangue vivo e vero, è unito
alla sua vera anima e, nel
caso del Figlio di Dio”, è unito ipostaticamente alla seconda
Persona della Santissima
Trinità: ecco allora che, attraverso la sostanza “corpo di Cristo”
è presente Cristo tutto
intero e, ovviamente, se è presente in ogni singolo atomo di pane
consacrato è chiaro che
anche in un impercettibile e infinitesimale frammento ci sarà
“tutto Gesù”. Analogo
discorso vale per il vino consacrato. Dovunque si trovi, a livello
chimico, in una minima
goccia, la conformazione chimica del vino (che dopo la
consacrazione non c’è più come
sostanza), è chiaro che lì c’è la vera sostanza del Sangue di
Cristo, Sangue che ora scorre nelle vene divine del Suo Corpo, a cui è unita la
sua anima e a cui è unita la sua divinità! Trattandosi di presenza legata al
mutamento di sostanza, essa dunque può cessare solo quando gli “anomali e
miracolosi accidenti” (ovvero la forma, il colore, l’odore e il sapore del pane
e del vino) si dissolvono: quindi solo quando un’ostia è consumata e assorbita
dal nostro organismo (circa quindici minuti da quando la si è assunta) e quando
il sangue di Cristo è stato completamente assunto oppure è completamente
evaporato.
Si badi che quanto detto non è altro che la spiegazione di un
dogma di fede e dei suoi
corollari. Non è certamente
un caso se, nel vetus ordo del rito della santa Messa (oggi
“rito romano straordinario”) le rubriche prescrivevano al
sacerdote di non disgiungere mai
i pollici dagli indici dal momento della consacrazione fino alla
purificazione delle dita.
Tanto grande era la fede e il conseguente rispetto dovuto al
Santissimo Corpo di Gesù e la cura di evitare, per quanto possibile, sacrilegi
e profanazioni anche involontarie!
Molte volte, invece, siamo
così superficiali da non soffermare a riflettere che la presenza
di Gesù continua anche dopo la liturgia e magari può capitare di entrare in
Chiesa senza neanche guardare il tabernacolo, passarci davanti senza compiere
nemmeno un minimo gesto di adorazione, trascurare la visita al Santissimo Sacramento,
non comprendere la forza e l’importanza straordinaria dell’adorazione
eucaristica, specie quando Gesù è
solennemente esposto. Dopo aver ricevuto l’eucarestia bisogna
tornare a posto rimanendo in preghiera e adorazione di Gesù presente nella propria anima qualche istante .
L’eucaristia non ha come effetto e frutto la remissione dei
peccati, e per non ricevere tale
sacramento “indegnamente” e quindi “a morte e condanna” è
necessario, “per coloro che
hanno la consapevolezza di essere in peccato mortale”, per quanto “credano di
essere
contriti”, “premettere necessariamente la confessione sacramentale”, prima di accostarsi alla santa
comunione. “Perciò chiunque in modo indegno mangia
il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del
Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane
e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore,
mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,27-29). Si badi che la confessione
sacramentale è definita “necessaria” e non facoltativa, né
sostituibile da un frettoloso “atto di dolore” col proposito di confessarsi
al più presto. La presenza vera e reale di Gesù richiede, per essere ricevuta nella
comunione, cuore puro e casto corpo, come ben scriveva il grande san Francesco
di Assisi. E tale regola non ammette mai e in nessun caso
eccezioni. Sono dovuti al Signore i gesti, interiori anzitutto ma anche esteriori, di adorazione. Questo significa: che quando si
entra in Chiesa si deve cercare dove si trova la lampada accesa
che indica la presenza dell’eucaristia e immediatamente adorare Gesù con il
gesto esterno della genuflessione (non un vago inchino di capo o un frettoloso segnetto di croce, come
spesso si vede); che quando si passa davanti a un tabernacolo (anche per andare
a leggere in Chiesa oppure per spostarsi da una navata all’altra)
tale gesto esteriore va ripetuto con amore e devozione, essendo grave indifferenza
“passare di lungo” davanti al Santissimo Sacramento come se niente fosse; che
durante la consacrazione, nella santa Messa, bisogna rigorosamente
stare in ginocchio, e non in piedi o – peggio – seduti e che è senz’altro cosa
lodevole (come qualche fedele fa) e non certo riprovevole (come talora lamenta
qualche pastore con zelo decisamente fuori luogo in nome di una “uniformità di gesti”
quanto mai discutibile e opinabile); che anche quando ci si accosta alla santa comunione
è cosa sommamente buona (ed è sempre un vero e proprio diritto dei fedeli), inginocchiarsi
(come, assai lodevolmente, era in uso nelle liturgie di Papa Benedetto XVI, che
ripristinò questa usanza come obbligatoria nelle cerimonie pontificie,
purtroppo scarsamente seguito in questo dai pastori…) ed è gravissimo
abuso da parte sempre di “malzelanti” pastori adirarsi per questo o, peggio, invitare i
fedeli ad alzarsi. A questo proposito mi permetto di citare, al riguardo, un
ampio stralcio di un documento della Sacra Congregazione del Culto
divino, che andrebbe mostrato, con umiltà, carità e dolcezza
ma anche con estrema chiarezza, a tali pastori, più preoccupati dell’uniformità dei
gesti “della comunità” che dell’adorazione dovuta (da parte di tutti) al
Santissimo Sacramento dell’eucaristia. Cosi’ come e’ un gravissimo abuso da
parte del sacerdote il i rifiuto della Santa Comunione ad un fedele sulla
base del suo modo di presentarsi sia una grave violazione di uno dei più fondamentali diritti del fedele
cristiano, precisamente quello di
essere assistito dai suoi Pastori per mezzo dei Sacramenti (CIC 213). E tenendo
conto della norma per cui "i ministri dei sacramenti non possono negarli a
chi legittimamente li chiedono, essendo propriamente disposti e non sia loro
vietato di riceverli" (canone 843 comma 1), non dovrebbe esserci un tale
rifiuto ad alcun cattolico che si presenti per la Santa Comunione alla Messa,
tranne casi che presentino pericolo di grave scandalo ad altri credenti, che
scaturisca da peccato pubblico impenitente od eresia impenitente o scisma,
pubblicamente professati o dichiarati, della persona.
La pratica d'inginocchiarsi per la Santa
Comunione ha in suo favore una tradizione secolare, ed è un segno particolarmente
eloquente di adorazione, completamente adeguato alla luce della presenza vera,
reale e sostanziale di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate.
Una delle perle preziose del Concilio tridentino è indubbiamente
il decreto sul santo
Sacrificio della Messa, che contiene la pura e autentica dottrina
cattolica su questo grande, immenso, adorabile e insondabile mistero. Le
indicazioni dogmatiche su questo
argomento si rivelano, nuovamente, di strettissima attualità e
dovrebbero essere tenute
ben presenti per evitare di ridurre la Messa ad opera umana,
farcita di innumerevoli
elementi estranei ad essa e alla sua sacralità, e a volte letteralmente
profanata con gesti,
“segni” ed esibizioni totalmente fuori luogo, Il Concilio afferma
che l’unico e cruento sacrificio della Croce, compiuto dal Signore il Venerdì
santo, doveva essere perpetuato nei secoli. Una redenzione “eterna” compiuta dal
Sommo ed eterno Sacerdote. Questa “perennizzazione” doveva avvenire attraverso
un sacrificio visibile, che attualizzasse e significasse l’unico sacrificio
cruento della Croce offerto una volta per tutte, prolungandone la memoria
(efficace e salvifica) fino alla fine del mondo. Questo sacrificio visibile fu
istituito nell’ultima Cena, momento in cui, contestualmente ad esso, gli
apostoli furono costituiti sacerdoti della Nuova Alleanza (con le parole: “fate
questo in memoria di Me”), promulgata in quel medesimo momento. In questo
sacrificio visibile che si compie nella Messa, è contenuto e immolato in
maniera incruenta lo stesso Cristo che si offrì sulla Croce. Cambia solo il
modo di offrirsi della Divina Vittima (cruento sulla Croce, incruento nella
Messa). Essendo un vero sacrificio, come tutti i sacrifici è veramente propiziatorio, nel senso che placa la divina giustizia ed ottiene
ogni grazia e il dono del pentimento dei peccati ai vivi e la soddisfazione
delle pene dovute per i peccati per coloro che non sono ancora pienamente
purificati. Questo divino sacrificio è sempre e solo offerto al Padre per la
remissione dei peccati e per tutte queste altre intenzioni. Nelle Messe
celebrate in onore dei santi non è certo ad essi che si offre il sacrificio
eucaristico, ma semplicemente si ringrazia Dio per le loro vittorie (che sono
state possibili solo grazie alla redenzione operata da Cristo) e si invoca la
loro protezione e intercessione. Il Concilio prosegue affermando la sacralità
dell’antico canone della santa Messa, “che non contiene niente che non profumi
di santità e di pietà e non innalzi a Dio la mente di quelli che lo offrono” e
spiega che tutte le cerimonie della Santa Messa (i paramenti sacri, l’incenso,
le benedizioni, le rubriche del Messale, etc.) sono finalizzate a “rendere più evidente
la maestà di un così grande sacrificio” e aiutare i fedeli a contemplare le
sublimi
realtà nascoste dietro quei veli e simboli. Un deciso encomio e
una difesa particolare sono
spesi in favore dell’uso esclusivo della lingua latina nella santa
Messa. Infine viene sancito che per la validità della
santa Messa è necessario che si comunichi solo
il sacerdote celebrante, che deve consumare la vittima sacrificale “ad validitatem Missae”. La comunione sacramentale dei fedeli è quanto mai
raccomandata e auspicata, ma non è
affatto necessaria (checché se ne pensi soprattutto ai nostri
giorni), né la partecipazione
alla santa Messa da parte di un fedele che non si accosti alla
comunione sacramentale deve essere considerata invalida o inopportuna. Si
verifica solo una partecipazione meno
abbondante ai frutti di questo Sacrificio. Conseguentemente è non
solo pienamente lecita,
ma anche altamente utile al bene di tutta la Chiesa, una Messa che
fosse celebrata dal solo celebrante (dispregiativamente denominata “Messa
privata”), perché tale Messa è
celebrata dal ministro della Chiesa “non solo per sé, ma per tutti
i fedeli che appartengono
al Corpo di Cristo”, vivi e defunti e pertanto il sacrosanto
sinodo non solo approva questo
tipo di Messe, ma anche le raccomanda. Ora come allora.
Dopo aver presentato sinteticamente la mirabile dottrina cattolica
del decreto sul santo
sacrificio della Messa,
Quante volte abbiamo dovuto
sentire dire in questi anni frasi e slogan del tipo: “se non fai la comunione è
come se ti invitassero a cena e tu non mangiassi?”. Senza capire che dietro una
frase di questo genere c’è esattamente lo stravolgimento della dottrina
cattolica sul carattere sacrificale della Messa in favore di quella luterana
circa il suo carattere eminentemente e prevalentemente conviviale, Sappiamo,
inoltre, che i riformatori luterani negarono l’esistenza del sacerdozio ministeriale come distinto ed essenzialmente diverso dal sacerdozio
comune, di cui sono rivestiti i fedeli di Cristo in quanto battezzati. Negarono quindi
l’esistenza di una vera istituzione del sacramento dell’ordine sacro da
parte del Signore. Ora, evidenziare come la prima – sia pur “del tutto singolare” – ordinazione sacerdotale
sia avvenuta con le parole “fate questo in memoria di me”, fa invece
comprendere e risaltare la natura assolutamente peculiare dell’ordine sacro, il suo legame intrinseco e
indissolubile con l’eucaristia e la sua funzione mediatrice e propiziatrice, che perpetua la mediazione
sacrificale e salvifica di Cristo Sommo sacerdote. I sacerdoti,
quando esplicano le funzioni loro proprie, agiscono “in persona Christi”: cioè Cristo li usa come strumenti meramente passivi
per continuare ad esercitare il suo sacerdozio salvifico nel tempo e
nella storia. Cosa, questa, ben diversa dal sacerdozio comune, con il quale i
cristiani sono abilitati a ricevere i sacramenti, a pregare il Signore per sé e per tutti e ad offrire se stessi e i
propri sacrifici per la salvezza propria o altrui. Qui è Cristo che offre il
suo proprio sacrificio per mezzo dei sacerdoti; un gesto essenzialmente e totalmente differente, dal quale
peraltro traggono origine ed efficacia tutte le preghiere, offerte e
atti compiuti dai cristiani, che senza di esso non avrebbero nessun senso né valore davanti a Dio. Sminuire o
minimizzare la grandezza del sacerdozio cattolico è cosa che non
favorisce affatto l’umiltà dei ministri ordinati, ma solo una indebita banalizzazione delle loro altissime funzioni,
con grande danno per la loro personale santità e, soprattutto,
per il bene della Chiesa e dei fedeli tutti. Il Concilio insiste sul
carattere propiziatorio, nel duplice senso di “impetratorio” e “espiatorio” (o,
se si preferisce, “satisfattorio”) del santo sacrificio eucaristico. Il che ci riporta
ad un aspetto della Passione e Morte del Signore, che oggi spesso si preferisce
“bypassare” o quanto meno minimizzare: la necessità, per divina giustizia, di
qualcuno che ripari e impetri per ottenere le grazie perdute dall’uomo a causa
del peccato e che ne espii le conseguenze in termini di pene dovute per il
peccato. È per questo che la Messa può essere offerta per i vivi (per esempio
per la conversione di un peccatore) che per i defunti (perché, grazie ai meriti
e alle soddisfazioni di Gesù, sia abbreviato il tempo della purificazione nel
Purgatorio). I protestanti potevano concedere che si parlasse di sacrificio solo
nel senso di “sacrificio di lode o di ringraziamento” (indubbiamente presenti sia nel sacrificio
della Croce che nel sacrificio eucaristico), ma non di “sacrificio
propiziatorio”; perché sbandieravano una dottrina della misericordia falsa e
strampalata. E purtroppo oggi hanno non pochi seguaci anche tra i figli della
Chiesa cattolica. Altra idea astrusa che fu messa in giro a quei tempi era che
se si fosse evidenziato il carattere sacrificale della santa Messa, si sarebbe
“bestemmiato” (sic!) contro l’unico sacrificio di Cristo consumato – come si
legge nella lettera agli Ebrei – una sola volta il Venerdì santo sulla Croce.
