Con
San Paolo sulla via della Salvezza
Continuiamo il nostro viaggio verso le catechesi che San Paolo ci offre sulla Bibbia seguendo gli appunti tratti Don Antonio Schena. Nella prima lettera ai Corinzi un secondo quesito riguardava l’uso delle “carni
immolate agli idoli”, dette appunto
con termine greco “idolotiti”.
Per
rendersi conto della gravità di questo problema di coscienza,
bisogna riportarsi alla Corinto
pagana
del tempo di Paolo. Nella società antica non c’era festa o
manifestazione pubblica di
qualche
rilievo che non venisse consacrata con speciali sacrifici alle varie
divinità. La carne delle
vittime
immolate nei templi greci, veniva in parte bruciata, in parte
consumata dai sacerdoti, e una
parte
notevole della carne, proveniente da quelle bestie immolate agli
idoli, era venduta ai macellai
e
quindi messa sui mercati.
Queste
celebrazioni non erano solo eventi religiosi, ma facevano parte della
vita sociale: al pasto
prendevano
parte amici, parenti e conoscenti, soprattutto nelle case private.
Ecco il quesito: il
parente
cristiano può partecipare con i familiari o con gli amici a questi
banchetti o consumare in
privato
quelle carni immolate agli idoli e poi vendute? Paolo, rispondendo a
questa domanda,
distingue
due gruppi tra i cristiani.
-
Quelli che possiedono una coscienza illuminata sulla libertà
cristiana, sanno bene che gli
“idoli”
non esistono (v. 4). Essi possono tranquillamente mangiare le carni
ad essi
immolate,
perché sono carni comuni.
-
Altri però, alcuni giudeo-cristiani, che ancorati alle leggi
giudaiche sulla purità e impurità
legale,
rifiutano le carni immolate agli idoli (v. 7), provano scrupolo
davanti ad esse e non
solo
non ne mangiano, ma ricevono scandalo se vedono altri mangiare (v.
10).
Si
impone, perciò, a chi “sapeva” di regolarsi non tanto secondo la
“scienza” quanto secondo la
“carità”,
per non perdere anche un solo “fratello” per il quale Cristo è
morto (v. 11). Meglio allora
rinunciare
a “mangiare la carne, per non scandalizzare il fratello (v. 13).
L’Apostolo
riprendendo il discorso precedente, illustra e rinnova il suo invito
a rinunciare, per
amore
degli altri, all’esercizio dei propri diritti ricordando il suo
stesso comportamento riguardo ad
alcuni
suoi diritti apostolici. Fra questi diritti ricorda quello di farsi
sostenere (“mangiare e bere” v.
4)
dalla comunità, senza dover lavorare (v. 6) per procacciarsi il
vitto quotidiano: diritto sacrosanto,
a
cui non avevano rinunciato neppure gli “altri Apostoli” (da
intendersi in senso lato, come in Rom
16,7;
quelli cioè che hanno il carisma dell’apostolato: 1 Cor 12,28), né
i “fratelli del Signore” (sono
i
numerosi parenti di Gesù già ricordati nel Vangelo e che nella
primitiva Chiesa godevano di
particolare
prestigio), e neppure Cefa (v. 5), ben noto agli abitanti di Corinto
se c’era addirittura un
partito
che si rifaceva a lui.
Paolo,
non solo ha rinunciato a questo diritto di farsi sostenere dalla
comunità, lavorando per
procurarsi
il cibo, ma ha rinunciato anche a portarsi dietro “una donna
sorella”22,
come fanno gli
altri
apostoli. E questo dovrebbe bastare per sua “difesa” (v. 3).
Perché
a qualcuno non sembri strana la rivendicazione del diritto al
sostentamento, l’Apostolo
espone
cinque motivi a favore di tale diritto.
1)
L’esperienza quotidiana della vita, per cui è ovvio che il soldato
o l’agricoltore o il pastore
debbano
percepire del frutto delle loro fatiche (v. 7).
2)
L’autorità della Bibbia (Deut 25,4). Se Dio rivendica perfino ai
“buoi” (vv. 8-9) il diritto al
cibo,
derivante dal loro lavoro, tanto maggiormente ciò dovrà valere per
gli Apostoli, i quali
esigono
molto meno di quello che danno. Che cosa sono, infatti, i beni
“materiali” in
confronto
di quelli “spirituali”? (v. 11).
3)
L’esempio degli “altri”, che venivano sostenuti economicamente,
sia i veri Apostoli (v. 5),
sia
soprattutto gli “pseudo-apostoli” che a Corinto gli minavano il
terreno e “sfruttavano”
addirittura
(2 Cor 11,13.20) quei poveri cristiani. Paolo, pur avendo maggiore
diritto degli
“altri”,
vi ha rinunciato di propria iniziativa, per non “porre alcun
intralcio al Vangelo di
Cristo”
(v. 12).
4)
La prassi cultuale sia dell’AT (Lev 6,16.20; Num 18,8.31; Deut 18,1
ss), sia delle religioni
pagane,
per cui i sacerdoti traevano il loro sostentamento dai sacrifici
offerti sull’ “altare”
(v.
13).
5)
Per ultimo, il “comando” stesso del Signore (Mt 10,10; Lc 10,7):
chi predica il Vangelo (v.
