venerdì 26 settembre 2014

Con San Paolo sulla via della Salvezza ( continua 1 Cor)

Con San Paolo sulla via della Salvezza

Continuiamo il nostro viaggio verso le catechesi che San Paolo ci offre sulla Bibbia seguendo gli appunti tratti Don Antonio Schena. Nella prima lettera ai Corinzi  un secondo quesito riguardava l’uso delle “carni immolate agli idoli”, dette appunto con termine greco “idolotiti”.
Per rendersi conto della gravità di questo problema di coscienza, bisogna riportarsi alla Corinto
pagana del tempo di Paolo. Nella società antica non c’era festa o manifestazione pubblica di
qualche rilievo che non venisse consacrata con speciali sacrifici alle varie divinità. La carne delle
vittime immolate nei templi greci, veniva in parte bruciata, in parte consumata dai sacerdoti, e una
parte notevole della carne, proveniente da quelle bestie immolate agli idoli, era venduta ai macellai
e quindi messa sui mercati. 
Queste celebrazioni non erano solo eventi religiosi, ma facevano parte della vita sociale: al pasto
prendevano parte amici, parenti e conoscenti, soprattutto nelle case private. Ecco il quesito: il
parente cristiano può partecipare con i familiari o con gli amici a questi banchetti o consumare in
privato quelle carni immolate agli idoli e poi vendute? Paolo, rispondendo a questa domanda,
distingue due gruppi tra i cristiani.
- Quelli che possiedono una coscienza illuminata sulla libertà cristiana, sanno bene che gli
idoli” non esistono (v. 4). Essi possono tranquillamente mangiare le carni ad essi
immolate, perché sono carni comuni.
- Altri però, alcuni giudeo-cristiani, che ancorati alle leggi giudaiche sulla purità e impurità
legale, rifiutano le carni immolate agli idoli (v. 7), provano scrupolo davanti ad esse e non
solo non ne mangiano, ma ricevono scandalo se vedono altri mangiare (v. 10).
Si impone, perciò, a chi “sapeva” di regolarsi non tanto secondo la “scienza” quanto secondo la
carità”, per non perdere anche un solo “fratello” per il quale Cristo è morto (v. 11). Meglio allora
rinunciare a “mangiare la carne, per non scandalizzare il fratello (v. 13).
L’Apostolo riprendendo il discorso precedente, illustra e rinnova il suo invito a rinunciare, per
amore degli altri, all’esercizio dei propri diritti ricordando il suo stesso comportamento riguardo ad
alcuni suoi diritti apostolici. Fra questi diritti ricorda quello di farsi sostenere (“mangiare e bere” v.
4) dalla comunità, senza dover lavorare (v. 6) per procacciarsi il vitto quotidiano: diritto sacrosanto,
a cui non avevano rinunciato neppure gli “altri Apostoli” (da intendersi in senso lato, come in Rom
16,7; quelli cioè che hanno il carisma dell’apostolato: 1 Cor 12,28), né i “fratelli del Signore” (sono
i numerosi parenti di Gesù già ricordati nel Vangelo e che nella primitiva Chiesa godevano di
particolare prestigio), e neppure Cefa (v. 5), ben noto agli abitanti di Corinto se c’era addirittura un
partito che si rifaceva a lui.
Paolo, non solo ha rinunciato a questo diritto di farsi sostenere dalla comunità, lavorando per
procurarsi il cibo, ma ha rinunciato anche a portarsi dietro “una donna sorella”22, come fanno gli
altri apostoli. E questo dovrebbe bastare per sua “difesa” (v. 3).
Perché a qualcuno non sembri strana la rivendicazione del diritto al sostentamento, l’Apostolo
espone cinque motivi a favore di tale diritto.
1) L’esperienza quotidiana della vita, per cui è ovvio che il soldato o l’agricoltore o il pastore
debbano percepire del frutto delle loro fatiche (v. 7).
2) L’autorità della Bibbia (Deut 25,4). Se Dio rivendica perfino ai “buoi” (vv. 8-9) il diritto al
cibo, derivante dal loro lavoro, tanto maggiormente ciò dovrà valere per gli Apostoli, i quali
esigono molto meno di quello che danno. Che cosa sono, infatti, i beni “materiali” in
confronto di quelli “spirituali”? (v. 11).
3) L’esempio degli “altri”, che venivano sostenuti economicamente, sia i veri Apostoli (v. 5),
sia soprattutto gli “pseudo-apostoli” che a Corinto gli minavano il terreno e “sfruttavano”
addirittura (2 Cor 11,13.20) quei poveri cristiani. Paolo, pur avendo maggiore diritto degli
altri”, vi ha rinunciato di propria iniziativa, per non “porre alcun intralcio al Vangelo di
Cristo” (v. 12).
4) La prassi cultuale sia dell’AT (Lev 6,16.20; Num 18,8.31; Deut 18,1 ss), sia delle religioni
pagane, per cui i sacerdoti traevano il loro sostentamento dai sacrifici offerti sull’ “altare”
(v. 13).
5) Per ultimo, il “comando” stesso del Signore (Mt 10,10; Lc 10,7): chi predica il Vangelo (v.