Ma il sacrificio della Messa non è per nulla una ripetizione del sacrificio
della croce, ma la sua “rinnovazione” o “ripresentazione” sacramentale (e incruenta):
cioè è semplicemente il modo mirabile miracolosamente “inventato” da Gesù per
rendere presente, qui ed ora, in ogni tempo e in ogni luogo, l’unico sacrificio
della croce, perché i suoi frutti siano applicati a beneficio dei vivi e dei
defunti.
I riformatori erano anche agguerriti contro i santi e contro le
Messe celebrate in loro onore
e andavano dicendo che i cattolici erano idolatri perché offrivano
sacrifici a san Francesco,
sant’Agostino etc. In realtà, il loro attacco contro i santi era
logica conseguenza della loro
dottrina della salvezza senza opere e senza sforzi, “per sola
fede”, a cui, evidentemente,
ostava l’esempio degli eroismi, delle fatiche, delle opere e delle
penitenze compiute dai
santi, che vengono nella santa Messa semplicemente venerati come
esempi che hanno
accolto in tutto la grazia e seguito le orme dell’unico Maestro, a
cui solo e sempre si offre
ogni sacrificio. Altri speciosi argomenti dei protestanti
utilizzati per distruggere la Messa, erano anzitutto la presenza di fantomatici
“errori” contenuti nel canone (romano) della santa Messa, che è in realtà un
esempio mirabile di santità, spiritualità e “sobria romanità” di gesti, forme e
riti; e, in secondo luogo, la critica verso le vesti, le cerimonie, i vasi
sacri utilizzati per rendere gloria e onore a Dio, a parer loro “manifestazioni
di empietà” piuttosto che mezzi atti a favorire la pietà. Quest’ultima
(apparentemente lodevole…) considerazione è oggi purtroppo ampiamente diffusa.
La decadenza e la sciatteria della maggioranza delle attuali vesti liturgiche,
suppellettili sacre, vasi sacri, etc. è quasi sempre giustificata in nome della
sobrietà e della “semplicità”, dimenticando il celebre episodio (uno dei pochissimi
riportati da tutti e quattro dei Vangeli) della famosa unzione di Betania, in
cui Maria di Magdala, pochi giorni prima della Passione, ruppe un vaso di nardo
del valore di 300 denari (in valuta attuale: circa 15.000 euro, se si considera
che un denaro era la paga quotidiana di un operaio) semplicemente per ungere il
capo di Gesù. Un gesto di amore grande ed estremo e di onore verso la Sua
Persona. Fu rimproverata da Giuda (guarda caso…) che brontolava sbraitando a
favore dei poveri, ma difesa da Gesù che condannò la falsa argomentazione che
vuole contrapporre l’amore a Lui (anche quello espresso attraverso lo splendore
del culto) alla doverosa cura dei poveri, difendendo il gesto di questa grande
donna ed esprimendo il volere che di esso si parlasse dovunque si fosse annunciato
il Vangelo. Gli ultimi due canoni sanciscono la perfetta liceità della Messa in
cui si comunica solo il sacerdote (cosa di cui abbiamo già avuto modo di
parlare) e condannano la posizione di chi riteneva che la santa Messa dovesse necessariamente essere celebrata in lingua volgare. Attualmente, anche
nel nuovo rito della santa Messa, si può celebrare in lingua volgare, ma non
si dimentichi che la lingua propria della liturgia della Chiesa è, rimane e
sempre resterà il latino. Anche nelle celebrazioni nella forma ordinaria del
rito romano, la lingua propria rimane il latino, con facoltà (e non necessità) di uso della lingua volgare. Se un Parroco
celebra la Messa di Paolo VI in latino può farlo senza nessuna autorizzazione e
senza nessuno scandalo da parte di chicchessia. Questo sia detto per i molti
che blaterano un po’ a vanvera contro il latino, che sarebbe – a dir loro –
stato messo al bando dal Concilio, dimenticando che proprio la costituzione
dogmatica “Sacrosanctum Concilium” (quella che ha permesso la successiva riforma
liturgica postconciliare) ha espressamente sancito: “L'uso della lingua latina,
salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (SC 36).
LA PENITENZA
Concilio di Firenze (1438-1445)
L’insegnamento del Concilio di Firenze sul sacramento della
penitenza è tanto sobrio ed
essenziale quanto chiaro ed esaustivo. “Il quarto sacramento è la
penitenza, di cui – per
così dire – gli atti del penitente sono la materia, distinti in
tre gruppi: il primo di essi è la
·
contrizione del cuore, che
consiste nel dolore del peccato commesso accompagnato dal proposito di non
peccare in avvenire.
·
Il secondo è la confessione orale, nella quale
il peccatore confessa integralmente al suo sacerdote tutti i peccati di cui ha
memoria.
·
Il terzo è la penitenza per i peccati, secondo
quanto stabilisce il sacerdote. Si soddisfa a ciò specialmente con la
preghiera, il digiuno e con l’elemosina. Forma di questo sacramento sono le
parole dell’assoluzione, che il sacerdote pronuncia quando dice: ‘io ti
assolvo’. Ministro di questo sacramento è il sacerdote, che può assolvere con
autorità ordinaria o delegata dal proprio superiore. Effetto di questo sacramento
è l’assoluzione dai peccati” (Denz 1323).
Ho parlato di essenzialità nell’esporre la dottrina accompagnata
da chiarezza ed
esaustività. In queste poche battute, infatti, è contenuto il
cuore della dottrina su questo
importantissimo sacramento, rarissimamente celebrato come si deve,
soprattutto in
considerazione del fatto che la “materia” di esso sono gli atti
del penitente e, purtroppo,
quasi sempre sono posti in essere in maniera molto lacunosa e
imperfetta quando non
addirittura totalmente inesistente. Il Concilio usa la perifrasi
“per così dire” per far
comprendere l’assoluta singolarità della materia di questo sacramento,
in cui essa non è un elemento sensibile, ma una serie di atti liberi e
personali. Vedremo che il Concilio di
Trento, consapevole di questa difficoltà, parlerà di
“quasi-materia”. In ogni caso questo
significa che se il penitente non pone bene in essere i tre atti
(contrizione, confessione e
penitenza) che costituiscono la singolare materia di questo
sacramento, esso sarà
totalmente invalido, inutile, inefficace e anche sacrilego, non
meno di come lo sarebbe un
battesimo. Questo significa che se il peccatore che va a
confessarsi non prova vero dolore per il peccato commesso, a cui deve essere necessariamente unito i
proposito di non peccare più, la confessione è nulla e sacrilega.
Questo discorso deve
essere ben compreso e meditato dai peccatori abituali o recidivi,
che pensano di poter
spensieratamente commettere peccato mortale su peccato mortale (e
questo vale
specialmente per ciò che concerne il sesto comandamento) e poi,
saltuariamente,
confessarsi (per poter fare la comunione) senza la minima
intenzione di correggersi. Era
per la carenza di questo essenziale requisito – da lui conosciuto
in via soprannaturale – che san Pio da Pietrelcina rimandava la maggior parte
dei penitenti senza l’assoluzione
sacramentale. Analogo discorso vale per la confessione orale.
Innumerevoli sono le
confessioni che si riducono ad uno sfogo per problemi di varia
natura, ad un vano
chiacchiericcio o addirittura, in alcune circostanze, ad una totale
assenza nella confessione della benché minima ombra di peccato accusato. E’ gravissimo
oltraggio a questo sacramento profanarlo in questo modo. In confessionale si entra
per umiliarsi dei peccati commessi e chiederne perdono a Dio, dopo essersi preparati
con l’esame di coscienza quotidiano o immediatamente precedente la confessione,
lasciando fuori dalla sfera sacramentale tutto ciò che non attiene in senso
stretto alle colpe di cui accusarsi per
ottenerne la remissione. Innumerevoli sono anche le confessioni in
cui il penitente non
confessa colpe gravissime perché le ritiene non tali, oppure
perché, pur essendone
consapevole, teme i rimproveri del sacerdote o si vergogna per la
particolare scabrosità di
alcuni peccati sommamente ripugnanti o degradanti. Anche in
quest’ultimo caso si
commette una grave profanazione del sacramento e si esce dal
confessionale con l’anima
ulteriormente gravata da questa orribile colpa. A volte i
penitenti vanno in cerca di
qualche confessore compiacente che li scusi o, peggio, li confermi
nel male. In questo caso, sempre citando il grande stigmatizzato del Gargano,
badino di non illudersi perché l’unica cosa che succede è che si andrà
all’Inferno in compagnia di tale arrogante e superbo confessore che pensa di
essere più grande di Domine Iddio, concedendo dispense o permessi che solo Lui
avrebbe il potere di dare! Anche l’ultimo atto è spesso vissuto con leggerezza
dai penitenti. La penitenza sacramentale, infatti – che un tempo doveva essere assolta
prima di ricevere l’assoluzione – è parte integrante di
questo sacramento e deve essere eseguita – sotto pena di peccato mortale (e
sacrilegio) – con puntualità e precisione. Se il confessore dà una penitenza
consistente in una singola preghiera o opera penitenziale (digiuno o elemosina)
essa va adempiuta se possibile immediatamente
o almeno il più presto possibile. Se si tratta di opere che devono protrarsi per
un certo lasso di tempo, esse vanno eseguite fedelmente secondo le indicazioni
del confessore, con puntuale scrupolo, senza darsi facili dispense che possono
ordinariamente essere concesse solo dal confessore che ha ascoltato la
precedente confessione, salva sempre l’autorità del superiore ecclesiastico.
Ricordino i confessori che qualora consti loro con certezza morale che anche uno
solo di questi requisiti è totalmente assente, non è loro consentito di impartire
alcuna assoluzione, che sarebbe atto temerario e illecito e quindi non
sottoscritto da Dio e che renderebbe tali incauti ministri responsabili di peccato
mortale dinanzi alla divina giustizia. Anche altre trascuratezze di cui non di
rado si lamentano i penitenti (che non sempre sono essenziali, ma che comunque
fanno parte del decoro e del rispetto dovuto al sacramento) quali il confessare
senza cotta (o camice) e stola, non far recitare l’atto di dolore, non dare
alcuna penitenza, avere delle modalità talora eccessivamente confidenziali,
sono risolutamente da evitare e da bandire. Per rimettere i peccati degli uomini
Gesù Cristo ha versato fino all’ultima goccia di sangue. Tutti, dunque,
penitenti e confessori, abbiano grande cura e rispetto per questo sublime e
provvidenziale sacramento, di cui tutti abbiamo costante e continuo bisogno.
Concilio di Trento (1545-1563)
E’ noto che uno dei punti
fondamentali della dottrina dei riformatori protestanti era la
negazione dell’esistenza stessa del sacramento della penitenza,
che non sarebbe stato
istituito da Cristo e che sarebbe dovuta essere sostituito da
una sorta di confessione “a tu
per tu” tra l’individuo e il Signore, seguita da una “non
imputazione delle colpe
commesse” concessa da Dio in misura proporzionale alla fede del
“penitente”. Volendo
esemplificare: Dio non ti imputa i tuoi peccati perché guarda al
sacrificio di Cristo che ha
pagato per te; tale effetto ti raggiunge se e nella misura in tu
credi in Lui come tuo
Salvatore e nella sua misericordia. Tale “non imputazione” è del
tutto gratuita e non deve
essere accompagnata né seguita da alcuna opera “penitenziale” o
“satisfattoria” in quanto
bastano e avanzano i patimenti già sofferti da Cristo. Che le
cose stessero così sarebbe (a
mio modesto parere) il desiderio (neanche molto celato…) di non
pochi uomini, cattolici
compresi. La realtà delle cose, tuttavia, è ben diversa e lontana
da tutto ciò che ho appena
tentato, a grandissime linee, di sintetizzare.
Anzitutto i padri del Concilio evidenziano l’origine biblica,
chiara ed esplicita, di questo
sacramento nelle parole del Signore pronunciate il giorno stesso
di Pasqua durante
l’apparizione agli apostoli nel Cenacolo: “Ricevete lo Spirito
Santo: a chi rimetterete i
peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non
rimessi” (Gv 20,22-23).