14),
deve “vivere del Vangelo” (Gal 6,6; 1 Tim 5,18), ma non
“arricchirsi del Vangelo”,
come
osserva S. Giovanni Crisostomo.
Pertanto
Paolo conclude che, pur avendo diritto al sostentamento da parte
della comunità, non ne
ha
“usato”, né intende usarne per l’avvenire allo scopo di non
perdere il suo “vanto” (v. 15). Infatti
non
da sé stesso ha scelto di diventare Apostolo ed “evangelizzatore”
(v. 16), ma è per la
benevolenza
di Dio che gli è stato “affidato” tale “incarico”. Perciò
la sua “ricompensa” (v. 17) egli
non
potrà ricercarla nell’avvalersi dei diritti conferitigli
dall’apostolato, ma nel compiere qualcosa
che
vada al di là del semplice dovere e che sia proprio e tutto “suo”.
Non si può essere premiati per
un
proprio dovere compiuto.
La
ricompensa Paolo se l’aspetta (v. 18), ma unicamente sulla base di
ciò che egli
aggiunge
“in più” al “suo” dovere di “evangelizzatore”.
Il
primato della “carità” Paolo lo ha riconosciuto non soltanto nel
caso della rinuncia al
sostentamento,
ma in ogni evenienza della sua vita. Per questo si è messo a
disposizione di tutti,
quasi
fosse il loro “schiavo”, “per guadagnare il più gran numero”
(v. 19).
Con
i Giudei, che ancora riconoscono la validità della “Legge”
mosaica, si è comportato da Giudeo
sottomettendosi
alla Legge “pur non essendo sotto la Legge” (v. 20). Con i
pagani, che non
osservano
la Legge mosaica, neppure lui l’ha osservata, ben sapendo che è
solo la “legge di Cristo”
che
ormai conta (v. 21). Anche “con i deboli di coscienza” si è
adattato al loro modo di agire (v.
22),
rinunciando per sempre a “mangiare carne”, per non “scandalizzare
il fratello” (8, 13). In una
parola
si è “fatto tutto a tutti per salvare in tutti i modi qualcuno”,
perché solo per questa via egli
sa
di poter “partecipare” insieme a tutti gli altri ai beni eterni
promessi dal Vangelo (v. 23).
Questa
“partecipazione” ai beni promessi dal Vangelo non è però cosa
facile perché esige dai
cristiani
un impegno molto serio, fatto di privazioni e di rinunce. Tutto
questo l’Apostolo lo fa
capire
mediante un’immagine sportiva, che doveva essere familiare ai
Corinzi, i quali ogni due
anni
vedevano svolgersi sotto i loro occhi i famosi Giochi Istmici,
celebri in tutta la Grecia e in
tutto
il mondo antico.
I
partecipanti a tali giochi erano numerosi, tutti i “corridori” si
sottoponevano a una rigorosa
disciplina
atletica “contenendosi” in ogni cosa, nella speranza di
“conquistare” la palma della
vittoria,
uno solo però riportava il “premio” (v. 25).
A
maggior ragione, dice l’Apostolo, i cristiani devono “contenersi
in tutto” rinunziando perfino a
ciò
che potrebbe essere onesto e giusto, pur di raggiungere la corona
“incorruttibile”. Anzi,
siccome
per i cristiani la posta in gioco è immensamente più grande, anche
le più penose rinunce
dovrebbero
apparire una cosa di poco conto.
Proprio
perché consapevole di questo, Paolo per primo si è imposto i più
duri sacrifici rinunciando
ai
suoi diritti, per non correre il rischio di venire “squalificato”
proprio lui che ha “predicato agli
altri”
(v. 27). Neppure gli Apostoli hanno il posto prenotato per il
Paradiso! Come è commovente
questo
senso di umiltà e di preoccupazione di Paolo per il suo avvenire
spirituale, perciò il suo
allenamento
spirituale è diligente e continuo, appunto per non correre “a
casaccio” e non “battere
l’aria”
(v. 26). Il
v. 27 più che alludere a mortificazioni e a macerazioni volontarie
del proprio “corpo”, si riferisce alle
fatiche dell’apostolato che non consentivano troppi riguardi o
delicatezze per il corpo.
Si
apre con questo capitolo una meditazione sull’esodo biblico, evento
che da una parte ricorda la
vicenda
degli Israeliti, dall’altra diventa ammonimento anche per i
cristiani. Paolo, infatti, usa la
parola
greca typos (“esempio”,
“modello” v. 6) in riferimento all’una e all’altro.
Il
“passaggio attraverso il Mar Rosso” è
letto come immagine del battesimo: gli Ebrei furono
“battezzati
in rapporto a Mosè”, i cristiani in rapporto a Cristo.
La
“roccia”, da cui
era scaturita l’acqua per gli Ebrei, secondo l’interpretazione
giudaica, è
testimonianza
dell’amore di Dio. Per Paolo, invece, la “roccia” è segno di
Cristo Risorto, il quale è
la
fonte dello Spirito, che disseta i credenti in lui.
La
“manna” e
“l’acqua” sgorgata
dalla roccia sono segni profetici dell’eucaristia. Paolo li chiama
cibo
e bevanda “spirituale” a motivo del loro valore prefigurativo.
Dell’itinerario
nel deserto sinaitico vengono qui ricordate le infedeltà e le
ribellioni di Israele (Es
32,6).