14), deve “vivere del Vangelo” (Gal 6,6; 1 Tim 5,18), ma non “arricchirsi del Vangelo”,
come osserva S. Giovanni Crisostomo.
Pertanto Paolo conclude che, pur avendo diritto al sostentamento da parte della comunità, non ne
ha “usato”, né intende usarne per l’avvenire allo scopo di non perdere il suo “vanto” (v. 15). Infatti
non da sé stesso ha scelto di diventare Apostolo ed “evangelizzatore” (v. 16), ma è per la
benevolenza di Dio che gli è stato “affidato” tale “incarico”. Perciò la sua “ricompensa” (v. 17) egli
non potrà ricercarla nell’avvalersi dei diritti conferitigli dall’apostolato, ma nel compiere qualcosa
che vada al di là del semplice dovere e che sia proprio e tutto “suo”. Non si può essere premiati per
un proprio dovere compiuto.
La ricompensa Paolo se l’aspetta (v. 18), ma unicamente sulla base di ciò che egli
aggiunge “in più” al “suo” dovere di “evangelizzatore”.
Il primato della “carità” Paolo lo ha riconosciuto non soltanto nel caso della rinuncia al
sostentamento, ma in ogni evenienza della sua vita. Per questo si è messo a disposizione di tutti,
quasi fosse il loro “schiavo”, “per guadagnare il più gran numero” (v. 19).
Con i Giudei, che ancora riconoscono la validità della “Legge” mosaica, si è comportato da Giudeo
sottomettendosi alla Legge “pur non essendo sotto la Legge” (v. 20). Con i pagani, che non
osservano la Legge mosaica, neppure lui l’ha osservata, ben sapendo che è solo la “legge di Cristo”
che ormai conta (v. 21). Anche “con i deboli di coscienza” si è adattato al loro modo di agire (v.
22), rinunciando per sempre a “mangiare carne”, per non “scandalizzare il fratello” (8, 13). In una
parola si è “fatto tutto a tutti per salvare in tutti i modi qualcuno”, perché solo per questa via egli
sa di poter “partecipare” insieme a tutti gli altri ai beni eterni promessi dal Vangelo (v. 23).
Questa “partecipazione” ai beni promessi dal Vangelo non è però cosa facile perché esige dai
cristiani un impegno molto serio, fatto di privazioni e di rinunce. Tutto questo l’Apostolo lo fa
capire mediante un’immagine sportiva, che doveva essere familiare ai Corinzi, i quali ogni due
anni vedevano svolgersi sotto i loro occhi i famosi Giochi Istmici, celebri in tutta la Grecia e in
tutto il mondo antico.
I partecipanti a tali giochi erano numerosi, tutti i “corridori” si sottoponevano a una rigorosa
disciplina atletica “contenendosi” in ogni cosa, nella speranza di “conquistare” la palma della
vittoria, uno solo però riportava il “premio” (v. 25).
A maggior ragione, dice l’Apostolo, i cristiani devono “contenersi in tutto” rinunziando perfino a
ciò che potrebbe essere onesto e giusto, pur di raggiungere la corona “incorruttibile”. Anzi,
siccome per i cristiani la posta in gioco è immensamente più grande, anche le più penose rinunce
dovrebbero apparire una cosa di poco conto.
Proprio perché consapevole di questo, Paolo per primo si è imposto i più duri sacrifici rinunciando
ai suoi diritti, per non correre il rischio di venire “squalificato” proprio lui che ha “predicato agli
altri” (v. 27). Neppure gli Apostoli hanno il posto prenotato per il Paradiso! Come è commovente
questo senso di umiltà e di preoccupazione di Paolo per il suo avvenire spirituale, perciò il suo
allenamento spirituale è diligente e continuo, appunto per non correre “a casaccio” e non “battere
l’aria” (v. 26). Il v. 27 più che alludere a mortificazioni e a macerazioni volontarie del proprio “corpo”, si riferisce alle fatiche dell’apostolato che non consentivano troppi riguardi o delicatezze per il corpo.
Si apre con questo capitolo una meditazione sull’esodo biblico, evento che da una parte ricorda la
vicenda degli Israeliti, dall’altra diventa ammonimento anche per i cristiani. Paolo, infatti, usa la
parola greca typos (“esempio”, “modello” v. 6) in riferimento all’una e all’altro.
Il “passaggio attraverso il Mar Rosso” è letto come immagine del battesimo: gli Ebrei furono
battezzati in rapporto a Mosè”, i cristiani in rapporto a Cristo.
La “roccia”, da cui era scaturita l’acqua per gli Ebrei, secondo l’interpretazione giudaica, è
testimonianza dell’amore di Dio. Per Paolo, invece, la “roccia” è segno di Cristo Risorto, il quale è
la fonte dello Spirito, che disseta i credenti in lui.
La “manna” e “l’acqua” sgorgata dalla roccia sono segni profetici dell’eucaristia. Paolo li chiama
cibo e bevanda “spirituale” a motivo del loro valore prefigurativo.