Poi spiegano la differenza tra questo sacramento ed il Battesimo,
richiamando la splendida espressione dei Padri della Chiesa che chiamavano la
penitenza “battesimo laborioso”. È vero, infatti, che Cristo ha sofferto ed è
morto, soddisfacendo per i peccati di tutti gli uomini presenti, passati e
futuri; ma come Cristo è morto una sola volta, così
i meriti della sua Passione e Morte vengono applicati ad ogni singola anima
nella totalità dei loro effetti una sola volta ed è quanto avviene nel sacramento del Battesimo; se si pecca dopo
il Battesimo, le esigenze della divina giustizia richiedono, per ottenere il
perdono “gemiti e fatiche”, nonché il presentarsi come rei dinanzi ai ministri
della Chiesa istituiti da Cristo per chiedere il perdono e ricevere la debita
penitenza.
Importantissima è anche la definizione che il Sacro Concilio dà
degli atti del penitente
(contrizione, confessione e soddisfazione), chiamandoli “quasi materia”, mentre la forma è
data dalle parole dell’assoluzione e l’effetto consiste nella
remissione delle colpe
commesse. Questa espressione è importantissima e va spiegata.
Ordinariamente la
“materia” dei sacramenti è un elemento sensibile, la cui esatta presenza condiziona la
validità del sacramento: pane azzimo e vino di vite per
l’eucaristia, acqua naturale per il
battesimo, olio di oliva per l’unzione, il crisma, l’olio dei
catecumeni, etc. Se la materia non
è esattamente questa, ognuno dei suddetti sacramenti è totalmente
inesistente e invalido. Non si
può battezzare una persona col whisky, né celebrare la Messa con biscotti e
coca cola! Ora, gli atti del penitente non sono elementi sensibili in senso
stretto (per questo vengono chiamati “quasi materia”), ma come quelli
sensibili la loro corretta e completa presenza condiziona la validità del
sacramento. Pertanto l’inesistenza o l’incompletezza anche di uno solo dei tre
atti del penitente rende inesistente, nulla o sacrilega la celebrazione del sacramento,
come avremo ampiamente modo di vedere. Infine il Concilio aggiunge che sovente
la buona celebrazione di questo sacramento ha come frutto interiore la pace e la
serenità, unite a vivissima consolazione di spirito. Cose che certamente
accadono quando la confessione è fatta da “persone pie” (cioè che la preparano
e la celebrano bene) e che testimoniano, sia pur indirettamente, quanto grande
e importante è questo sacramento.
Dopo aver analizzato a grandi linee la dottrina dogmatica del
Concilio di Trento sul
sacramento della penitenza, dobbiamo ora, come di consueto,
occuparci dei canoni e del
loro commento (Denz 1701-1715). Data la loro straordinaria
importanza, è bene riportarli
tutti e per esteso, riservandocene il commento nel prossimo
numero.
Alla luce dei canoni tridentini sul sacramento della penitenza
possiamo trarre le seguenti
considerazioni. Anzitutto abbiamo la chiarissima affermazione che
·
la penitenza è un vero e proprio
sacramento. Ciò significa che se è ben celebrato, si può avere la certezza
morale di essere realmente stati perdonati da Dio dei peccati commessi, con
conseguente cancellazione delle colpe e remissione della pena eterna nel caso
di peccati mortali.
·
Si tratta di un sacramento distinto dal
Battesimo, che può essere amministrato validamente solo dai sacerdoti, di modo
che per ottenere la remissione delle colpe non esiste altro mezzo ordinario che
la confessione auricolare fatta ad un ministro della Chiesa che abbia la
facoltà di ascoltare le confessioni. Non è dunque possibile confessarsi
direttamente al Padre eterno, perché così Lui ha inequivocabilmente voluto.
Discorso necessariamente più lungo richiedono gli atti del penitente. Il Concilio
parla di "remissione completa e perfetta" dei peccati che si ottiene solo quando sussistono nel penitente
contrizione, confessione e soddisfazione, lasciando chiaramente intendere - in
questo senso - che ci può essere una remissione parziale e imperfetta delle medesime colpe, quando qualcuno di questi
requisiti manchi in tutto o in parte. Si può, per esempio, non essere
perfettamente pentiti per cause dipendenti da scarso senso del peccato; si può
fare un confessione incompleta per ignoranza oppure perché non aiutati dalla
competenza e dalla sollecitudine del confessore; si può infine adempiere
negligentemente la penitenza imposta oppure essa potrebbe essere meno adeguata
del dovuto a causa della debolezza morale o spirituale del penitente,
dinanzi alla quale il confessore è costretto ad assegnare una
penitenza largamente meno
impegnativa di quanto sarebbe necessario in relazione alla gravità
e al numero dei peccati
commessi. Sono solo alcuni esempi che fanno capire quanto siano
importanti questi atti (a
cui, per la verità, si dà oggi pochissima importanza) e come la
loro insufficienza influisca
sull'efficacia della divina misericordia, che è ovviamente
perfetta in se stessa, ma che si
dispiega sulle nostre anime con la sua potenza tanto quanto
l'anima è disposta ad accoglierla, dandole "materia" adatta e pronta
per essere lavata e resa candida nel Sangue del divino Agnello. Si badi allora
a non accostarsi con leggerezza al confessionale, anzitutto curando bene
l'esame di coscienza anche con l'ausilio di qualche buono schema, dato che oggi
si confonde il bene e il male con ciò che si ritiene tale e non con ciò che
tale è dichiarato dalla Legge di Dio. Si faccia anche molta attenzione a
verificare la presenza di un sincero pentimento. Se è vero, infatti, che il
dolore dei peccati - come vedremo – può essere imperfetto e variamente
motivato, in ogni caso il proposito di non più peccare deve essere fermo,
risoluto e irreversibile. Sono innumerevoli le confessioni sacrileghe motivate dalla
carenza di questo requisito, forse anche di più di quelle che sono tali perché
il penitente omette di confessare la specie o il numero di qualche peccato per
paura o per vergogna. Per avere il perdono di Dio bisogna tagliare con il
peccato almeno mortale; cioè avere la ferma e risoluta volontà di mai più
commetterlo. Il motivo per cui il grande confessore san Pio da Pietrelcina
rimandava - talora in modo severo e risoluto – molti penitenti era motivato
proprio dal fatto che, a causa del carisma straordinario della scrutazione dei
cuori ("cardiognosi"), si accorgeva subito quando il penitente non
era realmente e sinceramente pentito. E sapendo che Dio nulla perdona a chi non
è pentito, lo esortava a fare un percorso di sincera conversione prima di accostarsi
al confessionale. La confessione, infatti, quando è ben fatta è senza dubbio il
punto di partenza di un nuovo cammino, ma è anche il punto di arrivo di un
itinerario di progressiva e sincera presa di coscienza del male nella sua
dimensione oggettiva e di decisa presa di distanza da esso in tutte le sue
forme e sfaccettature. Si sia infine attenti e scrupolosi nell'adempiere con solerzia
e zelo la penitenza imposta dal confessore. Se si tratta di un'opera singola
(una preghiera o un certo numero di preghiere da fare una volta sola, una
mortificazione, un'elemosina) si procuri di provvedere il prima possibile,
preferibilmente subito dopo la confessione. Se si tratta di preghiere o opere
che devono necessariamente protrarsi per uncerto periodo di tempo, si badi a
non dimenticare di farle tutte e bene. L'inadempienza colpevole della penitenza
imposta, infatti, è cosa indubbiamente grave, mentre non eseguirla per
dimenticanza dovuta a leggerezza o negligenza è comunque e senza dubbio peccato
e ha come conseguenza il produrre quella incompletezza nella celebrazione del sacramento,
che nel caso della soddisfazione sacramentale ricade particolarmente sulla mancata
purificazione delle scorie del peccato e delle pene dovute al peccato, di cui
la divina giustizia chiederà - evidentemente - conto riparazione in Purgatorio.
Insegnamenti tridentini sulla contrizione
l’accusa dei peccati
La contrizione è il dolore derivante dalla detestazione dei propri
peccati unita al fermo
proposito di mai più peccare. La causa specifica del perdono dei
peccati da parte di Dio si
ha proprio quando tale disposizione interiore è reale e sincera.
Quando si sono commessi
gravi peccati, questa contrizione va eccitata e provocata con la
meditazione: “ripensare alla propria vita nell’amarezza della propria anima,
riflettendo sulla gravità, moltitudine e
bruttezza dei suoi peccati e sul fatto che essi hanno fatto
perdere la grazia”. Si tratta di un
vero e proprio esercizio interiore, molto doloroso ma anche assai
fruttuoso e, lo si ripeta,
necessario per avere la divina misericordia. Quante confessioni
fatte, da questo punto di
vista, con grossolana superficialità, senza un vero e sincero
dolore, senza pentimento, o
cercando di minimizzare, dissimulare o addirittura giustificare le
proprie colpe per non
sentire il salutare peso della contrizione. Altro che “rendere
l’uomo ipocrita o dolore
imposto”! Questo esercizio rende l’uomo consapevole di quanto ha
combinato e deve
essere affrontato con la maturità e la libertà di chi vuole
sinceramente fare i conti con se
stesso e agire di conseguenza. Prima di chiedere perdono a Dio,
bisogna dunque essere
sinceramente pentiti. Altro elemento costitutivo e fondamentale è
la confessione. Si devono confessare tutti e singoli i peccati mortali, chiamandoli per nome e definendo chiaramente la
specie, evidenziando eventuali circostanze aggravanti o che ne mutino la specie
e cercando di fornire un numero quanto meno verosimile di tutte le colpe
commesse (ciascuna secondo la propria specie). Il Concilio specifica, ammonendo
i fedeli, che possono essere peccati mortali anche i peccati occulti di
pensiero (i desideri impuri consentiti e i desideri dei beni altrui consentiti)
e vanno anch’essi confessati con le stesse regole. Per esempio - un pensiero impuro su persona
sposata è più grave
che se fatto su una persona libera; un pensiero impuro fatto su
una persona consacrata è
ancora più grave; su un familiare anche. E così via. Questo per
capire di cosa si parla
quando si dice “circostanze che mutassero la specie del peccato”:
un desiderio consentito
avente come oggetto una persona libera è pensiero di fornicazione;
se la persona sposata è di adulterio; se familiare è di incesto; se consacrata
è di profanazione. Per ciò che concerne il
numero, quando non si ricorda il numero esatto, basta dare l’ordine di
grandezza: la frequenza con cui si sono commesse le colpe e per quanto tempo;
si può dire “qualche volta”, “abbastanza”, “molte volte”, “moltissime volte”,
“quotidianamente”, etc.
L’esperienza insegna che se si vuole si può e chi desidera fare una
buona confessione
riesce benissimo anche a dare l’ordine di grandezza del numero dei
peccati, che a detta di
Sant’Alfonso M. de’ Liguori causa la nullità di moltissime
confessioni, rendendole
sacrileghe (su ciò concordo, peraltro, pienamente con il santo
Dottore). Si ricordi, infine,
che la confessione dei peccati veniali non è obbligatoria né
soggetta alla regola del
“numero, specie e circostanze”. Tuttavia non solo è lecita, ma
anche “caldamente
raccomandata” (così nel nuovo rituale della penitenza), così come
confessare le
imperfezioni volontarie e involontarie e, se si vuole, perfino le
tentazioni. Una confessione
di un figlio di Dio realmente convertitosi dovrebbe essere sempre
di questo “secondo
tipo”…
Notare anche i corollari e le specificazioni fatte nel testo
contro i negatori di questa
dolorosa verità, che costituisce requisito di validità del sacramento. C’è chi dice che la
confessione dovrebbe servire solo a consolare le anime e non a
torturarle, chi obietta che
non serve fare “liste della spesa” tanto Dio già li conosce tutti i
nostri peccati, che se uno fa così offende la divina misericordia perché dubita
che Dio perdoni anche i peccati non
confessati, etc. Penso che tutti i lettori abbiano sentito almeno
qualche volta sciocchezze di questo genere. A testimonianza che il cuore
dell’uomo, pur a 450 anni di distanza, rimane sempre lo stesso. A molti
piacerebbe che le cose stessero così, forse anche a chi scrive. Nessuno poi osi pensare che una tale
confessione è impossibile! Una confessione “come Dio comanda” non può
certamente essere improvvisata e va preparata nella preghiera, nel silenzio e
nella meditazione, con l’ausilio da buoni schemi per l’esame di coscienza e animati
dalla fermissima risoluzione di cambiare vita. Richiede il coraggio e la
maturità di assumersi le proprie responsabilità e la mortificazione del dolore
interiore (consumato nella contrizione) ed esteriore (causato dalla vergogna di
mettersi a nudo davanti al ministro di Dio). Ciò non deve del resto stupire: questo
sacramento non si chiama “penitenza”? Vuol dire che già celebrarlo come si deve
è grande opera penitenziale! Necessaria. Indispensabile. Obbligatoria. Da farsi
(con la cura sopra evidenziata) almeno una volta l’anno. Non per tradizione
umana. Ma per tradizione divina e cattolica. Sanzionata da due Concili.