Esse scatenarono il giudizio divino, che si servì ora dell’angelo
sterminatore (Esodo 12, 21-
28),
ora dei serpenti velenosi per condannare questo “mormorare”
contro il Signore, termine usato
dall’Esodo
per definire la sfiducia del popolo nei confronti del Signore. Tutto
questo deve essere
lezione
anche ai cristiani. Come nell’eucaristia noi partecipiamo
intimamente al Corpo e al Sangue
di
Cristo sotto il segno del pane e del vino, così nei banchetti sacri
idolatrici c’è una comunione
non
tanto con gli déi che non esistono quanto piuttosto con i demoni.
Perciò
bisogna essere attenti a queste partecipazioni, pur rimanendo sereni
per quanto riguarda i
consumi
di carne immolata agli idoli e venduta al mercato: ogni realtà,
infatti, appartiene al vero
Dio
che ne è il Creatore e il Signore. Se poi, in un pranzo si è
invitati, e qualcuno fa notare che si
tratta
di carne immolata agli idoli, sarebbe meglio astenersi per non creare
imbarazzo o scandalo
agli
occhi degli altri.
In
definitiva, qui Paolo ritorna a un principio già accennato prima: le
scelte che si fanno, nella
libertà
e nella carità, devono essere orientate alla gloria di Dio e alla
salvezza di tutti. In questa
linea
l’Apostolo si presenta come modello da imitare perché egli ha
sempre scelto Cristo come
modello
del suo agire. San
Paolo fa delle raccomandazioni di carattere pratico: l’Eucarestia
non si
celebri
prima che tutta la comunità sia riunita (v. 33). Ogni banchetto che
non sia quello eucaristico
sia
escluso dalla riunione sacra. Si elimini perciò l’ “àgape”
fraterna, che servirebbe solo alle
intemperanze
dei più affamati (v. 34). Circa
i carismi, Paolo descrive prima la loro origine e il loro fine (12,
1-31), quindi dà delle norme per
regolarne l’uso (14, 1-40);
La
prima cosa che insegna loro è il modo per poter distinguere i veri
“carismi” dalle contraffazioni
del
paganesimo24 (vv.
1-2). I “carismi”
o “doni spirituali” sono tutt’altra cosa: essi costituiscono
delle
autentiche manifestazioni del divino, che portano alla piena
confessione della divinità di
Cristo.
Altrimenti sarebbero inutili o addirittura dannosi, perché
potrebbero convalidare le
contraffazioni
diaboliche del paganesimo. A Corinto potevano forse essersi
verificati dei casi in cui
qualche
cristiano, immaginandosi invaso dallo Spirito, aveva reagito dicendo
“maledetto sia Gesù”
(v.
3): questo era un
segno evidente che lo Spirito era estraneo al fenomeno. Al contrario
tutte le
volte
che si professa chiaramente e con convinzione che Gesù è il
“Signore”, si può essere sicuri
che
il “carisma” viene davvero dallo Spirito, perché illuminato
dalla grazia.
Enunciato
così il criterio discriminante delle autentiche manifestazioni dello
Spirito
(manifestazioni
che portano alla fede nella divinità di Gesù), l’Apostolo passa
ora a descrivere la
varie
specie dei “doni spirituali”, di cui afferma, nello stesso tempo,
l’unicità di origine: “Vi sono
diversità
di carismi ma uno è lo Spirito…” (v.
4). Tutti sono
destinati al “bene comune” (v.
7),
perciò
non devono essere motivo di scissione o di gelosia, ma di concorde e
generosa edificazione
del
Corpo di Cristo. L’elenco presente (vv. 8-10) abbraccia
9 carismi, di cui non è sempre facile descrivere singolarmente
l’intima natura, data la mancanza di confronto di fenomeni simili
in epoca
successiva. Vediamoli
a uno a uno.
I
primi due il “linguaggio della sapienza” e
il “linguaggio della conoscenza” hanno
quasi lo
stesso
significato, cioè la capacità di approfondire e comunicare
l’esperienza cristiana. Questi due
riguardano
i “doni spirituali” della scienza.
I
tre successivi sono operativi: “Fede” poi
“guarigioni” e
“operazioni di miracoli”.
Qui la “fede”
non
designa tanto l’adesione intellettiva a una verità rivelata ,
quanto piuttosto la “fede che opera
prodigi”,
come viene esplicitato in 13,2. Richiamando un detto di Gesù (Mt
17,20) Paolo pensa ai
gesti
prodigiosi, ai miracoli, operati dalla fede.
La
“profezia” e il
“discernimento degli spiriti” sono
“carismi” complementari, così come il “dono
delle
lingue” e la loro “interpretazione”
(v. 11).
La “profezia” non era soltanto predizione delle
cose
future (Atti 21,10 ss) e svelamento del segreto dei cuori (1 Cor
14,25), ma più ordinariamente
discorso
di “edificazione”, di “esortazione” (1 Cor 14,1 ss). Il
“discernimento degli spiriti” doveva
essere
posseduto principalmente dai capi delle comunità per distinguere i
veri dai falsi profeti. Il
“dono
delle lingue” (cioè il dono di saper comunicare esperienze
mistiche) di cui i Corinzi
dovevano
essere particolarmente avidi, è collocato per ultimo, quasi per dire
che in realtà non
meritava
la stima esagerata che le veniva attribuita.