Dell’itinerario nel deserto sinaitico vengono qui ricordate le infedeltà e le ribellioni di Israele (Es
32,6). Esse scatenarono il giudizio divino, che si servì ora dell’angelo sterminatore (Esodo 12, 21-
28), ora dei serpenti velenosi per condannare questo “mormorare” contro il Signore, termine usato
dall’Esodo per definire la sfiducia del popolo nei confronti del Signore. Tutto questo deve essere
lezione anche ai cristiani. Come nell’eucaristia noi partecipiamo intimamente al Corpo e al Sangue
di Cristo sotto il segno del pane e del vino, così nei banchetti sacri idolatrici c’è una comunione
non tanto con gli déi che non esistono quanto piuttosto con i demoni.
Perciò bisogna essere attenti a queste partecipazioni, pur rimanendo sereni per quanto riguarda i
consumi di carne immolata agli idoli e venduta al mercato: ogni realtà, infatti, appartiene al vero
Dio che ne è il Creatore e il Signore. Se poi, in un pranzo si è invitati, e qualcuno fa notare che si
tratta di carne immolata agli idoli, sarebbe meglio astenersi per non creare imbarazzo o scandalo
agli occhi degli altri.
In definitiva, qui Paolo ritorna a un principio già accennato prima: le scelte che si fanno, nella
libertà e nella carità, devono essere orientate alla gloria di Dio e alla salvezza di tutti. In questa
linea l’Apostolo si presenta come modello da imitare perché egli ha sempre scelto Cristo come
modello del suo agire.  San Paolo fa delle raccomandazioni di carattere pratico: l’Eucarestia non si
celebri prima che tutta la comunità sia riunita (v. 33). Ogni banchetto che non sia quello eucaristico
sia escluso dalla riunione sacra. Si elimini perciò l’ “àgape” fraterna, che servirebbe solo alle
intemperanze dei più affamati (v. 34).  Circa i carismi, Paolo descrive prima la loro origine e il loro fine (12, 1-31), quindi dà delle norme per regolarne l’uso (14, 1-40);
La prima cosa che insegna loro è il modo per poter distinguere i veri “carismi” dalle contraffazioni
del paganesimo24 (vv. 1-2). I “carismi” o “doni spirituali” sono tutt’altra cosa: essi costituiscono
delle autentiche manifestazioni del divino, che portano alla piena confessione della divinità di
Cristo. Altrimenti sarebbero inutili o addirittura dannosi, perché potrebbero convalidare le
contraffazioni diaboliche del paganesimo. A Corinto potevano forse essersi verificati dei casi in cui
qualche cristiano, immaginandosi invaso dallo Spirito, aveva reagito dicendo “maledetto sia Gesù”
(v. 3): questo era un segno evidente che lo Spirito era estraneo al fenomeno. Al contrario tutte le
volte che si professa chiaramente e con convinzione che Gesù è il “Signore”, si può essere sicuri
che il “carisma” viene davvero dallo Spirito, perché illuminato dalla grazia.
Enunciato così il criterio discriminante delle autentiche manifestazioni dello Spirito
(manifestazioni che portano alla fede nella divinità di Gesù), l’Apostolo passa ora a descrivere la
varie specie dei “doni spirituali”, di cui afferma, nello stesso tempo, l’unicità di origine: “Vi sono
diversità di carismi ma uno è lo Spirito…” (v. 4). Tutti sono destinati al “bene comune” (v. 7),
perciò non devono essere motivo di scissione o di gelosia, ma di concorde e generosa edificazione
del Corpo di Cristo. L’elenco presente (vv. 8-10) abbraccia 9 carismi, di cui non è sempre facile descrivere singolarmente l’intima natura, data la mancanza di confronto di fenomeni simili in epoca
successiva. Vediamoli a uno a uno.
I primi due il “linguaggio della sapienza” e il “linguaggio della conoscenza” hanno quasi lo
stesso significato, cioè la capacità di approfondire e comunicare l’esperienza cristiana. Questi due
riguardano i “doni spirituali” della scienza.
I tre successivi sono operativi: “Fede” poi “guarigioni” e “operazioni di miracoli”. Qui la “fede”
non designa tanto l’adesione intellettiva a una verità rivelata , quanto piuttosto la “fede che opera
prodigi”, come viene esplicitato in 13,2. Richiamando un detto di Gesù (Mt 17,20) Paolo pensa ai
gesti prodigiosi, ai miracoli, operati dalla fede.
La “profezia” e il “discernimento degli spiriti” sono “carismi” complementari, così come il “dono
delle lingue” e la loro “interpretazione” (v. 11). La “profezia” non era soltanto predizione delle
cose future (Atti 21,10 ss) e svelamento del segreto dei cuori (1 Cor 14,25), ma più ordinariamente
discorso di “edificazione”, di “esortazione” (1 Cor 14,1 ss). Il “discernimento degli spiriti” doveva
essere posseduto principalmente dai capi delle comunità per distinguere i veri dai falsi profeti. Il
dono delle lingue” (cioè il dono di saper comunicare esperienze mistiche) di cui i Corinzi
dovevano essere particolarmente avidi, è collocato per ultimo, quasi per dire che in realtà non
meritava la stima esagerata che le veniva attribuita.