Insegnamenti tridentini sull’assoluzione e la
soddisfazione
L’assoluzione del sacerdote nel sacramento della confessione, a
detta del Concilio, è un
vero e proprio “atto giudiziario”, vale a dire un atto analogo a quella
che è una “sentenza
costitutiva” nei processi civili e penali. Senza entrare in
inutili disquisizioni giuridiche, il
senso di questa espressione è evidenziare che l’assoluzione del
sacerdote, quando è
validamente conferita, determina l’effetto “costitutivo” della
remissione dei peccati. E fino
a quando la formula dell’assoluzione non è realmente pronunciata,
i peccati non sono
rimessi. Questo in ottemperanza alla disposizione del Signore, che
ha detto agli apostoli “a
chi rimetterete i peccati saranno rimessi” (Gv 20,23) e anche “tutto
ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 18,18). Tale
assoluzione è data validamente solo in seguito della confessione dei peccati
nel penitente, nelle forme e nei modi descritti negli articoli precedenti. È
dunque un grave abuso, oggi abbastanza diffuso, dare assoluzioni collettive a
folle di fedeli senza aver ascoltato la confessione auricolare del penitente.
Spetta inoltre al confessore valutare se il penitente ha le disposizioni per poter
essere assolto, soprattutto nei casi di peccatori abituati o recidivi, tenendo
presente che se assolve con leggerezza un peccatore abituato o recidivo senza
straordinari ed evidenti segni di penitenza, a detta di sant’Alfonso M. de’
Liguori, pecca mortalmente. E mortalmente peccano quei peccatori recidivi e
abituati che, per farsi assolvere, cambiano confessore in continuazione nascondendo
la propria recidiva nel peccato. Ma anche in questo caso il confessore che non
verifichi tale situazione, non può considerarsi esente da colpa. Altro capitolo
fondamentale di questo sacramento è la soddisfazione sacramentale, ovvero le
penitenze imposte al peccatore per riparare i peccati commessi ed espiare le
pene temporali dovute per i peccati. I protestanti (e moltissimi “neoprotestanti”
contemporanei, che scambiano la fede con ciò che gli farebbe comodo)
sostenevano che bastano e avanzano le soddisfazioni offerte da Cristo per i
peccati e che solo pensare che siano necessari digiuni, preghiere e penitenze
imposte dal sacerdote o scelte spontaneamente, equivarrebbe a dubitare dei
meriti di Cristo o addirittura oscurare la dottrina della grazia. In realtà la
Chiesa, ammaestrata dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione, ha sempre sostenuto
che i meriti di Cristo, morto una sola volta per tutti, vengono applicati integralmente (a
remissione totale delle colpe e soddisfazione integrale delle pene) una sola volta, nel sacramento del Battesimo.
Per i peccati commessi dopo il Battesimo, ragioni evidenti di giustizia
richiedono che il penitente cooperi all’espiazione e alla propria purificazione,
come anche a riparare i peccati commessi. Diversamente la divina misericordia
non sarebbe altro che un autorizzare qualunque tipo di vizio e nefandezza, da scaricare
sacrilegamente e frettolosamente sul divino sacrificio di Cristo compiuto una volta
per tutte. Conseguentemente il sacerdote, è tenuto ad imporre al penitente
delle opere penitenziali proporzionate al numero e alla gravità dei peccati
commessi, tenendo tuttavia conto della situazione soggettiva del peccatore ed
eventualmente, come hanno sempre fatto i santi confessori, aiutandolo unendo le
proprie penitenze e mortificazioni a quelle imposte al penitente. Certamente si
richiede a tutti come prima penitenza “la vita nuova”, ovvero la conversione
che necessariamente deve conseguire ad una buona confessione. Ma ad essa si
deve aggiungere la soddisfazione sacramentale imposta dal sacerdote,
l’accettazione serena e gioiosa delle croci e delle tribolazioni inflitte da
Cristo stesso con le sofferenze della vita e infine le proprie opere
penitenziali, liberamente e volontariamente scelte, al di fuori e al di là di
quelle imposte dal sacerdote. Se disgraziatamente il sacerdote omettesse di
dare la penitenza (purtroppo sembra che più diqualche sciagurato confessore
oggi abbia questa malsana abitudine), badi il penitente di chiederla,
ricordando che un’opera penitenziale adempiuta come soddisfazione sacramentale,
ricevendo la sua forza ed efficacia dal sacramento della penitenza, ha un valore
immensamente più grande delle opere satisfattorie compiute di propria spontanea
volontà. Riflettano anche i confessori al danno che provocano sotto tutti i
punti di vista quando non calibrano una buona penitenza sacramentale sia dal
punto di (proporzionata a numero e
gravità dei peccati) che soggettivo (adatta e possibile in base
alla condizione del penitente). Ma riflettano anche quei penitenti
che volontariamente
ricercano confessori con pochi scrupoli, che per peccati
gravissimi impongono come penitenza le famose “tre ave Maria alla Madonna”. La
loro ipocrisia apparirà palese quando si troveranno dinanzi a Cristo Giudice e
al dovere di espiare, con lungo e severo
Purgatorio, tutte le conseguenze dei gravi peccati commessi da cui
speravano, ingenuamente, di poterla “fare franca”. Attenzione al severo monito
della lettera agli
Ebrei: “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Eb 10,31).
Molto meglio assumersi le
proprie responsabilità e cominciare da questa vita, finché si è in
tempo, a fare i conti con le
proprie colpe, pagando i debiti contratti con la divina giustizia.
Insegnamenti tridentini sulla potestà sacerdotale
in questo sacramento
La remissione dei peccati richiede l’esercizio della potestà
d’ordine che solo i sacerdoti possiedono e la confessione ben preparata e
specifica, come più volte abbiamo avuto modo di rilevare, dei peccati commessi.
Una confessione che deve essere “auricolare”. È
dunque anzitutto da riprovare ogni forma di confessione generica con
assoluzione “collettiva” che la Chiesa concede solo in casi del tutto eccezionale
(guerra, calamità o disastri naturali o cose del genere). Va anche bandita
risolutamente ogni forma di confessione in qualche modo
“pubblica”, anche quando fosse
fatta in forme extrasacramentali, prassi che sembra essere in uso
in qualche ambiente di
Chiesa. La tutela della segretezza è assoluta, al punto che il
confessore non solo non può
infrangere direttamente il sigillo sacramentale sotto pena di
scomunica immediata
(quando rivelasse il nome del penitente e i peccati commessi), ma
non può riferire nulla
della confessione, non può dire se un certo penitente si è
confessato da lui, non può usare
fuori della confessione le conoscenze che avesse acquisito durante
essa (nemmeno facendo attenzione a tutelare la privacy del penitente) e non può
nemmeno parlare di esse
nemmeno con lo stesso penitente al di fuori della confessione, né
usarle – come si dice –
per prendere decisioni in foro esterno. Tanto per fare un esempio,
se un parroco ascoltasse in confessione dei gravissimi peccati di un giovane
candidato alla cresima, non potrebbe, sotto pena di peccato mortale, negargli –
per questo – di fare la cresima.
Il luogo proprio della confessione, peraltro, è il confessionale con la presenza della
grata. È, infatti, sacrosanto diritto
del penitente, tuttora tutelato dal diritto canonico, quello di
celare al confessore la propria identità e di non farsi
riconoscere dal confessore. La
confessione deve essere ascoltata! Non è per nulla necessario
(anzi spesso è assai
inopportuno) guardarsi in faccia! Si badi che se il confessore
ascoltasse una confessione dapersona che conosce e questi facesse chiaramente
comprendere che non vuole essere
riconosciuta, il confessore deve trattarla semplicemente come
un’anima, come se non
l’avesse mai vista e conosciuta. La presenza della grata preserva
da moltissime confessioni sacrileghe, perché alcuni peccati dalla materia
scabrosa e fortemente umiliante per il peccatore spessissime volte non vengono
confessati a causa della (comprensibile!) vergogna di doverli dire ad una
persona che ci guarda in faccia! Personalmente disapprovo in grado sommo e
risoluto anche la trasformazione della confessione in una chiacchierata da
salotto, come quando il penitente sta seduto (a volte addirittura in poltrona!)
davanti al confessore omettendo l’importante segno esteriore penitenziale dello
stare in ginocchio. È da biasimare anche la confusione tra confessione e seduta
psicologica, come anche la riduzione della confessione a colloquio di direzione
spirituale. La confessione è un sacramento grandissimo, che deve essere ben
celebrato da confessore e da penitente. Un sacramento dagli effetti mirabili,
se viene vissuto come Dio comanda. Che non deve essere avvilito, sminuito o
travisato.
Trattandosi di un sacramento, il fatto che il sacerdote non stia
in stato di grazia non
influisce minimamente sulla validità del sacramento, cioè sulla
validità dell’assoluzione,
qualora essa sia concessa. È ovvio tuttavia che nella gestione
della confessione e nella
ponderazione di tanti fattori, così come nelle altre attività
(oltre a quella di “giudice”) che
il sacerdote confessore esercita (in particolare quella di maestro
e di medico), una
situazione di vita lontana dalla santità e dalla preghiera da
parte del sacerdote, influirebbe
non poco sulla fruttuosità della confessione. L’assoluzione
rimarrebbe comunque valida,
ma la coscienza del penitente potrebbe uscire traviata da una
confessione con un sacerdote indegno del suo ministero. Ecco perché è bene
avere un confessore personale, da
scegliere dopo lunga preghiera e riflessione.
Ci sono inoltre per la loro gravità alcuni peccati “riservati” al
vescovo (alcuni addirittura al
Papa), perché facendo incorrere in sanzioni canoniche richiedono
la pienezza del
sacerdozio per essere rimessi. Il caso più diffuso è il delitto di
aborto, che per essere assolto richiede l’autorizzazione esplicita del vescovo.
Un sacerdote che ascolti in confessione il delitto di aborto deve rimandare con
carità il penitente, avvertendolo che prima di poterlo assolvere deve avere il
debito permesso canonico. Un’assoluzione data senza questo permesso, oltre che
gravemente illecita, sarebbe invalida. Gli ordini mendicanti (francescani,
domenicani, agostiniani e carmelitani) hanno dalla Santa Sede la facoltà perpetua
di assolvere da questo delitto così come – a meno che non sia mutata la
disciplina con i nuovi Pontefici - i sacerdoti diocesani incardinati nella
diocesi di Roma. Gli altri, salvo diverse ed esplicite concessioni e
disposizioni dei vescovi diocesani locali, no. Badi il penitente in questi casi
di accertarsi che il confessore abbia la potestà di assolvere da questo delitto.
il “potere delle chiavi” connesso alla potestà d’ordine, oltre che per
sciogliere (dai peccati), serve anche per legare e si esercita comminando la
penitenza sacramentale al penitente. Una volta la penitenza si faceva prima e
solo dopo la sua esecuzione si veniva assolti. La prassi attuale è diversa, ma
si badi a non essere leggeri con la scrupolosa soddisfazione di quanto imposto
dal confessore. Non fare bene la penitenza imposta, infatti, costituirebbe
peccato mortale e renderebbe sacrilega la confessione fatta.
L’UNZIONE DEGLI INFERMI
Concilio di Firenze (1438-1445)
Il quinto sacramento è l’estrema unzione, oggi chiamata “unzione degli
infermi”. Questo
sacramento è stato alquanto modificato nelle forme concrete e nei
gesti (non ovviamente
nella forma essenziale e nella sostanza) dalla recente riforma
liturgica, per cui ci limitiamo
ad esporre le affermazioni prettamente dottrinali tuttora
vincolanti. “Il quinto sacramento
è l’estrema unzione, la cui materia è l’olio di olivo benedetto
dal vescovo. Questo
sacramento deve essere amministrato solo ad un infermo di cui si
teme la morte. […] La
forma del sacramento è questa: ‘per questa santa unzione e per la
sua piissima
misericordia, il Signore ti perdoni…[…]. Ministro di questo
sacramento è il sacerdote.
Effetto di questo sacramento è la salute dell’anima, e, se giova
all’anima, anche quella del
corpo. Di questo sacramento il beato apostolo Giacomo dice: ‘chi è
malato chiami a sé i
presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con
olio nel nome del
Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il
Signore lo rialzerà: e se ha
commessi peccati, gli saranno perdonati’ (Gc 5,14s)” (Denz
1324-1325).
La disciplina antica (che abbiamo omesso nella citazione)
prevedeva che l’unzione fosse
fatta su ciascuna delle membra simbolo dei cinque sensi (occhi,
orecchie, narici, bocca e
mani) ed anche sui piedi (simbolo del movimento) e sui reni (che
erano ritenuti essere la
sede del piacere), a significare e realizzare l’invocazione della
misericordia di Dio sui
peccati che si fossero commessi nella vita terrena in tutti i modi
e le forme possibili.
L’attuale disciplina ha semplificato il rito prescrivendo
l’unzione sulla fronte e sulle mani,
simboleggiando in questo modo tutti i peccati commessi in pensieri
e azioni, lasciando
quindi, com’è evidente, inalterata la sostanza circa gli effetti
del sacramento. Effetto di
questo sacramento, infatti, è invocare dalla divina misericordia,
il perdono e la remissione
di tutte le colpe commesse in vita, specialmente quelle
dimenticate o che non si è avuto
tempo o modo di confessare, in particolare quando questo
sacramento venga amministrato a persona vivente ma non più in stato di piena
coscienza. Effetto accidentale è, se così piace a Dio, il recupero della salute
del corpo. L’attuale disciplina consente che si amministri questo sacramento ad
infermi affetti da mali di una certa gravità, senza che sia strettamente
necessario un imminente pericolo di morte, bastando che il male sia tanto
grave e serio da non poter escludere la morte come esito
possibile. In questo senso nella
“salute dell’anima” bisogna dunque comprendere anche quella forza
particolare che la
divina grazia dà al malato di sopportare con spirito cristiano e
con amore le sofferenze
connesse alla malattia, unendosi alla Passione di Cristo ed
offrendo con lui al Padre, in
sacrificio, il proprio patire a sconto dei peccati propri e a
beneficio dei fratelli vivi (per la
loro conversione) o defunti (per una loro più veloce
purificazione).