Al
termine della sua enumerazione l’Apostolo tiene a ribadire che
tutti questi “carismi” derivano
dallo
stesso “Spirito”, e perciò non devono essere motivo di
discordia; chi non li possiede sia
contento
lo stesso; chi li possiede non vada in superbia; chi possiede i
“carismi” più umili non
abbia
invidia di chi possiede i più importanti. Non accettare questa
realtà sarebbe come recriminare
contro
lo Spirito Santo che “distribuisce singolarmente a ciascuno come
vuole” (v. 11).
Nel
corpo umano non capita forse altrettanto? Le membra sono “molte”
e, pur esercitando funzioni
diverse,
tutte tendono al bene comune del corpo (v. 12).
Questa
metafora del “corpo”, Paolo la prende dal mondo greco-romano (che
la usava per
sottolineare
l’unità dello Stato e delle componenti sociali) e soprattutto
dalla filosofia stoica.
Egli,
però, dichiara che questo corpo è quello di Cristo: come Gesù
durante la sua vita terrena
parlava,
agiva e salvava attraverso il suo corpo fisico, così ora egli opera
e comunica attraverso la
Chiesa,
che è il Corpo di Cristo Risorto in azione nella storia. Attraverso
il battesimo i cristiani
costituiscono
questo corpo, animato dallo stesso Cristo, e nella diversità delle
loro caratteristiche,
cioè
dei “carismi”, manifestano la vitalità dell’organismo.
Tutti
sono necessari all’armonia e alla pienezza di questo corpo, anche
quegli organi che a prima
vista
sembrerebbero secondari. Anzi, per la logica della croce, essi
dovrebbero essere oggetto di
maggiore
attenzione e affetto da parte dell’intera comunità-corpo.
Il
brano ci presenta la carità (agàpe)
intesa soprattutto come amore soprannaturale, quello che la
teologia
definisce la virtù della carità. Viene
chiaramente distinta (v. 3) dalla filantropia
(dal greco “philanthrópía”, 'amore per
l'uomo', essa
è una disposizione dell'animo a iniziative umanitarie che si traduce
in attività dirette a realizzarle.
Il principio stoico dell'amore dovuto all'essere umano) e dall’umanitarismo (l'insieme delle
idealità e degli intenti di chi dirige il proprio pensiero e la
propria azione all'elevazione materiale
e morale degli uomini).
L’agàpe
non è il gioco delle simpatie o degli interessi che possa produrla,
ma solo l’amore sincero
verso
Dio, di cui vediamo i luminosi riflessi in ogni creatura, anche se
abbruttita dal male. Anzi,
questo
è l’unico modo per il cristiano di accertarsi che il suo amore
verso Dio, difficilissimo da
controllare,
sia genuino: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può
amare Dio che non
vede”
(1 Gv 4,20).
Della
carità così nobilmente intesa l’Apostolo descrive prima la
superiorità su tutti i “carismi” (vv.
1-3),
poi le caratteristiche (vv. 4-7), infine la durata (vv. 8-13).
Nessun
carisma vale quanto la carità: essa costituisce l’essenza della
vita cristiana, essa è
“paziente”,
sopporta le ingiurie e i torti; è
“benevola”, disposta
a fare del bene a tutti; “non è
invidiosa”
del bene del prossimo; “non
si gonfia dei propri pregi”; “non manca di rispetto”, anzi
è
delicata; “non cerca i le proprie cose”, è
disinteressata; “non si irrita”, cioè
non perde la
serenità;
“non tiene conto del male” ricevuto;
“non si rallegra delle ingiustizie, si
rallegra invece
della
verità”.
Essa
“tutto copre” col
manto della bontà, pronta a scusare tutto; “tutto
crede”, dando fiducia al
prossimo;
“tutto spera”, mai
arrendendosi di fronte alle situazioni anche più disperate; “tutto
sopporta”,
anche i fallimenti, le ingratitudini.
Mentre
tutto ciò che è creato passa, la carità è eterna, non tramonta
mai, essa si identifica con Dio
“carità”,
l’Intramontabile. Il traguardo finale verso cui tende la carità è,
quindi la comunione piena
con
Dio nell’incontro definitivo. I doni spirituali sono transitori e
temporali, in paradiso non
avremo
più bisogno dei carismi, così come l’uomo maturo non ha più
bisogno dei giocattoli della
sua
infanzia. Anche le nostre conoscenze “imperfette e parziali”,
saranno sostituite dalla visione
chiara
di Dio, suprema Verità.
La
conoscenza “faccia a faccia” di cui un giorno godremo, significa
una conoscenza diretta,
immediata,
non più attraverso i veli delle cose create (nello specchio non si
vede l’oggetto in sé, ma
il
suo riflesso) o della fede. La nostra conoscenza rassomiglierà alla
conoscenza stessa di Dio:
“Allora
conoscerò perfettamente come anch’io sono conosciuto” (v. 12).
Come Dio vede tutto in sé
stesso,
così noi lo vedremo in sé steso, cioè nella sua intima essenza. Si
noti però che il paragone
dell’Apostolo
è solo sul “modo” della conoscenza e non nella sua esplicita
estensione e
comprensione:
il finito non potrà mai esaurire l’infinito!
Come
conclusione ultima, Paolo esalta la superiorità della carità sulle
altre virtù, infatti, alla fede
succederà
la visione, alla speranza il
raggiungimento del fine (Rom 8,27), la carità
non tramonterà
mai,
perché Dio stesso è “carità” (1 Gv 4,8).