Al termine della sua enumerazione l’Apostolo tiene a ribadire che tutti questi “carismi” derivano
dallo stesso “Spirito”, e perciò non devono essere motivo di discordia; chi non li possiede sia
contento lo stesso; chi li possiede non vada in superbia; chi possiede i “carismi” più umili non
abbia invidia di chi possiede i più importanti. Non accettare questa realtà sarebbe come recriminare
contro lo Spirito Santo che “distribuisce singolarmente a ciascuno come vuole” (v. 11).
Nel corpo umano non capita forse altrettanto? Le membra sono “molte” e, pur esercitando funzioni
diverse, tutte tendono al bene comune del corpo (v. 12).
Questa metafora del “corpo”, Paolo la prende dal mondo greco-romano (che la usava per
sottolineare l’unità dello Stato e delle componenti sociali) e soprattutto dalla filosofia stoica.
Egli, però, dichiara che questo corpo è quello di Cristo: come Gesù durante la sua vita terrena
parlava, agiva e salvava attraverso il suo corpo fisico, così ora egli opera e comunica attraverso la
Chiesa, che è il Corpo di Cristo Risorto in azione nella storia. Attraverso il battesimo i cristiani
costituiscono questo corpo, animato dallo stesso Cristo, e nella diversità delle loro caratteristiche,
cioè dei “carismi”, manifestano la vitalità dell’organismo.
Tutti sono necessari all’armonia e alla pienezza di questo corpo, anche quegli organi che a prima
vista sembrerebbero secondari. Anzi, per la logica della croce, essi dovrebbero essere oggetto di
maggiore attenzione e affetto da parte dell’intera comunità-corpo.
Il brano ci presenta la carità (agàpe) intesa soprattutto come amore soprannaturale, quello che la
teologia definisce la virtù della carità. Viene chiaramente distinta (v. 3) dalla filantropia (dal greco “philanthrópía”, 'amore per l'uomo', essa è una disposizione dell'animo a iniziative umanitarie che si traduce in attività dirette a realizzarle. Il principio stoico dell'amore dovuto all'essere umano) e dall’umanitarismo (l'insieme delle idealità e degli intenti di chi dirige il proprio pensiero e la propria azione all'elevazione materiale e morale degli uomini).
L’agàpe non è il gioco delle simpatie o degli interessi che possa produrla, ma solo l’amore sincero
verso Dio, di cui vediamo i luminosi riflessi in ogni creatura, anche se abbruttita dal male. Anzi,
questo è l’unico modo per il cristiano di accertarsi che il suo amore verso Dio, difficilissimo da
controllare, sia genuino: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non
vede” (1 Gv 4,20).
Della carità così nobilmente intesa l’Apostolo descrive prima la superiorità su tutti i “carismi” (vv.
1-3), poi le caratteristiche (vv. 4-7), infine la durata (vv. 8-13).
Nessun carisma vale quanto la carità: essa costituisce l’essenza della vita cristiana, essa è
paziente”, sopporta le ingiurie e i torti; è “benevola”, disposta a fare del bene a tutti; “non è
invidiosa” del bene del prossimo; “non si gonfia dei propri pregi”; “non manca di rispetto”, anzi
è delicata; “non cerca i le proprie cose”, è disinteressata; “non si irrita”, cioè non perde la
serenità; “non tiene conto del male” ricevuto; “non si rallegra delle ingiustizie, si rallegra invece
della verità”.
Essa “tutto copre” col manto della bontà, pronta a scusare tutto; “tutto crede”, dando fiducia al
prossimo; “tutto spera”, mai arrendendosi di fronte alle situazioni anche più disperate; “tutto
sopporta”, anche i fallimenti, le ingratitudini.
Mentre tutto ciò che è creato passa, la carità è eterna, non tramonta mai, essa si identifica con Dio
carità”, l’Intramontabile. Il traguardo finale verso cui tende la carità è, quindi la comunione piena
con Dio nell’incontro definitivo. I doni spirituali sono transitori e temporali, in paradiso non
avremo più bisogno dei carismi, così come l’uomo maturo non ha più bisogno dei giocattoli della
sua infanzia. Anche le nostre conoscenze “imperfette e parziali”, saranno sostituite dalla visione
chiara di Dio, suprema Verità.
La conoscenza “faccia a faccia” di cui un giorno godremo, significa una conoscenza diretta,
immediata, non più attraverso i veli delle cose create (nello specchio non si vede l’oggetto in sé, ma
il suo riflesso) o della fede. La nostra conoscenza rassomiglierà alla conoscenza stessa di Dio:
Allora conoscerò perfettamente come anch’io sono conosciuto” (v. 12). Come Dio vede tutto in sé
stesso, così noi lo vedremo in sé steso, cioè nella sua intima essenza. Si noti però che il paragone
dell’Apostolo è solo sul “modo” della conoscenza e non nella sua esplicita estensione e
comprensione: il finito non potrà mai esaurire l’infinito!
Come conclusione ultima, Paolo esalta la superiorità della carità sulle altre virtù, infatti, alla fede
succederà la visione, alla speranza il raggiungimento del fine (Rom 8,27), la carità non tramonterà
mai, perché Dio stesso è “carità” (1 Gv 4,8).