Bisogna tristemente rilevare – come per molti altri sacramenti –
una grande crisi di fede
circa l’importanza dell’unzione degli infermi. Da quello che oggi
si percepisce, su cento
funerali celebrati nelle Parrocchie la percentuale dei defunti che
ha ricevuto l’unzione si
aggira intorno al 10-20%. La cosa ancor più preoccupante è la
motivazione per cui molti
fedeli si lasciano morire privi di questo importantissimo
conforto: il timore che, “vedendo
il prete”, si impressionino e possano pensare che la morte è
vicina. Eppure è molto chiara
la testimonianza biblica: i presbiteri della Chiesa devono pregare
sul malato e ungerlo e
attraverso questo giungerà al malato la salvezza e la remissione
dei peccati. In realtà la
crisi di questo sacramento è la testimonianza della perdita del
senso autentico della vita e
della morte. Se dopo la morte non c’è più niente oppure, ammesso
che ci sia qualcosa, tutti andranno automaticamente a godere la vita eterna
perché Dio è buono e misericordioso, è evidente che questo sacramento diventa
semplicemente inutile, o meglio una fonte di preoccupazione e vana agitazione
per il malato in fin di vita. Meglio – così si dice – “lasciarlo morire in
pace”. Ma se la vita è una cosa seria, in cui si ha da compiere una missione
ben precisa, alla quale ogni uomo è totalmente inadeguato; e se dopo la morte
ci attende un giudizio che sarà formulato sulla base delle opere da noi
compiute sia in bene che in male, allora si comprende l’estrema importanza di questo
sacramento. Darci in vita quella purificazione necessaria a comparire dinanzi
alla divina Maestà per rendere conto delle nostre azioni e unirci alla grazia
di Cristo perché sereno possa essere il passaggio da questo all’altro mondo e i
nemici della nostra salvezza, nel loro ultimo assalto nel tentativo di
strappare le anime al Creatore, trovino i fedeli corazzati dal sigillo della
croce del Salvatore e dall’olio della fortezza. Preghiamo perché, anche
relativamente a questo punto, torni presto a splendere e brillare la sana
dottrina cattolica, a gloria di Dio e per la salvezza del maggior numero
possibile di anime.
Concilio di Trento (1545-1563)
L’estrema unzione è anzitutto presentata come “perfezionamento”
non soltanto del
sacramento della penitenza, ma di tutta la vita cristiana che
“deve essere una perpetua
penitenza”. Già quest’affermazione sarebbe alquanto da meditare,
in un tempo – come
quello in cui stiamo vivendo – che non solo sembra aver quasi
totalmente smarrito il senso
della penitenza cristiana, ma, attraverso la voce di più qualcuno,
giunge a negarne la
necessità e perfino, nei casi più estremi, l’utilità per la vita
cristiana. Appoggiare simili
posizioni significa alienarsi dal genuino pensiero autentico della
Chiesa, trasmesso dal
magistero e dai santi. Il senso dell’istituzione di questo
sacramento da parte di nostro Signore è quello di “proteggere la fine della
vita con una fortissima difesa”, sulla base della convinzione di fede che se è
vero che “il nostro avversario, per tutta la vita cerca e coglie ogni occasione
per divorare”, moltiplica e concentra i suoi sforzi proprio nel momento della
morte, per portarsi un’anima all’Inferno. Anche questa seconda considerazione, ahimè,
potrebbe addirittura suscitare l’ironia di qualcuno, dal momento che non sono
rimasti in molti a credere nell’esistenza e nell’azione del demonio,
nell’esistenza e reale possibilità
dell’Inferno e di un’eterna dannazione e soprattutto nel fatto che
il nemico della nostra
salvezza lavora incessantemente, giorno e notte, come “leone
ruggente” per la nostra
perdizione. La stragrande maggioranza dei fedeli – parlo con
esperienza di parroco in cura
di anime – muore senza il conforto e l’aiuto dei sacramenti,
perché l’unica preoccupazione
dei familiari sembra essere quella di illudere il moribondo che
vada tutto bene e che la
morte sia ancora lontana, cosa che crollerebbe “se vedesse
arrivare il prete”. Dopo “morti
di tal fatta” - in gran parte di persone certamente brave ma
completamente estranee ad
una vita di fede e alla pratica dei sacramenti - tocca sentire in
molte omelie funebri una
sorta di panegirico o addirittura “canonizzazione anticipata”,
pronunciata tranquillamente
sulla base della solita nefasta dottrina della falsa misericordia
che dà più clienti all’Inferno
di quanti non gliene procuri il dilagare impressionante del
peccato. Anche qui, il sentire
comune attuale stride pesantemente con l’autentico e vero “sensus Ecclesiae”, che era
informato da ben altri parametri, da altre convinzioni e altri
modi di agire.
Il fondamento di questo sacramento è individuato in forma
adombrata nel gesto di ungere
i malati che Gesù ordinò di compiere gli apostoli mandati in
missione (Mc 6,13) ed è
invece chiaramente esplicitato nelle raccomandazioni di san
Giacomo apostolo che invita i
malati a chiamare i presbiteri della Chiesa per farsi ungere con
olio e ricevere la loro
preghiera (Gc 5,14ss). Molto interessante è la descrizione degli
effetti che produce questo sacramento: la remissione dei peccati e dei residui
di peccati di espiare; la trasmissione della forza e della fiducia nella divina
misericordia all’anima del malato; la trasmissione di un grande sollievo per
sopportare più facilmente e serenamente le pene e le sofferenze della malattia ed
offrirle in espiazione; la grazia di saper resistere alle ultime e terribili
tentazioni del demonio. Effetto accidentale, ma in alcuni casi reale, è il riacquisto
della salute del corpo, se ciò giovasse alla salvezza dell’anima secondo il
volere dell’Altissimo.
Le ultime considerazioni riguardano il ministro di questo
sacramento, che deve essere solo
e soltanto il sacerdote validamente ordinato e il tempo di
amministrazione di questo
sacramento, che deve essere conferito solo in presenza di una malattia grave che renda
possibile o imminente il pericolo della morte, motivo per cui era
tradizionalmente
chiamato “sacramento dei moribondi”. L’attuale disciplina consente
qualche margine un
po’ più ampio (per esempio amministrare il sacramento prima di un
intervento chirurgico
che potrebbe essere molto pericoloso), ma è comunque sommamente da
biasimare come
grave abuso la prassi (invalsa - a quanto pare - in più di qualche
Parrocchia) di
amministrare collettivamente questo sacramento durante la Messa
facendo portare in
Chiesa i malati (soprattutto in occasione della giornata mondiale
del malato) e dando a
ciascuno di essi singolarmente l’unzione. Questo sacramento va
amministrato solo ai
malati gravi in possibile pericolo di vita, non ai malati lievi
oppure alle persone colpite in
forma cronica da qualche invalidità, malattia o infermità.
Auspichiamo che le competenti
autorità ecclesiastiche, che già da qualche parte hanno
opportunamente denunciato tale
prassi come abuso, si affrettino ad eliminarlo del tutto, per la
gloria di Dio e l’autentico
bene delle anime. La chiesa ha tentato di non lasciare dubbi riguardo a l’istituzione di questo sacramento
istituito da Gesù Cristo e di conseguenza in vigore dalla Chiesa, sulla sua
importanza e necessità, contrariamente a
quanto affermano invece i
riformisti protestanti e dai quali lasciano
emergere Una grande e imperdonabile ignoranza o quanto meno leggerezza dietro queste obiezioni: la perdita cioè della
coscienza di fede che il momento dell’agonia e del passaggio da questo
all’altro mondo è realmente un momento di grande, anzi di grandissima lotta, in
cui si decide una volta per tutte e in maniera irreversibile la sorte eterna di
un’anima. In questo contesto si concentrano e si moltiplicano gli sforzi dei demoni
per non far pervenire la salvezza (magari all’ultimo istante con un atto di pentimento)
all’anima, oppure, se in grazia, farle commettere qualche gravo peccato (per esempio
di bestemmia o disperazione della salvezza) per portarsela all’Inferno. Questa dottrina
– che potremmo definire comunissima, costante e universalmente tenuta nella Chiesa
anche grazie a innumerevoli testimonianze dei santi – confermata dalle
preghiere che la Chiesa mette in bocca ai suoi figli (“santa Maria, Madre di
Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte”) sembrava essere allora del tutto disattesa, minimizzata o
addirittura ridicolizzata. Ma anche oggi, ahimé, la situazione non è certamente
migliore, anzi! Lungi dall’essere disprezzato, questo sacramento deve essere quanto
mai valorizzato, inculcando nei fedeli la fermissima convinzione di fede circa
la sua necessità per la salvezza dell’anima e circa l’opportunità di essere
amministrato – preferibilmente – quando ancora il fedele si trova in stato di
piena coscienza, perché possa – come dovrebbe – essere preceduto dalla
confessione (con particolare attenzione a eventuali peccati gravi del passato
non confessati o mal confessati) e seguito dal santo viatico, sacramento
anch’esso importantissimo e sovente addirittura totalmente ignorato dai fedeli.
Gli effetti del sacramento dell’unzione, pur sinteticamente descritti, sono importantissimi:
remissione dei peccati e conferimento della grazia. Per questo va comunque amministrato
purché la persona sia ancora viva, senza trascurarlo con il pretesto della sua
inutilità a causa dell’incoscienza della persona. Se il sacramento del Battesimo,
infatti, viene conferito ad un bambino neonato privo dell’uso della ragione e produce
effetti formidabili nell’anima, perché non dovrebbe pensarsi (come si deve) che
tale sacramento va comunque e sempre amministrato, perché, nell’oscurità e nel
mistero di quei momenti di estrema incoscienza (che noi però non conosciamo e
su cui non possiamo e non dobbiamo giudicare con faciloneria!), potrebbe essere
l’ultima tavola di salvezza di un grande peccatore? Chi legge la testimonianza
di Gloria Polo (quanto mai attendibile e veritiera), si accorgerà di come
questa donna racconta che pur essendo in coma – e quindi incosciente agli occhi
degli astanti e impossibilitata a comunicare – vedeva e sentiva tutto quello
che accadeva intorno a sé e si sentiva tirare e risucchiare dai demoni (a cui
la sua anima, anche se lei non lo pensava minimamente, apparteneva)
nell’Inferno e supplicava (con voce non udibile ma con un vero e proprio grido
dell’anima) di non staccare la spina, perché questo avrebbe significato la sua
eterna dannazione. Un filosofo laico disse circa un secolo fa una frase che
dovrebbe invitare tutti – anche noi, figli della Chiesa e uomini di Chiesa – ad
un poco di umiltà e ponderazione: “di ciò di cui non è possibile parlare, è meglio
tacere”. Quindi, non sapendo noi nulla di questo stato particolare, ma avendo
la testimonianza della tradizione e dell’insegnamento ininterrotto della Chiesa
e dei santi circa la serietà e la gravità del momento del trapasso, come ci
permetteremmo di sottovalutare o minimizzare l’importanza di un sacramento
istituito da Gesù Cristo proprio come possibile ultima tavola di salvezza? Non ripetiamo
errori già da tempo – come abbiamo visto – condannati. Ma torniamo sempre a
guardare al cuore e alla
Tradizione della Chiesa che in queste cose non ha mai errato, non
sbaglia e mai potrà
sbagliare.
L’ORDINE
Concilio di Firenze (1438-1445)
Relativamente al sesto sacramento vale quanto osservato, nel
capitolo precedente, a
proposito dell’unzione. Nel senso che l’attuale dottrina, ferma
restando l’immutata
sostanza, ha subito qualche piccolo ritocco e cambiamento dovuto
ad alcune scelte in parte disciplinari, in parte teologiche, come - per esempio
- la decisione di abolire gli “ordini minori” presa, a suo tempo, da papa Paolo
VI, con l’annessa trasformazione del lettorato e dell’accolitato in ministeri
“laicali”. Queste decisioni, che non mutano la sostanza del sacramento
dell’ordine che coinvolge gli ordini “superiori” del diaconato, presbiterato ed
episcopato - e che sono, ovviamente. opinabili (in quanto non soggette a
infallibilità come tutti i provvedimenti ecclesiastici di natura disciplinare)
- rendono chiaramente, almeno allo stato attuale, quanto meno obsolete alcune
affermazioni. Si avanza anche in tempi recenti, sul piano dottrinale, qualche
riserva a far coincidere la “materia” del sacramento dell’ordine con la sola
“consegna degli strumenti” (calice e patena con le specie per il presbiterato,
libro dei vangeli per il diaconato, etc.). C’è chi amplia la materia coinvolgendo
la preghiera di ordinazione o chi, anche in relazione alla problematica dell’ammissibilità
delle donne al sacerdozio, invita a riflettere sul fatto che
“materia” (almeno in un certo senso) del sacramento dell’ordine
possa essere un individuo
battezzato di sesso maschile, il solo che può ricevere tale
sacramento. In effetti, la
dichiarazione solenne di Giovanni Paolo II nella lettera Ordinatio sacerdotalis apre una certa porta in questo senso. Da quello che il
pontefice afferma, infatti, si può dedurre che se, per assurdo, un vescovo
osasse ordinare sacerdote una donna, semplicemente non si
compirebbe alcun effetto in questa creatura, che laica era e laica
resterebbe. In modo
analogo a quello che accadrebbe qualora un sacerdote, sempre per
assurdo, volesse
consacrare in luogo del pane azzimo di farina dei biscotti.