In
ordine gerarchico, c’è la carità, al vertice, poi la profezia e
il dono delle lingue. Perché la
profezia
è superiore al dono delle lingue? Il profeta “esortando” e
“consolidando”, “edifica” tutta
l’assemblea
(v. 4) facendola crescere spiritualmente. Il “dono delle lingue”,
invece, è qualcosa di
inintelligibile
per la comunità, in quanto lo Spirito rivelando “cose misteriose”
(v. 2), edifica solo
chi
ha ricevuto questo dono. Il cristiano deve sempre tendere a essere
come un bambino quanto a innocenza morale, ma deve essere come un
uomo maturo non vantandosi delle sue doti personali.
Paolo
conclude dicendo che il dono delle lingue, come i contemporanei di
Isaia, è dono destinato ai miscredenti, mentre la profezia è
destinata ai credenti, e non solo, essa infatti è vantaggiosa anche
ai non credenti. Se per ipotesi durante un’assemblea plenaria
entrasse un estraneo e ascoltasse coloro che“parlano in lingue”,
ne uscirebbe convinto ritrovarsi in manicomio. Il contrario, se
questo estraneoascoltasse un “profeta” ne resterebbe edificato
ascoltando parole efficaci e suadenti, cosicché sisentirà
illuminato e indotto alla conversione e alla fede in Dio, presente
“in mezzo a noi”.
Dopo
aver chiarito la differenza tra “profezia” e “dono delle
lingue”, l’Apostolo passa ora a
regolare
l’uso dei “carismi” nelle pubbliche assemblee. La prima regola
dunque da osservare è la
“edificazione”
dell’assemblea. Tutti i carismi, qualunque essi siano (dono di
“insegnamento”, di
“lingue”,
di “salmi” improvvisati, ecc…), devono mirare a questo,
altrimenti ci sarebbe da
sospettare
della loro genuinità.
Per
quanto riguarda i glossolali, si impone loro di parlare una sola
volta, al massimo tre persone, ma
uno
per volta, e che ci sia sempre un interprete (v. 27); in mancanza di
questo, è inutile parlare in
pubblico,
anche se privatamente il “glossolago” possa trarne vantaggio. In
tal caso “parli solo a sé
stesso
e a Dio” (v. 28).
Per
i “profeti” valgono più o meno le stesse regole (v. 29), in più
si esige l’obbligo del controllo da
parte
della comunità (“gli altri giudichino”), soprattutto da parte
dei capi, di altri profeti e di coloro
che
hanno il “discernimento degli spiriti”. Evidentemente si erano
introdotti degli abusi anche per
la
“profezia”. Nessuno poi pretenda di monopolizzare l’ispirazione,
a tutti perciò si lasci ampia
possibilità
di parlare (v. 30), per “edificare, esortare, consolare”, sempre
con ordine però e uno alla
volta
“affinché tutti imparino e tutti siano esortati” (v. 31).
Da
ultimo Paolo discute il caso di “donne” carismatiche, le quali
erano frequenti nella primitiva
Chiesa
(Atti 21,9). Appellandosi principalmente all’uso delle Chiese della
Palestina (“le Chiese dei
santi”),
le quali proibivano alle donne, sia nubili che sposate, di prendere
la parola in pubblico
durante
le assemblee cristiane, Paolo afferma che questa prassi va seguita
anche a Corinto.
Privatamente
le donne possono esercitare i loro carismi di profezia o di
glossolalia, in pubblico no,
se
poi desiderino apprendere qualcosa “interroghino a casa i propri
mariti (v. 35).
Questa
norma sul silenzio delle donne nelle assemblee riflette l’ambito
culturale in cui l’Apostolo
viveva
e, come nel caso del velo che secondo lui la donna doveva indossare
in publico (11, 2-16), va ricondotta a quel particolare contesto
storico. Anche l’appello alla legge (v. 34) deve essere un uso
libero della Genesi (3,16), in cui si descrive il dominio dell’uomo,
ma come già abbiamo avuto modo si spiegare a suo tempo, il senso di
quel passo è differente. Prima di terminare l’Apostolo ricorda che
tutto quanto ha detto ora deriva dal Signore (v. 37), nessuno perciò
si ribelli, altrimenti dimostrerebbe di non essere veramente dotato
di carismi e Dio lo “ignorerebbe” (v. 38).
Il
distintivo dei veri carismatici è l’ordine e l’obbedienza.
In
questo lunghissimo capitolo Paolo tratta della risurrezione corporea
dei morti. Era questo un
dato
fondamentale della dottrina cristiana, che però incontrava non poche
difficoltà specialmente
nel
mondo pagano. I Greci, soprattutto sotto l’influenza della
filosofia platonica e della dottrina
pitagorica,
non esitavano ad ammettere l’immortalità dell’anima. Quello che
non potevano
ammettere
era invece la resurrezione del corpo che veniva concepito come “la
prigione”
dell’anima.
La
verità della risurrezione dei morti si basa, come premessa
insostituibile, sulla “Resurrezione di
Cristo”,
attestata da testimoni attendibilissimi. Paolo fonda su questo dato
inconfutabile la forza del
suo
ragionamento: se Cristo è risorto, devono risorgere anche i morti, a
motivo della loro intima
assimilazione
a Cristo. Se poi i morti non risorgessero, dovremo dire che neppure
Cristo è risorto.