In ordine gerarchico, c’è la carità, al vertice, poi la profezia e il dono delle lingue. Perché la
profezia è superiore al dono delle lingue? Il profeta “esortando” e “consolidando”, “edifica” tutta
l’assemblea (v. 4) facendola crescere spiritualmente. Il “dono delle lingue”, invece, è qualcosa di
inintelligibile per la comunità, in quanto lo Spirito rivelando “cose misteriose” (v. 2), edifica solo
chi ha ricevuto questo dono. Il cristiano deve sempre tendere a essere come un bambino quanto a innocenza morale, ma deve essere come un uomo maturo non vantandosi delle sue doti personali.
Paolo conclude dicendo che il dono delle lingue, come i contemporanei di Isaia, è dono destinato ai miscredenti, mentre la profezia è destinata ai credenti, e non solo, essa infatti è vantaggiosa anche ai non credenti. Se per ipotesi durante un’assemblea plenaria entrasse un estraneo e ascoltasse coloro che“parlano in lingue”, ne uscirebbe convinto ritrovarsi in manicomio. Il contrario, se questo estraneoascoltasse un “profeta” ne resterebbe edificato ascoltando parole efficaci e suadenti, cosicché sisentirà illuminato e indotto alla conversione e alla fede in Dio, presente “in mezzo a noi”.
Dopo aver chiarito la differenza tra “profezia” e “dono delle lingue”, l’Apostolo passa ora a
regolare l’uso dei “carismi” nelle pubbliche assemblee. La prima regola dunque da osservare è la
edificazione” dell’assemblea. Tutti i carismi, qualunque essi siano (dono di “insegnamento”, di
lingue”, di “salmi” improvvisati, ecc…), devono mirare a questo, altrimenti ci sarebbe da
sospettare della loro genuinità.
Per quanto riguarda i glossolali, si impone loro di parlare una sola volta, al massimo tre persone, ma
uno per volta, e che ci sia sempre un interprete (v. 27); in mancanza di questo, è inutile parlare in
pubblico, anche se privatamente il “glossolago” possa trarne vantaggio. In tal caso “parli solo a sé
stesso e a Dio” (v. 28).
Per i “profeti” valgono più o meno le stesse regole (v. 29), in più si esige l’obbligo del controllo da
parte della comunità (“gli altri giudichino”), soprattutto da parte dei capi, di altri profeti e di coloro
che hanno il “discernimento degli spiriti”. Evidentemente si erano introdotti degli abusi anche per
la “profezia”. Nessuno poi pretenda di monopolizzare l’ispirazione, a tutti perciò si lasci ampia
possibilità di parlare (v. 30), per “edificare, esortare, consolare”, sempre con ordine però e uno alla
volta “affinché tutti imparino e tutti siano esortati” (v. 31).
Da ultimo Paolo discute il caso di “donne” carismatiche, le quali erano frequenti nella primitiva
Chiesa (Atti 21,9). Appellandosi principalmente all’uso delle Chiese della Palestina (“le Chiese dei
santi”), le quali proibivano alle donne, sia nubili che sposate, di prendere la parola in pubblico
durante le assemblee cristiane, Paolo afferma che questa prassi va seguita anche a Corinto.
Privatamente le donne possono esercitare i loro carismi di profezia o di glossolalia, in pubblico no,
se poi desiderino apprendere qualcosa “interroghino a casa i propri mariti (v. 35).
Questa norma sul silenzio delle donne nelle assemblee riflette l’ambito culturale in cui l’Apostolo
viveva e, come nel caso del velo che secondo lui la donna doveva indossare in publico (11, 2-16), va ricondotta a quel particolare contesto storico. Anche l’appello alla legge (v. 34) deve essere un uso libero della Genesi (3,16), in cui si descrive il dominio dell’uomo, ma come già abbiamo avuto modo si spiegare a suo tempo, il senso di quel passo è differente. Prima di terminare l’Apostolo ricorda che tutto quanto ha detto ora deriva dal Signore (v. 37), nessuno perciò si ribelli, altrimenti dimostrerebbe di non essere veramente dotato di carismi e Dio lo “ignorerebbe” (v. 38).
Il distintivo dei veri carismatici è l’ordine e l’obbedienza.
In questo lunghissimo capitolo Paolo tratta della risurrezione corporea dei morti. Era questo un
dato fondamentale della dottrina cristiana, che però incontrava non poche difficoltà specialmente
nel mondo pagano. I Greci, soprattutto sotto l’influenza della filosofia platonica e della dottrina
pitagorica, non esitavano ad ammettere l’immortalità dell’anima. Quello che non potevano
ammettere era invece la resurrezione del corpo che veniva concepito come “la prigione”
dell’anima.
La verità della risurrezione dei morti si basa, come premessa insostituibile, sulla “Resurrezione di
Cristo”, attestata da testimoni attendibilissimi. Paolo fonda su questo dato inconfutabile la forza del
suo ragionamento: se Cristo è risorto, devono risorgere anche i morti, a motivo della loro intima
assimilazione a Cristo. Se poi i morti non risorgessero, dovremo dire che neppure Cristo è risorto.