Essendo la materia del tutto
inadeguata non potrebbero compiersi gli effetti del sacramento. La
questione della materia
del sacramento dell’ordine non sembra mai essere stata
solennemente definita e ha
risentito, nel corso del tempo, delle diverse sensibilità e
posizioni sul modo di concepire il
sacerdozio. Potrebbe costituire oggetto di riflessione quanto
appena suggerito. Ma
vediamo le parole testuali di Giovanni Paolo II in merito:
“Pertanto, al fine di togliere ogni
dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla
stessa divina
costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di
confermare i fratelli, dichiaro che la
Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne
l'ordinazione sacerdotale e
che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti
i fedeli della
Chiesa” (OS 4). Vorrei spendere qualche parola a commento di questa
sentenza, stante la pressante attualità di questo argomento, che da più parti
(anche in campo cattolico…) si vorrebbe rivedere e rivisitare nonostante le
chiarissime e vincolanti affermazioni appena
evidenziate. Il tenore della dichiarazione è, infatti, quanto mai
chiaro e solenne. Il
pontefice afferma anzitutto di avere l’intenzione di “togliere
ogni dubbio” su una
questione di vitale importanza attinente alla costituzione divina della
Chiesa. Dichiara di
voler pronunciarsi come Papa, ovvero in virtù del ministero di
confermare i fratelli nella
fede. Conclude perentoriamente affermando la definitività con cui tale sentenza deve essere tenuta da tutti i
fedeli della Chiesa. E formula l’oggetto di essa parlando di “impossibilità da
parte della Chiesa di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale” e che
questa impossibilità, come spiega nei numeri precedenti della breve ma intensa
lettera, dipende dalla volontà chiara ed inequivocabile di Cristo che scelse
Dodici uomini come suoi continuatori e che non volle conferire il sacerdozio
all’unica creatura che, quanto a dignità, avrebbe potuto riceverlo: la sua
Santissima Madre. Tale duplice incontestabile e
ineccepibile dato evangelico è sempre stato ritenuto perentorio e
vincolante dall’unanime
e ininterrotta tradizione della Chiesa e come tale deve essere da
tutti considerato. A mio
modestissimo parere, nonostante vi sia chi avanza dubbi in merito,
tale affermazione può
essere considerata come pronunciata “ex cathedra” e pertanto insignita del crisma
dell’infallibilità. Presenta infatti tutti i requisiti che debbono
avere tale dichiarazioni e cioè:
1. Vertere esclusivamente su materie di fede o di morale;
2. Essere formulate dal
Pontefice nella consapevolezza di esercitare in pienezza il ministero petrino;
3. Intenzione, da parte del
Pontefice, di voler definire e chiudere una certa questione dottrinale in modo definitivo
e irriformabile.
La presenza di questi tre elementi mi sembra chiara e non discutibile
, Pertanto, dal punto di vista della Chiesa cattolica, la questione è chiusa.
Con buona pace di chi continua a prospettare e auspicare improbabili e assai
funeste aperture e aggiornamenti su tale
argomento.
Concilio di Trento (1545-1563)
Il sacramento dell’ordine e, in particolare, il sacerdozio
ministeriale, fu oggetto, a suo
tempo, di negazione da parte dei riformatori protestanti, i quali
sostenevano essere stato
istituito da Cristo il solo sacerdozio comune battesimale, mentre quello che la tradizione
della Chiesa chiamava “sacerdozio” (in senso stretto) non sarebbe
stato altro che una
funzione ecclesiale (non un vero sacramento), svolta principalmente in
vista della
predicazione del Vangelo, della presidenza e del governo della
comunità cristiana e della
celebrazione del sacramento dell’eucaristia. Essendo
essenzialmente una sorta di “lavoro
sacro”, questo “ministero” sarebbe stato esercitabile anche “a
tempo determinato”: nel
senso che, qualora qualcuno si fosse stancato o non se la fosse
sentita di proseguire,
avrebbe tranquillamente potuto tornare ad una vita “pienamente
laicale” senza nessun
tipo di problema. Il Concilio tridentino risponde a queste eresie
con una dottrina articolata in quattro capitoli e otto canoni, unitamente ad
una serie di indicazioni “pastorali e
disciplinari” (rivolte principalmente ai vescovi) che fanno da
postilla al decreto sul
sacramento dell’ordine. La prima grande affermazione di principio
è che già nell’antico testamento esisteva un legame inscindibile tra sacerdozio
e sacrifici cultuali da offrire a Dio. I sacerdoti dell’antico testamento erano
costituiti per offrire doni e sacrifici, funzione sacra che, a partire dai tempi
di Salomone, svolgevano principalmente nel Tempio di Gerusalemme. Essendo stato
istituito da Gesù il nuovo ed eterno sacrificio dell’eucaristia,
necessariamente deve esistere un nuovo sacerdozio che ha sostituito l’antico. Come
detto nel decreto sul santo sacrificio della Messa, ciò venne inaugurato da
Gesù con le parole “fate questo in memoria di Me” pronunciate nell’ultima Cena
in occasione dell’istituzione dell’eucaristia e poi ulteriormente confermato la
sera di Pasqua quando Egli, apparendo agli apostoli riuniti nel Cenacolo,
conferì loro il potere di rimettere i peccati.
La seconda proposizione dottrinale ruota intorno alla complessità
e struttura gerarchica
insita in questo sacramento, comprendente vari ministeri “minori”
(attestati molto
precocemente nella Tradizione della Chiesa) e culminante nei gradi
“superiori”
dell’ordine. Relativamente a questo punto, è da notare che la
dottrina del Concilio di
Trento deve essere letta in maniera congiunta anzitutto con quanto
affermato dalla
Costituzione “Lumen gentium” del Concilio Vaticano II, che afferma esplicitamente la
sacramentalità dell’episcopato; ed anche con il motu proprio “Ministeria quaedam” di Paolo
VI che ha abolito la tonsura, due ordini minori (ostiario ed
esorcista) e il suddiaconato,
lasciando in vita solo il lettorato e l’accolitato definiti però
“ministeri laicali” e pertanto
“sganciati” dal legame diretto con i tre gradi del sacramento
dell’ordine. Una scelta
senz’altro opinabile e discutibile, ma di cui ora bisogna prendere
atto. Alla luce dei
suddetti documenti, la configurazione attuale del sacramento
dell’ordine è così
configurata: diaconato, presbiterato ed episcopato sono i tre
gradi dell’ordine sacro;
lettorato e accolitato sono i ministeri che necessariamente
precedono l’ordinazione
diaconale; quando questi ministeri sono conferiti in vista del
sacerdozio, sono preceduti da
un rito particolare denominato “ammissione” agli ordini sacri. In
ogni caso resta
ovviamente ribadita la gerarchia e l’articolazione complessa di
questo sacramento.
La principale dichiarazione del Concilio in relazione al sacerdozio
ministeriale è senza
dubbio quella della sua vera sacramentalità. Essa anzi è così
forte che si deve insegnare
non solo che l’ordine è uno dei sette sacramenti ma anche
(relativamente al grado del
diaconato e del sacerdozio) che essendo un sacramento non
ripetibile imprime, come il
Battesimo e la Cresima, il sacro carattere, che non può essere in
nessun modo cancellato né tolto, ma che anzi rimane in eterno. Per cui in
nessun caso e in nessun modo, una volta
ricevuto tale sacramento - soprattutto il presbiterato in cui si
usa il sacro crisma per ungere
e consacrare le mani del candidato - si può “tornare indietro”
allo stato laicale.
L’ultima importante considerazione in merito al sacramento
dell’Ordine riguarda
l’eccellenza e la superiorità dei vescovi sui sacerdoti, in quanto
solo essi sono
propriamente i successori degli apostoli, sono chiamati a reggere
la Chiesa di Dio e hanno
quella pienezza del sacerdozio che consente loro di amministrare,
a differenza dei semplici presbiteri, tutti e sette i sacramenti. Se è vero,
infatti, che per alcuni sacramenti è possibile da parte del vescovo delegarne
al sacerdote la potestà di conferirli (ciò vale, per esempio, per il sacramento
della Cresima), tuttavia il sacramento dell’ordine può essere validamente amministrato
solo dal vescovo. Conseguentemente, i sacerdoti si trovano in stato di oggettiva
inferiorità rispetto ai vescovi e ad essi subordinati.
Dopo aver sintetizzato la dottrina del Concilio di Trento sul
sacramento dell’ordine,
procediamo alla lettura e all’analisi dei canoni tridentini su
questo sacramento.
Il ministro ordinato non è
in nessun modo un laico. Non lo è più e non potrà mai tornare ad esserlo. Il
termine “ clero” viene dal termine greco “cleròs”, che letteralmente significa “separato”. Tale
separazione non è certamente da intendersi come una sorta di segregazione in
una élite al di là e al di sopra dei comuni mortali, rivestita di chissà quali privilegi
e avente chissà quali dispense o esenzioni rispetto ai doveri comuni dei
cristiani. Si tratta di una separazione da intendersi come “divinizzazione”,
che eleva il sacerdote in uno stato sublime a cui la sua vita deve sforzarsi di
uniformarsi perché la sua missione sia feconda. Il sacerdote è separato dal
mondo profano solo nel senso che deve riempirsi di Dio, della sua dottrina,
della sua santità, per poter essere inviato di nuovo nel mondo, ma
come uomo di Dio, incaricato di santificare il mondo e, soprattutto,
di aiutare i laici a
santificare il mondo e santificarsi nel mondo. In questo senso, il
disprezzo o quanto meno
la minimizzazione (con conseguente dismissione e caduta in
desuetudine) dell’uso
dell’abito ecclesiastico proprio del clero secolare - che è la veste talare, non il semplice
clergyman che è una mera concessione di alcune conferenze
episcopali - è a mio avviso
quanto mai emblematico della perdita di coscienza e percezione di
questo dato di fatto
assolutamente primario. Un sacerdote non è e non deve essere uguale
al laico. Il sacerdozio ministeriale, insegna il Concilio Vaticano II (non il
Concilio di Trento!!!) nella Lumen Gentium (n. 10), differisce dal sacerdozio comune
dei battezzati non solo per grado (= il sacerdote è superiore al laico perché
ha compiti di guida della comunità cristiana), ma per essenza (= il sacerdozio ministeriale è un’altra cosa, in quanto partecipazione peculiare e del tutto
singolare all’eterno sacerdozio di Cristo finalizzato alla santificazione e
alla salvezza del mondo). L’abito talare è l’espressione di questa “diversità”
intensa come “appartenenza alla dimensione del divino”. Gli abitanti del cielo,
ci informa la Sacra Scrittura, indossano tuniche o lunghe vesti. Il sacerdote
deve essere sempre “uomo di Dio”, come è realmente e oggettivamente diventato dal
giorno della sua ordinazione, ma come può non essere se travisa o, peggio,
tradisce la sua altissima vocazione. L’abito talare ne è espressione esteriore
e perpetua memoria, per sé e per gli altri. La sua dismissione (di fatto, si
badi, non teorica perché l’abito ecclesiastico è tuttora obbligatorio per il
clero) rappresenta un danno più grave di quanto possa a prima vista sembrare. Le
mani del sacerdote sono unte col crisma. Altro che cerimonia inutile! Grazie alla sacra unzione, quelle sono
consacrate e divengono capaci di consacrare e di benedire col potere stesso di Cristo! Le mani del sacerdote sono dunque qualcosa di
assolutamente divino e santo! Il motivo per cui c’era la consuetudine (e c’è
ancora, anche se oggi è quasi
totalmente smarrita) di baciare le mani del sacerdote (e le palme
nel giorno
dell’ordinazione e della prima Messa) non era certamente quello di
rendere un vano o
idolatrico ossequio all’uomo, ma di onorare Cristo che, in virtù
della sacra unzione,
realmente unisce le sue Divine Mani a quelle del suo ministro.
Tanto grandi sono le mani
consacrate del sacerdote che ciò fece dire a san Tommaso d’Aquino
e san Francesco
d’Assisi che solo quelle mani possono osare di toccare la
santissima Eucaristia, che del
resto esse solo generano. Quanto questo oggi si sia completamente
perso e smarrito non è neppure il caso di evidenziare, tanto è palese. Ecco
comunque quello che questi due
grandi (e quasi contemporanei) santi scrivevano in merito:
“La distribuzione del corpo del Signore compete al sacerdote per
tre motivi.
1.
poiché come si è detto egli
consacra in persona di Cristo. Ora, come Cristo consacrò da sé il proprio
Corpo, così da sé lo distribuì agli altri. Come quindi appartiene al sacerdote
consacrare il corpo di Cristo, così appartiene a lui di distribuirlo.
2.
poiché il sacerdote è costituito
intermediario tra Dio e il popolo. Come quindi spetta a lui offrire a Dio i
doni del popolo, così spetta a lui di dare al popolo i doni santi di Dio.