Sono
due verità così intimamente connesse che non si può negare l’una
senza negare anche l’altra e
viceversa.
Paolo
inizia questa lunga trattazione citando il Credo che ha “ricevuto”
dagli Apostoli e
“trasmesso”
fedelmente alle sue comunità.
Esso
comprende due articoli di fede fondamentali.
1.
La morte salvifica di Gesù, voluta dal piano divino (“secondo le
Scritture”).
2.
La sua Risurrezione con le “apparizioni” per essere presente in
mezzo ai credenti, sia pure
in
modo nuovo.
Morte,
sepoltura, risurrezione, apparizione sono i segni dell’umanità e
della divinità di Cristo e
sono
la sorgente della nostra salvezza. La sottolineatura che Paolo
riserva alle apparizioni è fatta
per
mostrare la continua presenza di Cristo nella Chiesa, attestata dai
testimoni.
Tra
costoro, oltre a Cefa-Pietro, ai Dodici, a Giacomo, capo della Chiesa
di Gerusalemme, agli
Apostoli,
Paolo pone una spettacolare apparizione a cinquecento credenti,
ignorata dai Vangeli, e il
suo
incontro con il Risorto sulla via di Damasco “come a un aborto”,
essendo egli l’ultimo degli
Apostoli
e prima un persecutore. Quello che è importante notare è che Paolo
rivendica alla sua
apparizione
la medesima realtà oggettiva (“ofté” = fu visto, apparve) che
avvenne agli Apostoli
(9,1).
Dunque non c’è alcuna differenza tra lui e gli altri Apostoli se
non questa: gli altri sono
maturati
lentamente alla scuola di Gesù, egli invece si è trovato
improvvisamente ai piedi di Cristo
per
rendergli testimonianza, come un “aborto” immaturo, espulso prima
del tempo dal seno della
madre
e che solo per un miracolo di Dio può vivere. Paolo, dunque è
Apostolo solo per libera e
benevola
iniziativa di Dio: la sua vocazione e la sua vita apostolica sono un
autentico e continuo
miracolo!
Davanti a questo pensiero egli prova un profondo senso di indegnità,
da una parte, e di
ammirazione,
dall’altra, per la potenza della grazia di Dio (vv. 9-10). Se egli
si vanta di aver
“lavorato
più” di tutti gli altri Apostoli, individualmente presi, lo fa
solo per celebrare la “grazia”
divina
che in lui non fu sterile. Concludendo dichiara che la sua
“predicazione orale” su questi punti essenziali del messaggio
della salvezza concorda esattamente con la predicazione degli altri
Apostoli (v. 11). E questo vale non solo per il momento in cui
scrive, ma ovviamente deve riportarsi anche al tempo della sua
predicazione a Corinto e più dietro ancora, agli inizi del suo
apostolato, cioè subito dopo la conversione. Questo è importante
dal punto di vista sia della storicità, sia della inalterata
genuinità del messaggio evangelico.
Ora
l’Apostolo affronta direttamente la questione della risurrezione
dei morti che taluni in Corinto
negavano.
Egli invece dimostra che la negazione della risurrezione dei morti
implica la negazione
della
Risurrezione stessa di Cristo (v. 13), il crollo di tutto il
Cristianesimo: se Cristo non è risorto,
non
è Dio, dunque la suaj morte non ha alcun significato salvifico,
anche la loro testimonianza
sarebbe
falsa, la fede una cosa inutile, la predicazione una perdita di
tempo. Il dato più tragico poi
sarebbe
che quelli stessi che hanno creduto, avrebbero creduto inutilmente:
infatti senza la
Risurrezione,
la morte di Cristo non avrebbe alcun senso, perché non segnerebbe il
trionfo totale di
Cristo
sul “peccato” (v. 17), e i nostri morti sarebbero per sempre
perduti (v. 18). Anche perché: se
durante
questa vita abbiamo sperato in Cristo, noi siamo più infelici di
tutti gli uomini” (v. 19),
appunto
perché, a differenza degli altri, avremmo rinunziato a godere di
questa vita che passa in attesa di una inestimabile vita futura. La
Risurrezione di Cristo è l’evento culminante della storia della
salvezza e della vittoria dell’uomo sul peccato, su satana e sulla
morte. Come infatti Adamo accomunò nel suo destino di morte tutti
quelli che per discendenza naturale sono a lui fisicamente legati,
così Cristo accomunerà nel suo trionfo immortale tutti coloro che
sono già assimilati a lui nella grazia e nell’amore (v. 21). Egli
ci ha preceduti in qualità di “primizia”. L’offerta delle
primizie era il primo e più pregiato frutto delle messi, che era
particolarmente riservato a Dio e che stava a significare che tutto
il resto del raccolto gli apparteneva (Es 23, 16-19). Così la
Risurrezione di Cristo, che è la primizia offerta al Padre, include
la risurrezione di tutti coloro che sono in lui. La resurrezione dei
morti avverrà anche secondo un determinato “ordine” (di dignità,
di meriti, forse di tempo e di modalità: v. 23), ed è chiaro che la
precedenza assoluta appartiene a Cristo quale “primizia”, poi
tutti gli altri. La vittoria di Cristo però sarà completa solo
quando egli consegnerà il suo “regno” cioè la società dei
redenti, al Padre a cui tutto appartiene, e quando sarà debellata
per sempre la “morte”. A conferma della dottrina sopra esposta
Paolo porta due argomenti di carattere pratico.