Sono due verità così intimamente connesse che non si può negare l’una senza negare anche l’altra e
viceversa.
Paolo inizia questa lunga trattazione citando il Credo che ha “ricevuto” dagli Apostoli e
trasmesso” fedelmente alle sue comunità.
Esso comprende due articoli di fede fondamentali.
1. La morte salvifica di Gesù, voluta dal piano divino (“secondo le Scritture”).
2. La sua Risurrezione con le “apparizioni” per essere presente in mezzo ai credenti, sia pure
in modo nuovo.
Morte, sepoltura, risurrezione, apparizione sono i segni dell’umanità e della divinità di Cristo e
sono la sorgente della nostra salvezza. La sottolineatura che Paolo riserva alle apparizioni è fatta
per mostrare la continua presenza di Cristo nella Chiesa, attestata dai testimoni.
Tra costoro, oltre a Cefa-Pietro, ai Dodici, a Giacomo, capo della Chiesa di Gerusalemme, agli
Apostoli, Paolo pone una spettacolare apparizione a cinquecento credenti, ignorata dai Vangeli, e il
suo incontro con il Risorto sulla via di Damasco “come a un aborto”, essendo egli l’ultimo degli
Apostoli e prima un persecutore. Quello che è importante notare è che Paolo rivendica alla sua
apparizione la medesima realtà oggettiva (“ofté” = fu visto, apparve) che avvenne agli Apostoli
(9,1). Dunque non c’è alcuna differenza tra lui e gli altri Apostoli se non questa: gli altri sono
maturati lentamente alla scuola di Gesù, egli invece si è trovato improvvisamente ai piedi di Cristo
per rendergli testimonianza, come un “aborto” immaturo, espulso prima del tempo dal seno della
madre e che solo per un miracolo di Dio può vivere. Paolo, dunque è Apostolo solo per libera e
benevola iniziativa di Dio: la sua vocazione e la sua vita apostolica sono un autentico e continuo
miracolo! Davanti a questo pensiero egli prova un profondo senso di indegnità, da una parte, e di
ammirazione, dall’altra, per la potenza della grazia di Dio (vv. 9-10). Se egli si vanta di aver
lavorato più” di tutti gli altri Apostoli, individualmente presi, lo fa solo per celebrare la “grazia”
divina che in lui non fu sterile. Concludendo dichiara che la sua “predicazione orale” su questi punti essenziali del messaggio della salvezza concorda esattamente con la predicazione degli altri Apostoli (v. 11). E questo vale non solo per il momento in cui scrive, ma ovviamente deve riportarsi anche al tempo della sua predicazione a Corinto e più dietro ancora, agli inizi del suo apostolato, cioè subito dopo la conversione. Questo è importante dal punto di vista sia della storicità, sia della inalterata genuinità del messaggio evangelico.
Ora l’Apostolo affronta direttamente la questione della risurrezione dei morti che taluni in Corinto
negavano. Egli invece dimostra che la negazione della risurrezione dei morti implica la negazione
della Risurrezione stessa di Cristo (v. 13), il crollo di tutto il Cristianesimo: se Cristo non è risorto,
non è Dio, dunque la suaj morte non ha alcun significato salvifico, anche la loro testimonianza
sarebbe falsa, la fede una cosa inutile, la predicazione una perdita di tempo. Il dato più tragico poi
sarebbe che quelli stessi che hanno creduto, avrebbero creduto inutilmente: infatti senza la
Risurrezione, la morte di Cristo non avrebbe alcun senso, perché non segnerebbe il trionfo totale di
Cristo sul “peccato” (v. 17), e i nostri morti sarebbero per sempre perduti (v. 18). Anche perché: se
durante questa vita abbiamo sperato in Cristo, noi siamo più infelici di tutti gli uomini” (v. 19),
appunto perché, a differenza degli altri, avremmo rinunziato a godere di questa vita che passa in attesa di una inestimabile vita futura. La Risurrezione di Cristo è l’evento culminante della storia della salvezza e della vittoria dell’uomo sul peccato, su satana e sulla morte. Come infatti Adamo accomunò nel suo destino di morte tutti quelli che per discendenza naturale sono a lui fisicamente legati, così Cristo accomunerà nel suo trionfo immortale tutti coloro che sono già assimilati a lui nella grazia e nell’amore (v. 21). Egli ci ha preceduti in qualità di “primizia”. L’offerta delle primizie era il primo e più pregiato frutto delle messi, che era particolarmente riservato a Dio e che stava a significare che tutto il resto del raccolto gli apparteneva (Es 23, 16-19). Così la Risurrezione di Cristo, che è la primizia offerta al Padre, include la risurrezione di tutti coloro che sono in lui. La resurrezione dei morti avverrà anche secondo un determinato “ordine” (di dignità, di meriti, forse di tempo e di modalità: v. 23), ed è chiaro che la precedenza assoluta appartiene a Cristo quale “primizia”, poi tutti gli altri. La vittoria di Cristo però sarà completa solo quando egli consegnerà il suo “regno” cioè la società dei redenti, al Padre a cui tutto appartiene, e quando sarà debellata per sempre la “morte”. A conferma della dottrina sopra esposta Paolo porta due argomenti di carattere pratico.