3.
per rispetto verso questo sacramento esso non viene toccato da
cosa alcuna che non sia consacrata: per cui sono consacrati il corporale, il calice, e anche le mani del sacerdote, per poter
toccare questo sacramento. A nessun altro quindi è
permesso di toccarlo, all’infuori di un caso di
necessità: per esempio se stesse per cadere a terra o altri simili (San
Tommaso. Summa Theologiae, III, q. 82,
art. 3)
“E siamo tutti fermamente convinti che nessuno può essere salvato
se non per mezzo delle sante parole e del sangue del Signore nostro Gesù
Cristo, che i chierici pronunciano,
annunciano e amministrano. Ed essi soli debbono amministrarli e non altri” (FF 194)
“Invero, quanto più grande è il ministero che essi svolgono del
santissimo corpo e sangue
del Signore nostro Gesù Cristo che proprio essi ricevono ed
essi soli amministrano agli altri, tanto maggiore peccato commettono coloro che peccano contro di
essi, che se peccassero contro tutti gli altri uomini di questo mondo” (FF 176)
“Voleva che si dimostrasse grande rispetto alle mani del
sacerdote, perché ad esse è stato
conferito il divino potere di consacrare questo sacramento. Se mi
capitasse - diceva spesso- di incontrare insieme un santo che viene dal cielo
ed un sacerdote poverello, saluterei prima il prete e correrei a baciargli le mani. Direi infatti: Ohi! Aspetta, san Lorenzo, perché le mani
di costui toccano il Verbo di vita e possiedono un potere sovrumano!” (FF 790).
IL MATRIMONIO
Concilio di Firenze (1438-1445)
Settimo ed ultimo sacramento è il matrimonio, al riguardo del
quale il Concilio di Firenze
presenta una dottrina chiara e molto puntuale.
“Settimo è il sacramento del matrimonio, simbolo dell'unione di
Cristo e della Chiesa,
secondo le parole dell’Apostolo: “Questo mistero è grande; lo dico
riferendomi a Cristo e
alla Chiesa” (Ef 5, 32). Causa efficiente del matrimonio è il
mutuo consenso, di regola
espresso a parole e di persona. Al matrimonio si assegna un
triplice ordine di beni:
1.
la prole da riceversi e da
educare al culto di Dio;
2.
la fedeltà che un coniuge deve osservare
nei confronti dell'altro;
3.
l’indissolubilità del matrimonio,
in quanto significa l’indissolubile unione di Cristo e della Chiesa. Benché poi
per motivo di fornicazione sia lecito separarsi, però non si può contrarre un
altro matrimonio, perché il vincolo di un matrimonio legittimamente contratto è
perpetuo” (Denz. 1327). Si afferma chiaramente la sacra mentalità del
matrimonio e il motivo principale per cui Gesù ha voluto elevare un istituto
già presente tra gli uomini alla dignità di sacramento: renderlo simbolo
dell’unione tra Cristo e la Chiesa, che è unione totale, esclusiva, indissolubile,
casta e feconda.
L’adagio che sarebbe poi divenuto classico nella terminologia di
questo sacramento (“consensus facit
matrimonium”: “il consenso fa il matrimonio”),
è formulato definendolo appunto “causa efficiente” del matrimonio, in quanto è
il consenso tra i nubendi liberamente espresso a parole ciò che fa sorgere il vincolo
sacramentale perpetuo e indissolubile tra i coniugi. Perché tale vincolo sorga validamente
– e, quindi, una volta sorto sia assolutamente inscindibile da qualunque autorità
umana – è necessario che il consenso abbracci e comprenda i tre “beni” del
matrimonio.
·
l’accettazione e l’educazione
della prole;
·
in secondo luogo la mutua e
fedele unione;
·
infine l’indissolubilità che, pur
essendo radicata già nel diritto naturale (già ad Adamo ed Eva Dio disse: “i
due saranno una carne sola”), è tuttavia sigillata, perfezionata e
radicalizzata dal vincolo sacramentale.
Il Concilio conclude
citando la causa “classica” che rende lecita la separazione, individuandola
nella “fornicazione”, ossia nell’adulterio di uno dei coniugi, ferma restando
l’impossibilità di contrarre un nuovo matrimonio se il precedente era valido.
Per comprendere bene l’altezza e la dignità di questo sacramento
occorre quanto mai
insistere su un punto chiave. Una volta che i coniugi si scambiano
lecitamente il consenso
matrimoniale, dal punto di vista fenomenologico, empirico,
rimangono due individui
distinti; ma, dal punto di vista ontologico, sono non più due ma
“ma una sola carne”, in
un’unità cementata dal “collante divino dello Spirito Santo” (ci
si passi quest’espressione),
che è radicalmente indissolubile. Succede una cosa non molto
dissimile da quando un
sacerdote consacra le sacre specie. Dopo la consacrazione, la
presenza viva e reale di Gesù è legata alla sussistenza delle apparenze del
pane e del vino e rimane integra fino a
quando queste ultime sono materialmente presenti. La presenza di
Gesù cessa solo se e
quando le specie vengono consumate o, in altro modo, completamente
distrutte. Nessuno,
neanche il Papa, potrebbe “sconsacrare” un’ostia consacrata; e se
– per assurdo – si
azzardasse a farlo, quell’atto non produrrebbe il benché minimo
effetto. Similmente,
quando due sposi contraggono validamente il sacramento del
matrimonio, si determina
una forma di appartenenza totale e reciproca che solo il venir
meno (con la morte) di uno
dei due può far cessare; diversamente, se uno osasse sciogliere
questo vincolo,
commetterebbe solo un orribile sacrilegio, che dal punto di vista
sostanziale e ontologico
non produrrebbe alcun effetto o mutamento di fatto. Ecco perché il
sacerdote, dopo lo
scambio del consenso, cita testualmente le parole di Gesù
stendendo la propria mano su
quelle degli sposi ancora unite: “non osi separare l’uomo ciò che Dio unisce”. Cioè non si
azzardi minimamente a fare una cosa del genere, perché un tale
atto sarà completamente
privo di effetti, salvo quello (gravissimo) di costituire delitto
di attentato al matrimonio.
Quando, peraltro, la Chiesa parla di giusta causa di separazione
individuandola
nell’adulterio di uno dei due (peccato gravissimo perché lede il
sigillo esterno di quella
mistica unione), la intende sempre come separazione di fatto e momentanea,
perché il
matrimonio è e resta valido e l’unica soluzione possibile – anche
di un problema così grave – è la riconciliazione e la ricostituzione
dell’unione matrimoniale. Ecco perché, a mio
modestissimo parere, nel caso in cui un matrimonio entri in crisi
ed uno dei coniugi voglia
la separazione legale, nell’attuale ordinamento
giuridico che fa seguire automaticamente il
divorzio ad istanza di una delle
parti decorsi ormai medo di tre anni (ancora per poco…)
dalla sentenza di separazione, non bisogna mai concedere la separazione consensuale
ed opporsi con tutti gli strumenti, anche legali, alla pronuncia della separazione
giudiziale. Diversamente si aprirebbero, anche se involontariamente, le porte
al gravissimo delitto del divorzio che lede direttamente la volontà di Gesù e
la dignità di questo sacramento e che nessuna legge umana né improbabili
“soluzioni pastorali” (suggerite da qualche audace settore della Chiesa),
potranno mai e in nessun modo attenuare o, peggio, legittimare.
Dopo aver chiarito che il consenso degli sposi sigilla
indissolubilmente e per sempre il
vincolo sacro del matrimonio, il Concilio di Firenze, con non
minore chiarezza e incisività,
evidenzia, come si ricorderà, i tre beni del matrimonio, cosi’
come li dicevamo prima :
la prole da accogliere ed
educare;
la fedeltà reciproca dei
coniugi, ovvero il loro amore unico ed esclusivo; l’indissolubilità del sigillo matrimoniale.
E’ bene spendere qualche parola a proposito dei primi due beni,
che nella mente e nel
cuore di non pochi fedeli oggi sono tutt’altro che chiari. Bene (e
fine) assolutamente
primario del matrimonio è ricevere (non fare se e quando si vuole…) i figli ed educarli al
culto di Dio. Come sempre accade nei documenti della Chiesa il
linguaggio è molto preciso e ad esso va posta la debita attenzione. Si parla di
ricevere, non di fare i figli, cosa che vuol far capire
che il figlio è anzitutto un dono di Dio e non un diritto della coppia; che è
inoltre un dovere essere aperti alla ricezione di questo dono e non si ha per
nulla la facoltà (che sarebbe arbitrio) di decidere se fare i figli, quando avere figli e quanti figli fare. I coniugi che non comprendono questo e
pensano che il tema “vita” sia nella loro piena disponibilità, nel senso che
sono loro a decidere se, come, quando e quanti figli fare – e magari, se non vengono,
forzare la natura con inseminazioni o fecondazioni, omologhe o (peggio)eterologhe
– sono in gravissimo errore e non possono affatto illudersi di andare esenti da peccato mortale. In questo senso gli
sposi devono ben comprendere la ragione prima ed ultima della loro unione ed
anche l’unica causa che giustifica la relazione sessuale: trasmettere la vita,
cooperando con Dio (grandissimo onore, ma anche impegnativo onere) alla grande
opera della creazione. La contraccezione, in questa prospettiva, sia che la si attui
con i moderni mezzi chimici o farmaceutici, sia che si ponga in essere al modo
con cui peccava il biblico personaggio Onan (cf Gen cap. 38) “disperdendo il
seme per terra” (sic), sono sempre e gravemente illeciti e impediscono, se non
ci si pente col proposito di non più peccare, sia di essere assolti in sede di
confessione sia di poter ricevere la santa comunione.
Ugualmente il fine e il bene della procreazione detta le regole e
le coordinate
della castità coniugale, per cui sono leciti (anche nel matrimonio)
solo quegli atti che sono
idonei a trasmettere la vita, esclusa ogni altra forma di ricerca
del piacere venereo,
qualunque essa sia. Anche su questo argomento la formazione delle
coppie, oggi, lascia
non poco a desiderare. Una parola va detta, infine, sui cosiddetti
“metodi naturali”, troppo frettolosamente adoperati (spesso in buona fede)
anche da coppie di fedeli devoti e praticanti ben al di là dei limiti
consentiti. L’Humanae Vitae, al riguardo, dice testualmente: “Se dunque per distanziare le nascite esistono seri motivi,
derivanti dalle condizioni fisiche o psicologiche dei coniugi, o da circostanze
esteriori, la chiesa insegna essere allora lecito tener conto dei ritmi
naturali immanenti alle funzioni generative per l’uso del matrimonio nei soli
periodi infecondi e così regolare la natalità senza offendere minimamente i
principi morali che abbiamo ora ricordato”. Si badi bene al tenore delle parole
e al loro significato.
Il Papa usa la parola distanziare le
nascite, non evitare le nascite. Significa che il primo limite ai metodi
“naturali” è che essi possono essere usati a tempo determinato e
non indeterminato. Una coppia che, per esempio, dopo il terzo
figlio usasse sempre i
metodi naturali perché intende “fermarsi lì”, certamente non
rispetterebbe questo limite e
non sarebbe esente da peccato. Il secondo limite è la serietà dei
motivi, per cui quello or
ora menzionato (smettere di procreare), oltre che non essere per
niente serio, è tutt’altro
che lecito. Si parla, infatti, di “condizioni fisiche” (per
esempio una malattia in corso o che
potrebbe essere aggravata da una gravidanza), “psicologiche”
(quali un periodo di stress
notevole, un momento di depressione o esaurimento nervoso, etc.) o
particolari
“circostanze esteriori” (un momento di seria difficoltà economica,
la perdita del lavoro, la
malattia di una persona cara che richiede assistenza, etc.), su
cui la coppia deve esaminarsi attentamente prima di prendere una risoluzione,
perché la liceità del ricorso a tali mezzi dipende solo dalla “serietà di tali
motivi”, sulla cui validità gli sposi saranno giudicati da Dio. In questo
senso, dunque – e solo in questo senso – si parla di procreazione “responsabile”:
non certo nel senso di sostituirsi a Dio nel decidere se e quanti figli fare (e
come e quando farli…), ma nel senso di rispondere con coscienza e generosità ad
una divina chiamata, prendendosi la responsabilità di porre qualche temporanea
dilazione solo quando gravi motivi lo giustifichino o lo richiedano; nulla di
più e nulla di meno. Ecco cos’è un matrimonio secondo Dio, un talamo benedetto
da Dio, un’unione casta e umana santificata dalla sua amorevole presenza.
L’ultimo argomento da trattare per terminare l’articolato discorso
sul Concilio di Firenze è
il secondo dei tre beni del matrimonio: la fedeltà reciproca dei
coniugi, cioè il loro amore
unico ed esclusivo.
Il sacramento del matrimonio, come abbiamo avuto modo di rilevare,
causa tra gli sposi
una realtà ontologica del tutto nuova: come dice Gesù nel Vangelo,
riprendendo il celebre
aforisma del libro della Genesi, gli sposi non sono più due, ma
una sola carne. Il sigillo
dell’una caro viene perfezionato quando gli sposi, dopo aver
celebrato le nozze, compiono
l’atto coniugale. Da quel momento – e solo da quel momento – il
matrimonio è
assolutamente completo e non esiste nessuna autorità umana
(nemmeno il sommo
Pontefice) che abbia il potere di scioglierlo. Gli sposi devono
custodire questo legame
indissolubile con una fedeltà piena e totale, che parte dal cuore
e dalla mente e termina in
una condotta illibata e casta nei confronti delle persone diverse
dal proprio coniuge.
L’adulterio, in questo senso, è peccato gravissimo, in quanto
rappresenta la violazione
diretta di questo sigillo ed è atto che infligge una ferita
mortale alla santità e alla stabilità
del matrimonio. In tempi in cui solo il termine “adulterio” può
forse far sorridere qualche
anima sciagurata - che in mezzo a tanta corruzione abbia perso la
retta percezione del bene e del male – è bene ricordare che nei primi secoli
della vita della Chiesa sorse in campo dottrinale una questione assai spinosa,
che solo il tempo fece risolvere in senso positivo, ma che è bene evidenziare
per prendere coscienza dell’estrema gravità di questo peccato. Si discuteva, a
quei tempi, se ci fossero dei peccati che, per la loro gravità, non potessero essere
rimessi in questo mondo ma solo nell’altro, dopo una vita trascorsa a fare
penitenza. Si badi che almeno fino al V-VI secolo, il sacramento della
penitenza poteva essere celebrato una sola volta nella vita, con una cerimonia
che coinvolgeva tutta la comunità e che veniva gestita direttamente e in prima
persona dal vescovo (non dai semplici sacerdoti). Il peccato, infatti, era
visto con estremo orrore e come del tutto incompatibile con la vita dei figli
di Dio e il sacramento della penitenza come “tavola ultima” a cui aggrapparsi
dopo la tragedia del “naufragio del peccato”. Ebbene cominciò a prendere forma
e corpo la dottrina che ci fossero tre peccati che, per la loro inaudita
gravità, richiedessero una penitenza perpetua e da cui non si poteva essere
assolti in questo mondo, ma solo rimettendosi direttamente alla divina
misericordia.
1.
l’apostasia, cioè rinnegare la
fede cattolica ricominciando a vivere dai pagani; il
2.
era l’omicidio volontario, in cui, ovviamente,
era compreso l’abominevole delitto
dell’aborto;
3.
era appunto l’adulterio, in
quanto considerato un orribile sacrilegio contro la santità del matrimonio, una
vera profanazione, un qualcosa di vagamente simile alla violazione del sigillo
sacramentale operata da quello sciagurato confessore che osasse rivelare i
peccati del penitente. Un vero cataclisma, le cui devastanti conseguenze dovevano
essere riparate con una vita intera di penitenza! Questa posizione non divenne mai
“dottrina ufficiale” della Chiesa e con l’evoluzione della prassi del
sacramento della penitenza (e anche con la possibilità di ripeterlo più volte
durante la vita) si prese coscienza che tutti i peccati, di cui si sia
realmente pentiti, possono essere rimessi dal ministro che agisce in persona Christi, obbediente al mandato di Gesù di perdonare in suo nome
i peccati. Una sua eco, tuttavia, la si può intravedere nell’attuale disciplina
canonica, che individua nell’adulterio l’unico caso in cui è lecito (non certamente buono e ancor meno raccomandato…) al coniuge innocente che
non riesca a perdonare subito e di cuore iltradimento subito interrompere
temporaneamente la coabitazione (non fare separazioni legali!) per prendersi il tempo necessario a
trovare la forza di riuscire a perdonare il colpevole. Si badi che si tratta di
“temporanea interruzione della coabitazione”, nella speranza di poter procedere
al più presto alla perfetta riconciliazione col pentimento del coniuge
peccatore e il perdono concesso da quello innocente. Come sappiamo non c’è in
alcun modo spazio né per separazioni legali, né per divorzi, né ancor meno per
eventuali nuove nozze o relazioni.
La fedeltà coniugale, tuttavia, comincia prima del matrimonio. Al matrimonio bisogna,
infatti, arrivare in condizioni di perfetta castità e integrità
(anche fisica), perché il
significato e i frutti del sacramento del matrimonio possano
essere perfettamente custoditi.
Se il corpo di chi è chiamato al matrimonio appartiene a chi sarà
sua moglie o suo marito,
è ovvio che la fedeltà comincia prima, non solo del matrimonio, ma anche
prima di aver
conosciuto chi sarà colui o colei con cui si dovrà dividere e
condividere la vita. I “no” che
devono essere detti con fermezza, con coraggio e senza compromesso
alcuno nel tempo
del fidanzamento (o dei fidanzamenti), non sono altro che un atto
dovuto nei confronti di
chi ha il diritto esclusivo di avere e di conoscere il proprio
futuro coniuge. Ai ragazzi io
faccio sempre un esempio: avere rapporti prematrimoniali o
contatti sessuali anche minimi
durante il fidanzamento, equivale alla condotta di un seminarista
che, prima di essere
ordinato, osasse celebrare la Messa, oppure fare un battesimo o
anche fare una semplice
benedizione. Con la differenza che, se un seminarista si azzardasse
a fare una cosa del
genere, incorrerebbe nella scomunica e potrebbe dire addio per
sempre ai sogni di
diventare un giorno sacerdote; se due fidanzati vivono come marito
e moglie prima del
tempo, ai nostri giorni, è cosa considerata assolutamente normale
e ci si va
tranquillamente a sposare in abito bianco. Tuttavia nel mio cuore
di povero fedele cristiano
(prima che di sacerdote) sorge una domanda: Ma è giusto? Ma Dio,
di persone che fanno
queste cose con tanta leggerezza e senza alcun pentimento, cosa
penserà? Domande certo retoriche, ma che giro al lettore perché mediti e
rifletta… La corruzione dilagante non
cambia di una virgola la legge di Dio. Rende solo più difficile
viverla. Ma maggiore sarà
anche la ricompensa di coloro che sanno essere puri e casti in
mezzo a tanta sporcizia e
squallore…
Concilio di Trento (1545-1563)
L’ultimo sacramento analizzato dal Concilio di Trento è quello del
matrimonio. I
riformatori protestanti avevano attaccato anche la santità di
questo sacramento,
sostenendo che al massimo poteva considerarsi una semplice
benedizione e contestando la dottrina dell’unicità, dell’indissolubilità,
nonché la disciplina della Chiesa circa gli
impedimenti “dirimenti” (questione alquanto tecnica e spinosa, su
cui, in questa sede, è
opportuno soprassedere). Il Concilio afferma solennemente
l’indissolubilità del
matrimonio, individuandone, in maniera quanto mai opportuna il
fondamento primo non
nella sua natura sacramentale (sopravvenuta solo con l’avvento di
Cristo), ma nella legge
naturale e precisamente nelle solenni parole ispirate da Dio e
contenute nel libro della
Genesi (Gen 2,24: “i due saranno una sola carne”).
A queste parole, Cristo aggiunse esplicitamente la loro naturale
conseguenza di non
separare quello che Dio ha congiunto ((Mt 19,6) e san Paolo
affermò esplicitamente, nel
quinto capitolo della lettera agli Efesini, la natura sacramentale
acquisita dal patto nuziale
in forza della Passione di Cristo (cf Ef 5).
Il matrimonio e’ un
vincolo di assoluta indissolubilità e
nemmeno gravissimi motivi come l’ adulterio
subito, l’assenza esagerata di un coniuge
oppure la molestia della convivenza possono legittimare lo
scioglimento del matrimonio
validamente celebrato, che non può essere sciolto in nessun modo e
in nessun caso da
nessuna autorità umana. L’unico rimedio possibile, in situazioni
estreme, è “l’interruzione
della coabitazione” (si badi: non la separazione legale) che può
essere a tempo determinato o indeterminato e che, nell’attuale disciplina della
Chiesa, è consentita (anche se mai consigliata) solo in due casi: adulterio di
uno dei coniugi; presenza di gravi fatti che
rendano la convivenza impossibile o pericolosa sotto il punto di
vista fisico o morale per
uno dei coniugi o per i figli. Addirittura in questo secondo caso
il Codice di Diritto
Canonico prevede il previo consenso “dell’Ordinario”, che si può
lecitamente omettere
solo nel caso in cui il ritardo della separazione (di fatto)
potesse compromettere i beni in
pericolo. Mi permetto di esporre le mie personali riserve - salvo
ovviamente singoli casi
concreti in cui potrebbero sussistere delle gravi motivazioni per
procedere in questo senso
- circa il ricorso all’eventuale separazione civilmente dichiarata con sentenza, soprattutto
quella consensuale. Il motivo è molto semplice. Nella mente della Chiesa
(e nel disegno
divino), il matrimonio è un bene che va tutelato il più possibile.
Anche quando
intervengano gravi episodi che minimo il matrimonio e la sua
stabilità, tuttavia dentro un
orizzonte di fede e di vita cristiana, la speranza è sempre che,
prima o poi, si giunga ad
una riconciliazione e rappacificazione degli sposi, essendo il
matrimonio e la famiglia beni
assolutamente da tutelare. Purtroppo l’Italia ha approvato, fin
dal 1970, la disciplina che
consente il divorzio, il quale può essere pronunciato solo (almeno fino al momento in cui si
sta scrivendo) se preceduto dalla separazione legale. In questo
senso, la separazione legale, che di per sé potrebbe anche considerarsi lecita
(pur con qualche riserva), diventa la conditio sine qua non per la pronuncia di un futuro divorzio a cui entrambi i coniugi,
anche se non andassero più d’accordo, devono opporsi. E’ noto, purtroppo, che
la separazione può anche essere pronunciata su istanza di una sola delle parti;
quindi qualora uno insistesse, sarebbe possibile solo resistervi in sede giudiziale.
Questo comportamento appare doveroso, almeno per la parte che volesse
continuare a credere e tutelare sotto tutti i punti di vista, l’indissolubilità
del matrimonio. Si tratta in sostanza di un istituto inutile: la semplice
interruzione della coabitazione (separazione di fatto), basta e avanza a tutelare le situazioni problematiche che
possono insorgere, senza mettere a repentaglio la sacralità e indissolubilità
del sacramento, tuttavia, in caso di rottura del matrimonio, “l’uno e l’altro
coniuge (perfino l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio) non
possono, mentre vive l’altro coniuge, contrarre un altro matrimonio, e che,
quindi, commette adulterio colui che, lasciata l’adultera, ne sposi un’altra, e
colei che, scacciato l’adultero, si sposi con un altro”. Come tutti i canoni,
anche questo è posto sotto il sigillo della scomunica. Dinanzi a tanta
chiarezza, mi chiedo come sia possibile anche solo prospettare la possibilità
di accesso alla comunione sacramentale o ad altri uffici ecclesiali (padrino o
madrina, lettore o lettrice) per le coppie (di fatto) che si trovano in questa
condizione. L’unico caso, previsto a suo tempo dalla Familiaris Consortio
di Giovanni Paolo II, che consente una riconciliazione - a
condizione di vivere in perfetta
castità - senza sciogliere la convivenza adulterina è il caso in
cui dalla nuova coppia siano
nati dei figli, che hanno diritto - loro sì - di crescere insieme
al padre e alla madre. In
questo caso, fermo restando il “voto di castità” - debitamente
tutelato con opportune
precauzioni - è possibile alla coppia ottenere l’assoluzione e
comunicarsi in Parrocchie
dove la loro posizione irregolare sia sconosciuta. Fuori di questo
caso, non si vede alcuna
possibilità di come una coppia in stato di oggettivo e perpetuo
adulterio possa essere nelle
condizioni di ricevere l’assoluzione sacramentale e accostarsi
alla santa comunione. Il
Vangelo e questo canone del Concilio di Trento rappresentano ostacoli
assolutamente
insormontabili. Chiuderei con un accenno al canone dieci che
afferma l’oggettiva eccellenza della verginità sul matrimonio, verità alquanto
ovvia, ma che deve essere ben compresa. Gesù, la Madonna e san Giuseppe, sono
stati vergini e assolutamente casti, dando con la loro vita ovvio esempio
dell’eccellenza e della sublimità di questa virtù. Ciò, tuttavia, non comporta in
nessun modo uno sminuire il matrimonio, che è e rimane “sacramentum magnum”; né significa che tutti i vergini siano, ipso facto, santi e tutti gli sposati invece debbano con molta
difficoltà sforzarsi di diventarlo (magari con poche possibilità di riuscirci).
Ci sono sacerdoti, frati e suore indegni del loro altissimo ministero e che
andranno all’Inferno prima e a maggior ragione di tanti laici; e coppie di
santi sposi e genitori che rifulgeranno come stelle nel firmamento del cielo.
L’oggettiva eccellenza di uno stato non significa automatica e soggettiva santità di coloro che lo hanno scelto. Questa, come sempre,
dipende dal libero arbitrio e dall’uso che si fa dei doni ricevuti da Dio e
delle grazie particolari per santificarsi (e santificare) dentro lo stato di
vita che si è abbracciato.
A completamento di questo meraviglioso libro desidero Lodare e
Ringraziare il Signore per l’immensa Grazia che mi ha donato permettendo di
conoscere la Sapienza racchiusa in questi Sacramenti cosi’ come risulta nel Magistero
della Chiesa Cattolica, desidero esaltare la Bonta’ che il Signore ha avuto con me nel permettere
che diventassi una piccola operaia nella sua Vigna e la vostra fedeltà a seguire il mio umile
operato
La Pace
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