Il
primo (v. 29) è dedotto da una strana consuetudine in vigore presso
i Corinzi, quella cioè
di
“farsi battezzare per i morti”: se qualche catecumeno fosse morto
prima di aver ricevuto
il
Battesimo, qualche parente già cristiano riceveva un “battesimo
sostitutivo” in favore del
defunto.
Con questo si voleva significare che anche il defunto, almeno col
desiderio, aveva
appartenuto
alla Chiesa. Appunto perché pericolosa, nonostante le buone
intenzioni, tale
prassi
scomparve ben presto dalla Chiesa.
-
Il secondo argomento è preso dalla personale esperienza
dell’Apostolo: a che servirebbero i
suoi
sovrumani sacrifici, i pericoli di “morte” da lui quotidianamente
affrontati per il
Vangelo,
il combattimento contro le belve a Efeso (cioè le gravi lotte che ha
dovuto
affrontare
in quella città, contro i suoi avversari), se tutto si riducesse al
breve teatro della
vita
terrena? Non sarebbero più fortunati e intelligenti quelli che si
danno ai piaceri del
mondo
che passa? (v. 32).
Ora
l’Apostolo passa a esaminare il “modo” della risurrezione, egli
si limita ad affermare il mistero
mediante
“analogie” prese dalla realtà che ci circonda, senza pretendere
di indagare su ciò che è
inaccessibile
alla mente umana.
La
prima analogia è presa dal mondo vegetale. Nessuno si immagini il
corpo risorto così come
quando
era vivo; esso dovrà subire delle radicali trasformazioni, che
tuttavia non lo renderanno
estraneo
da quello che era prima, come l’albero non è estraneo al seme dal
quale è germogliato (v.
37).
Tali trasformazioni non sono poi casuali, ma volute dalla sapienza
divina la quale, come per
ogni
“seme” ha stabilito un “corpo” diverso (v. 38), così per
ogni corpo umano ha stabilito
manifestazioni
di gloria diversa. La seconda e terza analogia sono desunte dalla
costituzione fisiologica dei corpi animali e dall’ordinamento
cosmico e astronomico (vv. 39-40). Dio dà ad ogni essere un corpo
adatto alle circostanze della sua esistenza. I corpi terrestri dei
pesci, degli uccelli, degli animali e degli uomini hanno tutti la
loro propria carne. Ciascuno dei corpi celesti ha un proprio
splendore: il sole, la luna e le stelle hanno tutti la propria
luminosità. La potenza divina che è tanto grande ha saputo
realizzare le cose più spettacolari e diverse: mancherà forse ad
essa il modo di operare la trasformazione di un corpo corruttibile in
un corpo incorruttibile e glorioso senza che il corpo perda per
questo la sua individualità?
Questa
analogia è applicata alla resurrezione dei morti, le qualità del
corpo risuscitato sono quattro:
“incorruttibilità”,
“gloria”, “forza”, “spiritualità”. La
morte e la sepoltura del corpo è paragonata
a
una seminagione, il corpo durante tutta la sua fase terrestre è
“corruttibile”, “debole”, “animale”
(cioè
vivificato dall’anima = psiche): la risurrezione invece trasformerà
tutte queste miserie in luce
e
gloria e in trionfo dello spirito (v. 44).
-
Il corpo “animale” (psychikon: v. 44) è il corpo nella
sua normale condizione umana,
animato
e vivificato dalla psychè (letter.
= anima), che è il principio dell’esistenza mortale,
cioè
della vita nutritiva, sensitiva e razionale.
-
Il corpo risuscitato sarà “spirituale” (pneumatikon),
cioè un corpo posseduto e talmente
penetrato
dallo “Spirito” di Dio (pneuma),
che lo eleva e lo potenzia in modo
soprannaturale.
In tali condizioni il corpo umano è come la trasparenza dello
Spirito e
quindi
ne assume le qualità: incorruttibile, glorioso e vigoroso, come il
soffio stesso della
creazione
(Gen. 1,2). Il modello di questo “corpo spirituale” è il corpo
risuscitato di Cristo
“l’uomo
celeste”. Come il primo Adamo è la fonte e il modello della vita
psichica naturale, così il Cristo risorto, il nuovo Adamo, è
il modello e la fonte della vita spirituale.
Genesi
2,7 dice che Dio fece di Adamo un’ “anima vivente” (psychè).
Il nuovo capo dell’umanità,
Cristo,
nella sua risurrezione divenne uno spirito vivificante, che invia lo
Spirito Santo e rende gli
uomini
partecipi della sua vita risuscitata e glorificata.
Questa
trasfigurazione “pneumatica” dell’uomo, del resto, avviene già
oggi sul piano morale e
religioso,
in quanto lo Spirito, che abita in noi (Rom. 8,11), mediante la
grazia e i Sacramenti, ci
configura
sempre più a sé; nella risurrezione ultima però la trasfigurazione
sarà totale, anche nel
corpo.
E’ necessario che il corpo corruttibile dell’uomo sia trasformato
affinché sia in grado di
diventare
partecipe del “regno di Dio” e cioè, della vita della gloria (v.
50). Per essere ammessi al
possesso
integrale del regno di Dio, quindi, è necessario che anche il nostro
corpo fisico sia
trasfigurato,
perché “né la carne né il sangue possono ereditare la vita
eterna”, in altre parole ciò
che
è “corruttibile” non può diventare immortale. Come e quando
avverrà questo miracoloso
intervento
trasfigurativo di Dio? Paolo dice che si tratta di un “mistero”
”. Il contenuto poi di questo “mistero” consiste nel fatto che
non “tutti” saranno morti (“addormentati” v. 51) quando
Cristo ritornerà per l’ultimo Giudizio, però morti o viventi, il
corpo di tutti subirà una misteriosa “trasformazione” che lo
renderà idoneo a partecipare per sempre alla gloria di Dio. Lo
“Spirito vivificante” (Pneuma) eserciterà sui vivi come sui
morti la stessa virtù di “vivificazione” in modo che tutti
diventino “corpi spirituali”.. La “repentinità” della
misteriosa trasformazione è messa in evidenza dalle espressioni: “in
un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba”.
Espressioni per sottolineare la grandiosità della spettacolare
manifestazione di Dio.
Il
v. 53 mette in evidenza la permanenza, pur attraverso la portentosa
trasformazione della
individualità
personale dei diversi corpi (“è necessario che questo
corpo corruttibile rivesta
l’incorruttibilità
”), non ci sarà dissociazione né discontinuità fra il corpo
“animale” e quello
“spirituale”,
ma solo un misterioso passaggio dall’uno all’altro.
Paolo
termina la sua dissertazione sulla resurrezione dei morti con un
accenno alla morte. Quando i
corpi
degli eletti saranno diventati incorruttibili e immortali o
attraverso la risurrezione o attraverso
l’immediata
trasformazione, allora l’ultimo nemico, la
morte, sarà definitivamente sconfitta, come
se
venisse “inghiottita” (v. 54) da Cristo, e perderà ogni potere
di danneggiare o di nuocere, Il
“pungiglione”
di cui la “morte” si serve per dilatare
sempre più il suo regno, è il “peccato”
(v. 56),
perché
essa è nata appunto dal peccato (Rom 5,12). Eliminato il peccato, la
morte è come una
regina
spodestata: il ritorno ultimo di Cristo segnerà la sconfitta
definitiva del peccato, che sarà
eliminato
dal Regno di Dio e conseguentemente anche della morte, creatura del
peccato.
San
Paolo dice che il peccato prende forza dalla “Legge”, infatti la
legge incrementava la
forza
del peccato, in quanto faceva sì conoscere agli uomini i
comandamenti di Dio, ma minacciava
di
morte coloro che non li osservavano, senza, tuttavia, procurare ad
essi l’intimo sostegno della
grazia
che dava la forza per osservarli la grandezza di Cristo sta nella
nostra vittoria sul peccato, quindi poter guardare al ostro cuore
senza essere miacciati di morte ma perdonati a causa dell'Amore di
quell'Uomo che è morto per noi sulla croce e che mediante la la
fede e il Suo Amore, siamo stati giustificati e pertanto certi del
trionfo di domani.In vista del premio eterno e di quella totale
vittoria del nostro essere, per cui non solo l’anima ma anche il
nostro corpo sarà come assorbito nella luce e nella gloria dello
Spirito vivificante, Paolo conclude esortando i cristiani a essere
forti nella fede e a non lasciarsi smuovere dalle difficoltà: ogni
piccolo sacrificio non sarà stato “vano” e avrà la sua
abbondante ricompensa “nel Signore” (v. 58).
Prima
di chiudere la lettera, l’Apostolo dà alcune norme sulle
“collette” da fare “in favore dei
santi”
(v. 1), cioè i cristiani di Gerusalemme, venutisi a trovare in
ristrettezze economiche. Il
“primo
giorno della settimana”27,
successivo al sabato ebraico, è la nostra domenica (Apoc. 1,10;
Atti
20,7), era destinato alle riunioni liturgiche comunitarie. Si noti la
delicatezza con cui viene
chiamata
la colletta: “la vostra grazia” (v. 3). Le ultime raccomandazioni
(vv. 13-18) riassumono un po’ la tematica di tutta la lettera,
sullo sfondo c’è il richiamo alla “carità” (v. 14), e
l’esortazione alla “gratitudine”. La lettera si chiude con i
“saluti” scambievoli dei membri delle varie comunità.
Questo
scambio di saluti tra fratelli assenti e tra fratelli della medesima
comunità contribuiva a
creare
quel clima di “fraternità ecclesiale” che è il frutto più
bello della carità e l’anima stessa della
Chiesa.
I saluti personali di Paolo sono scritti di proprio pugno (v. 21), a
modo di autografo, come era solito fare anche in altre lettere (Gal
6,11; 2 Tess 3,17; Col 4,18).
Il
più grande peccato degli uomini è il non rispondere al “grande
amore con cui Cristo ci ha amati”
(
“anatema” v. 22). E se amiamo Gesù, non possiamo non desiderare
che egli “ritorni” presto.
Infatti
l’espressione aramaica “Maranà tha” significa appunto:
“Signore nostro, vieni”. Il fatto che
Paolo
non la traduca significa che essa era ormai entrata nella liturgia
comune, come le altre
espressioni:
“Amen”, “Alleluia”, “Hosanna”, che tutti conoscevano.
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