Il primo (v. 29) è dedotto da una strana consuetudine in vigore presso i Corinzi, quella cioè
di “farsi battezzare per i morti”: se qualche catecumeno fosse morto prima di aver ricevuto
il Battesimo, qualche parente già cristiano riceveva un “battesimo sostitutivo” in favore del
defunto. Con questo si voleva significare che anche il defunto, almeno col desiderio, aveva
appartenuto alla Chiesa. Appunto perché pericolosa, nonostante le buone intenzioni, tale
prassi scomparve ben presto dalla Chiesa.
- Il secondo argomento è preso dalla personale esperienza dell’Apostolo: a che servirebbero i
suoi sovrumani sacrifici, i pericoli di “morte” da lui quotidianamente affrontati per il
Vangelo, il combattimento contro le belve a Efeso (cioè le gravi lotte che ha dovuto
affrontare in quella città, contro i suoi avversari), se tutto si riducesse al breve teatro della
vita terrena? Non sarebbero più fortunati e intelligenti quelli che si danno ai piaceri del
mondo che passa? (v. 32).
Ora l’Apostolo passa a esaminare il “modo” della risurrezione, egli si limita ad affermare il mistero
mediante “analogie” prese dalla realtà che ci circonda, senza pretendere di indagare su ciò che è
inaccessibile alla mente umana.
La prima analogia è presa dal mondo vegetale. Nessuno si immagini il corpo risorto così come
quando era vivo; esso dovrà subire delle radicali trasformazioni, che tuttavia non lo renderanno
estraneo da quello che era prima, come l’albero non è estraneo al seme dal quale è germogliato (v.
37). Tali trasformazioni non sono poi casuali, ma volute dalla sapienza divina la quale, come per
ogni “seme” ha stabilito un “corpo” diverso (v. 38), così per ogni corpo umano ha stabilito
manifestazioni di gloria diversa. La seconda e terza analogia sono desunte dalla costituzione fisiologica dei corpi animali e dall’ordinamento cosmico e astronomico (vv. 39-40). Dio dà ad ogni essere un corpo adatto alle circostanze della sua esistenza. I corpi terrestri dei pesci, degli uccelli, degli animali e degli uomini hanno tutti la loro propria carne. Ciascuno dei corpi celesti ha un proprio splendore: il sole, la luna e le stelle hanno tutti la propria luminosità. La potenza divina che è tanto grande ha saputo realizzare le cose più spettacolari e diverse: mancherà forse ad essa il modo di operare la trasformazione di un corpo corruttibile in un corpo incorruttibile e glorioso senza che il corpo perda per questo la sua individualità?
Questa analogia è applicata alla resurrezione dei morti, le qualità del corpo risuscitato sono quattro:
incorruttibilità”, “gloria”, “forza”, “spiritualità”. La morte e la sepoltura del corpo è paragonata
a una seminagione, il corpo durante tutta la sua fase terrestre è “corruttibile”, “debole”, “animale”
(cioè vivificato dall’anima = psiche): la risurrezione invece trasformerà tutte queste miserie in luce
e gloria e in trionfo dello spirito (v. 44).
- Il corpo “animale” (psychikon: v. 44) è il corpo nella sua normale condizione umana,
animato e vivificato dalla psychè (letter. = anima), che è il principio dell’esistenza mortale,
cioè della vita nutritiva, sensitiva e razionale.
- Il corpo risuscitato sarà “spirituale” (pneumatikon), cioè un corpo posseduto e talmente
penetrato dallo “Spirito” di Dio (pneuma), che lo eleva e lo potenzia in modo
soprannaturale. In tali condizioni il corpo umano è come la trasparenza dello Spirito e
quindi ne assume le qualità: incorruttibile, glorioso e vigoroso, come il soffio stesso della
creazione (Gen. 1,2). Il modello di questo “corpo spirituale” è il corpo risuscitato di Cristo
l’uomo celeste”. Come il primo Adamo è la fonte e il modello della vita psichica naturale, così il Cristo risorto, il nuovo Adamo, è il modello e la fonte della vita spirituale.
Genesi 2,7 dice che Dio fece di Adamo un’ “anima vivente” (psychè). Il nuovo capo dell’umanità,
Cristo, nella sua risurrezione divenne uno spirito vivificante, che invia lo Spirito Santo e rende gli
uomini partecipi della sua vita risuscitata e glorificata.
Questa trasfigurazione “pneumatica” dell’uomo, del resto, avviene già oggi sul piano morale e
religioso, in quanto lo Spirito, che abita in noi (Rom. 8,11), mediante la grazia e i Sacramenti, ci
configura sempre più a sé; nella risurrezione ultima però la trasfigurazione sarà totale, anche nel
corpo. E’ necessario che il corpo corruttibile dell’uomo sia trasformato affinché sia in grado di
diventare partecipe del “regno di Dio” e cioè, della vita della gloria (v. 50). Per essere ammessi al
possesso integrale del regno di Dio, quindi, è necessario che anche il nostro corpo fisico sia
trasfigurato, perché “né la carne né il sangue possono ereditare la vita eterna”, in altre parole ciò
che è “corruttibile” non può diventare immortale. Come e quando avverrà questo miracoloso
intervento trasfigurativo di Dio? Paolo dice che si tratta di un “mistero” ”. Il contenuto poi di questo “mistero” consiste nel fatto che non “tutti” saranno morti (“addormentati” v. 51) quando Cristo ritornerà per l’ultimo Giudizio, però morti o viventi, il corpo di tutti subirà una misteriosa “trasformazione” che lo renderà idoneo a partecipare per sempre alla gloria di Dio. Lo “Spirito vivificante” (Pneuma) eserciterà sui vivi come sui morti la stessa virtù di “vivificazione” in modo che tutti diventino “corpi spirituali”.. La “repentinità” della misteriosa trasformazione è messa in evidenza dalle espressioni: “in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba”. Espressioni per sottolineare la grandiosità della spettacolare manifestazione di Dio.
Il v. 53 mette in evidenza la permanenza, pur attraverso la portentosa trasformazione della
individualità personale dei diversi corpi (“è necessario che questo corpo corruttibile rivesta
l’incorruttibilità ”), non ci sarà dissociazione né discontinuità fra il corpo “animale” e quello
spirituale”, ma solo un misterioso passaggio dall’uno all’altro.
Paolo termina la sua dissertazione sulla resurrezione dei morti con un accenno alla morte. Quando i
corpi degli eletti saranno diventati incorruttibili e immortali o attraverso la risurrezione o attraverso
l’immediata trasformazione, allora l’ultimo nemico, la morte, sarà definitivamente sconfitta, come
se venisse “inghiottita” (v. 54) da Cristo, e perderà ogni potere di danneggiare o di nuocere, Il
pungiglione” di cui la “morte” si serve per dilatare sempre più il suo regno, è il “peccato” (v. 56),
perché essa è nata appunto dal peccato (Rom 5,12). Eliminato il peccato, la morte è come una
regina spodestata: il ritorno ultimo di Cristo segnerà la sconfitta definitiva del peccato, che sarà
eliminato dal Regno di Dio e conseguentemente anche della morte, creatura del peccato.
San Paolo dice che il peccato prende forza dalla “Legge”, infatti la legge incrementava la
forza del peccato, in quanto faceva sì conoscere agli uomini i comandamenti di Dio, ma minacciava
di morte coloro che non li osservavano, senza, tuttavia, procurare ad essi l’intimo sostegno della
grazia che dava la forza per osservarli la grandezza di Cristo sta nella nostra vittoria sul peccato, quindi poter guardare al ostro cuore senza essere miacciati di morte ma perdonati a causa dell'Amore di quell'Uomo che è morto per noi sulla croce e che mediante la la fede e il Suo Amore, siamo stati giustificati e pertanto certi del trionfo di domani.In vista del premio eterno e di quella totale vittoria del nostro essere, per cui non solo l’anima ma anche il nostro corpo sarà come assorbito nella luce e nella gloria dello Spirito vivificante, Paolo conclude esortando i cristiani a essere forti nella fede e a non lasciarsi smuovere dalle difficoltà: ogni piccolo sacrificio non sarà stato “vano” e avrà la sua abbondante ricompensa “nel Signore” (v. 58).
Prima di chiudere la lettera, l’Apostolo dà alcune norme sulle “collette” da fare “in favore dei
santi” (v. 1), cioè i cristiani di Gerusalemme, venutisi a trovare in ristrettezze economiche. Il
primo giorno della settimana”27, successivo al sabato ebraico, è la nostra domenica (Apoc. 1,10;
Atti 20,7), era destinato alle riunioni liturgiche comunitarie. Si noti la delicatezza con cui viene
chiamata la colletta: “la vostra grazia” (v. 3). Le ultime raccomandazioni (vv. 13-18) riassumono un po’ la tematica di tutta la lettera, sullo sfondo c’è il richiamo alla “carità” (v. 14), e l’esortazione alla “gratitudine”. La lettera si chiude con i “saluti” scambievoli dei membri delle varie comunità.
Questo scambio di saluti tra fratelli assenti e tra fratelli della medesima comunità contribuiva a
creare quel clima di “fraternità ecclesiale” che è il frutto più bello della carità e l’anima stessa della
Chiesa. I saluti personali di Paolo sono scritti di proprio pugno (v. 21), a modo di autografo, come era solito fare anche in altre lettere (Gal 6,11; 2 Tess 3,17; Col 4,18).
Il più grande peccato degli uomini è il non rispondere al “grande amore con cui Cristo ci ha amati”
( “anatema” v. 22). E se amiamo Gesù, non possiamo non desiderare che egli “ritorni” presto.
Infatti l’espressione aramaica “Maranà tha” significa appunto: “Signore nostro, vieni”. Il fatto che
Paolo non la traduca significa che essa era ormai entrata nella liturgia comune, come le altre

espressioni: “Amen”, “Alleluia”, “Hosanna”, che tutti conoscevano.

Nessun commento: