Con
San Paolo sulla via della salvezza
Continuiamo
il nostro viaggio verso la saggezza di San Paolo Apostolo e lo
faccialo analizzando La prima lettera ai Corinzi ,
CONTESTO
STORICO
scritta
nella primavera del 57, durante
il terzo viaggio missionario di Paolo (54-57). Dimorando l’Apostolo
ad Efeso, pur essendo tutto dedito all’evangelizzazione di quella
grande metropoli e del suo vastissimo retroterra, non cessava di
interessarsi delle altre comunità e soprattutto di quella di
Corinto, che egli aveva visitato per la prima volta nel 51 d.C in
occasione del suo secondo viaggio missionario (49-52 d.C.). C’era a
Corinto che non andava bene: si doveva trattare di abusi morali e di
gravi sregolatezze nei costumi. Egli tentò di rimediare scrivendo
una prima lettera, che disgraziatamente è andata perduta (1 Cor 5,
9-13). L’esito di quella missiva però non dovette essere troppo
lusinghiero, se l’Apostolo continuò a ricevere notizie addirittura
allarmanti: invece di migliorare, la situazione andava peggiorando.
Infatti, sia alcune “persone della casa di Cloe”, sopraggiunte ad
Efeso (1 Cor 1,11), sia le notizie ricevute da Apollo (1 Cor 16,12)
informarono Paolo di scissioni, antagonismi e ridicole chiesuole che
si andavano formando in Corinto. Il fatto strano poi era che le
bandiere di questi avversi partiti erano proprio i nomi di
rispettabili persone (Paolo, Cefa, Apollo), che non avevano niente a
che fare con queste fazioni. La Chiesa dei Corinzi rischiava dunque
di frazionarsi in tante sètte rivali. E non era tutto. Abusi anche
peggiori si dovevano lamentare in campo morale, soprattutto per
quanto riguardava i rapporti sessuali. Su questo punto molti
pensavano di potersi concedere le medesime libertà dei pagani, tanto
il vizio era in loro incarnito. Anzi pensavano di legittimarsi
mettendo avanti l’insegnamento dell’Apostolo sulla “libertà”
cristiana: “Tutto mi è lecito” (1 Cor 6, 12-20; 10,23). Si era
arrivati addirittura a tollerare un orribile caso pubblico di
“incesto” (1 Cor 4,17). Inoltre c’era poca carità tra i
cristiani e si dava scandalo ai pagani, portando davanti ai loro
tribunali litigi e controversie (1 Cor 6,1-11). Questo il quadro
della situazione. Cosa fare per rimediare? Paolo pensò di inviare
subito a Corinto Timoteo, per provvedere almeno alle più urgenti
necessità (1 Cor 4,17). Ma non si accontentò, sospettando forse
che, data la giovane età, i Corinzi non avrebbero preso sul serio il
suo caro discepolo (1 Cor 16, 10-11), si decise a scrivere una
lettera piuttosto energica e risentita. Nel frattempo però, a
lettera già iniziata, dovette arrivare a Corinto una missione
ufficiale, composta da Stefana, Fortunato e Acaico (1 Cor 16,17), che
proponeva all’Apostolo alcuni “casi di coscienza” e alcuni
quesiti, come per esempio: il rapporto tra matrimonio e verginità (1
Cor 7,1), l’uso delle carni immolate agli idoli (8,1), ecc. Tenendo
conto di tutti questi elementi, Paolo scrisse questa prima lettera ai
Corinzi, che è quella che è giunta a noi, ma in effetti questa è
la seconda perché, come abbiamo già detto, la prima è andata
perduta (1 Cor 5,9). Questa lettera tuttavia non fu accolta bene e le
sue relazioni con la Chiesa di Corinto, lacerata ormai dalle
scissioni, peggiorarono. La situazione richiese una tempestiva visita
di Paolo a Corinto (2 Cor 12,14; 13, 1-2), che non ebbe però alcun
esito positivo concreto. Ritornato ad Efeso, Paolo scrisse ai Corinzi
una terza lettera redatta “con molte lacrime” (2 Cor 2,
3-4,9;7,8.12; 10,1.9), anche questa andata perduta. Infine Paolo
inviò il discepolo Tito a visitare personalmente i Corinzi per
accertarsi dei progressi e delle difficoltà della vita interna di
quella comunità e anche nel tentativo di rimediare un po’ alla
situazione. Terminata la sua missione, Tito avrebbe dovuto ritirarsi
a Troade per incontrare Paolo, che nel frattempo avrebbe lasciato
Efeso. Ma durante l’assenza di Tito ebbe luogo ad Efeso la sommossa
degli argentieri (Atti 19, 23-30-20,1) che costrinse Paolo ad
anticipare di qualche tempo la sua partenza da quella città, per cui
arrivato in anticipo a Troade non vi trovò il diletto discepolo. Non
avendo “sollievo al suo spirito” (2 Cor 2,13), si affrettò a
raggiungere la Macedonia, dove poté finalmente riabbracciare Tito,
che gli portava notizie abbastanza confortanti dalla comunità di
Corinto (7, 5-7). Per disporre gli animi alla sua imminente venuta,
per dissipare i dubbi e gli equivoci che nel frattempo avevano
turbato in maniera drammatica i cordiali rapporti tra l’Apostolo e
la comunità di Corinto, egli scrisse allora questa seconda lettera
che noi abbiamo (ma in effetti è la quarta lettera che Paolo scrive
ai Corinzi), caratterizzata da polemica vivace, ironia sferzante,
difesa serrata e talora patetica del suo modo di agire. Questo in
sintesi il quadro cronologico delle due (o meglio quattro) lettere di
Paolo alla comunità di Corinto. Ma per capire meglio le difficoltà
dell’evangelizzazione di questa Chiesa, è opportuno, sapere di più
sulla situazione economico-sociale-religiosa di questa città.
Fra
tutte le comunità cristiane fondate da Paolo, in modo particolare
della “Chiesa che è in
Corinto”
(1 Cor 1,2) egli andava orgoglioso. Era come il suo capolavoro, il
“sigillo” del suo
apostolato,
la sua “difesa” contro i denigratori (1 Cor 9,2.3), la sua
“lettera di raccomandazione”,
che
poteva essere “conosciuta e letta da tutti gli uomini” (2 Cor
3,2). Per comprendere meglio il contenuto, la dottrina, lo spirito
delle due lettere, è opportuno premettere una breve descrizione
dell’ambiente trovato dall’Apostolo a Corinto. La vecchia città
di Corinto, definita da Cicerone “Totius Graeciae lumen” (Pro
lege Manilia, 5), che era diventata il centro di resistenza contro
Roma, fu distrutta dai romani nel 146 a.C. e rimase un cumulo di
rovine fino al 46 a.C., quando Giulio Cesare fondò una nuova
Corinto, a cui diede il nome di “Colonia Laus Julia Corinthum”.
Nel 27 a.C. Ottaviano Augusto la elevò a capitale della provincia
romana dell’Acaia. Da questa data incomincia la rigogliosa ripresa
della città, la quale arrivò a superare per importanza e splendore
il precedente periodo di prosperità. Con i suoi due porti, Lecheo a
ovest e Cencre a est, la nuova Corinto riacquistò ben presto
l’importanza commerciale della vecchia città. Ai tempi di Paolo,
Corinto era una città in fermento con una popolazione cosmopolita
immigrata da tutte le parti dell’impero romano. La sua felice
posizione sull’istmo omonimo, a cavallo del Mar Ionio e Mar Egeo,
la rendeva un centro amministrativo e commerciale di primo ordine,
punto di incontro tra uomini d’affari e mercanti che provenivano
dall’Europa, dalla Grecia, dall’Italia, dalla Siria, dall’Egitto
e da altre parti dell’impero. Tutto questo spiega la sua florida
ricchezza, l’opulenta maestà delle sue costruzioni, fra cui
l’Agorà (la piazza centrale della polis greca, dove si svolgeva la
vita politica e commerciale della città), il tempio di Apollo in
stile dorico, le splendide fontane Glauke e Pirene, rivestita questa
ultima di marmi da Erode Attico, ricordato anche per la sua
proverbiale corruzione, favorita dal caotico cosmopolitismo dei suoi
abitanti. In un mondo pagano già notoriamente tollerante della
dissolutezza, Corinto aveva una sua reputazione particolare quanto a
licenza sfrenata e corruzione di costumi. Le più dissolute
cortigiane si davano convegno a Corinto: fra di esse rimase famosa
una certa Laide. Tale pessima rinomanza fece sì che presso gli
antichi “fanciulla corinzia” divenisse sinonimo di prostituta. La
città era dotata anche di un famoso centro sportivo. Era la patria
dei giochi istmici che ricorrevano ogni due anni a primavera. Atleti
di tutta la Grecia e di tutto l’impero affluivano a Corinto per
competere in queste gare. Corinto rappresenta l’ultima tappa del
secondo viaggio missionario di Paolo (Atti 15,36; 17,34). Partito da
Antiochia con Sila, aveva attraversato la Siria del Nord e quindi la
Cilicia, le città di Derbe e Listra, dove aveva preso al suo seguito
il giovane Timoteo, poi Iconio in Licaonia, Antiochia di Pisidia, la
Frigia, la regione della Galazia, e finalmente la Misia, di qui si
recò a Troade sulla riva asiatica del Mar Egeo. Qui gli era apparso
in sogno un Macedone che lo invitava a recarsi nella sua patria: ciò
che Paolo fece subito, recandosi a predicare il Vangelo prima a
Filippi, quindi a Tessalonica e a Berea. Poi, date le continue
persecuzioni da parte dei Giudei, dovette precipitosamente fuggire e
mettersi in salvo ad Atene. Anche in questa città il suo apostolato
segnò un clamoroso fallimento all’Aereopago. Dopo questo
fallimento, solo, senza la compagnia di Timoteo e Sila, mandati nel
frattempo a Tessalonica, totalmente sprovvisto di mezzi di
sussistenza, Paolo si presentò a Corinto, città del denaro e della
lussuria. Ma se ad Atene le cose erano andate male, egli non si
poteva certo illudersi che sarebbero andate meglio a Corinto. Quali
fossero il suo stato d’animo e i piani per la sua futura attività
missionaria ce lo descrive lui stesso nel brano autobiografico (1 Cor
2, 1-5).
Le
preoccupazioni economiche, che tormentavano l’Apostolo, furono ben
presto superate perché la
Provvidenza
gli fece trovare due coniugi giudei, a quel tempo già cristiani (1
Cor 16,19), Aquila e
Priscilla,
che proprio allora erano venuti a Corinto da Roma, avendo
l’Imperatore Claudio aveva
espulso
tutti gli Ebrei dalla capitale a causa di alcuni disordini che
sarebbero stati da loro provocati.
Siccome
Paolo “faceva lo stesso mestiere, rimase presso di loro e lavorava:
erano infatti di mestiere
fabbricanti
di tende” (Atti 18,3). Liberatosi dalle preoccupazioni economiche,
Paolo si dette subito alla predicazione incominciando, come al
solito, dalla Sinagoga. Visto che i Giudei non accettavano il
messaggio evangelico, si rivolse ai Gentili, in mezzo ai quali ebbe
la consolazione di raccogliere molti seguaci (Atti 18,8). Quantunque
questa prima lettera ai Corinzi non sia né sistematica né unitaria,
perché tratta argomenti vari, senza un ordine e un legame, ma con
l’unico intento di chiarire i dubbi dei suoi interlocutori, vi
possiamo tuttavia scorgete due ampie parti, ben distinte tra loro, e
che corrispondono alla duplice occasione che indusse Paolo a
scrivere: la prima, relativa alla correzione dei disordini
verificatisi in Corinto (capp. 1-6); la seconda, riguardante la
soluzione di certi quesiti presentati dai Corinzi (capp 7-16). non
dimentichiamo che seppur cambiano i contesti storici e i nomi delle
persone questa parola è ancora attuale perche' ancora nei tempi
odierni questi problemi sono ancora attuali. Vediamo ora più
dettagliatamente il piano della lettera.
Vita
Cristiana
l’Apostolo
afferma “siamo stati santificati in Cristo Gesù” nel Battesimo,
ricevendo un’investitura vocazionale che ci impegna “ad essere
santi” anche di fatto. A Cristo viene dato il titolo di
“Signore”segno evidente della sua divinità. La Chiesa
sostituisce quindi il popolo eletto, assumendone anche i diritti e le
prerogative. Questa è la prima volta che tale titolo viene
trasferito dalle comunità cristiane della Giudea (1 Tess 2,14) a una
comunità cristiana proveniente dal paganesimo. San Paolo inoltre
introduce il termine del “la Chiesa di Dio”, ricordando che la
chiesa è patrimonio comune di tutti coloro che seguono
l'insegnamento di Cristo pertanto l’invito all’unità che permea
tutta la nostra lettera e a fuggire lo spirito di divisione e di
partito . Fra i carismi vengono ricordati la “scienza” delle cose
divine e il dono di saperla comunicare agli altri mediante
appropriato “discorso” (v. 5). Paolo però spinge il suo sguardo
anche nel futuro: la grazia presente è un pegno sicuro per i
successivi aiuti, necessari a perseverare “irreprensibili” fino
all’ultimo giorno (v. 8), in cui avverrà la gloriosa
“manifestazione di Gesù”. Tale salvezza è qualificata da Paolo,
come “comunione” con il Figlio stesso di Dio. La vita eterna non
sarà che lo svelarsi e la degustazione totale delle dolcezze della
nostra figliolanza celeste. Si noti la prospettiva “escatologica”
in cui Paolo inserisce la vita del cristiano: questi è in continua
“attesa” della Parusia del Signore (v. 7) ed è chiaro che in
tale attesa, se egli è saggio, non può abbandonarsi alla negligenza
e all’ozio, come il servo stolto del Vangelo (Mt 25, 24-30).
Divisioni
tra i fedeli (1, 10-31)
L’adesione
perfetta a Cristo deve portare a una perfetta unità di “pensieri”
e di “sentimenti”, e ad eliminare le presenti e possibili future
“scissioni”, che producono inevitabili “discordie”e che
mettevano in serio pericolo non solo l’armonia ma anche, la purezza
della fede e dei costumi. L’Apostolo ci ricorda che il Cristo non
è stato “diviso”,ma ha vissuto per unire. La condanna di
queste divisioni è fondata da Paolo sull’unicità del battesimo,
che ha solo in Cristo la sorgente di ogni salvezza. E’ l’occasione
per ricordare che alla radice del battesimo c’è l’annunzio della
fede che è impegno primario e fondamentale dell’Apostolo. Al
centro della fede cristiana c’è un segno scandaloso e provocatorio
per la ragione umana, il Cristo crocifisso, segno rigettato dalla
sapienza greca e dalla religione giudaica, ma elevato da Dio come
potenza di salvezza. Il messaggio della Croce, quindi, è follia
per quelli che si perdono, ma per coloro che sono salvati, è
la rivelazione della potenza salvifica di Dio. Oggi, come nel
passato, Dio confonde la sapienza umana. Gli uomini sapienti, non
valgono nulla davanti a Dio. Non è fra di loro che egli sceglie i
predicatori della buona novella della salvezza. Dio non ha scelto
per la predicazione abili “dialettici” o persone di grande
“dottrina”, ma umili pescatori e gente modesta, dichiarando con
ciò stesso che è “stolta” la sapienza e l’intelligenza umana
qualora presumesse di salvare il mondo. Il culmine poi della
“stoltezza” e dello “scandalo” Paolo l’attinge dalla
predicazione di “Cristo crocifisso” (v. 23), come unica fonte di
salvezza. Ora un Dio crocifisso era qualcosa di incomprensibile, Il
messaggio del Vangelo, quindi, è una delusione per il mondo perché
Dio rivela la sua sapienza e le sue azioni salvifiche, in Cristo
crocifisso e risorto. L’Apostolo conferma questo modo di agire di
Dio, che si fa beffa della pretesa autosufficienza umana, la maggior
parte di quei cristiani infatti erano stati “chiamati” alla fede,
proprio da quelle classi meno nobili e colte della città (v. 26).
Davanti a Dio non valgono privilegi di casta, di borsa, di cultura o
prestigio, anzi egli sceglie proprio ciò che è più spregevole, o
addirittura “ciò che non esiste”, cioè ciò che non ha
significato (stolti, poveri, schiavi, pagani) per dimostrare che
l’uomo, chiunque egli sia, è nulla e che la salvezza viene
esclusivamente da Dio, in modo che nessuno possa vantarsi (v. 31).
Dalla loro condizione di nullità siamo trasformati dalla chiamata e
dall’azione di Dio in una nuova creazione. In Cristo, crocifisso e
risorto, i cristiani vengono in possesso di tutto ciò a cui si
aspira: giustizia, santità e redenzione.
Giustizia:
Cristo che è “il sì” a tutte le promesse di Dio, incarna la
giustizia divina, cioè, la fedeltà
di
Dio alle sue promesse di salvezza (Rom 3, 21-30).
Santificazione:
in quanto incarnazione della santità di Dio e dispensatore dello
Spirito di santità
elargito
nel battesimo, il Cristo risorto è diventato santificazione per noi.
Redenzione:
con la sua morte e risurrezione Cristo ha liberato gli uomini dalla
schiavitù del
peccato,
della carne, della legge e della morte. Paolo menziona per ultima la
redenzione perché
essa
viene completata unicamente dopo l’elargizione dell’ultima
grazia, la risurrezione gloriosa del
corpo
(Rom 8,23).
La
vera sapienza
il
significato della Sapienza divina
consiste nell'accettare
con fede il mistero del “Cristo crocifisso”
che il cristiano sarà avviato ed è introdotto nella vera “sapienza”
che viene donata dallo Spirito solo a quei cristiani, anche i più
semplici e meno colti, che sono arrivati, mediante una fede solida e
un
amore
operante, a una assimilazione feconda dei principi del Cristianesimo.
Essi sono cristiani adulti in Cristo e spiritualmente
maturi. Essere “perfetti” per i cristiani è una realtà, ma
anche un compito, un’esigenza di vita. Questa sapienza non è
conosciuta dai “dominatori di questo mondo”, cioè dalle grandi
personalità che dominano le nazioni. Il potere, crocifiggendo Gesù,
ha dimostrato di non conoscere il mistero divino. La sapienza è,
invece, comunicata dallo Spirito di Dio a coloro che si sono lasciati
invadere dallo Spirito stesso che è, così, divenuto il loro maestro
interiore. Con le forze della sua ragione l’uomo non riesce ad
accogliere questa sapienza, anzi, la rigetta come follia. Chi,
invece, è mosso dallo Spirito riesce a penetrare il mistero divino e
giunge a possedere lo stesso “pensiero di Cristo”
La
vera funzione dei predicatori
I
Corinzi come noi con le loro e nostre divisioni e con il rimandare
a predicatori umani,
rivelano
di essere lontani dalla sapienza divina. Sono simili a bambini
(non si può dare del cibo
solido
a un “infante” appena capace di digerire il “latte” materno),
cioè legati ancora alla carne,
incapaci
di salire alla maturità della fede.
L’apostolo
qui contrappone due gruppi:
1)
Uomini “materiali”, o i bambini in
Cristo (psjchikoi,
da psjchè) che usano soltanto le facoltà naturali di conoscenza e
di intelligenza (nous)
2)
Uomini “spirituali” (pneumatikoi,
da pneuma), nei quali lo Spirito Santo dimora e agisce.
E'
L’uomo perfettamente docile allo Spirito che abita in lui. Lo
Spirito del Signore, pertanto, abita e agisce nell’“uomo
spirituale” (pneumatikos) così che il suo pensare è sintonizzato
con quello di
Cristo
e valuta ogni cosa correttamente da un punto di vista soprannaturale.
Le facoltà dei sensi
sono
impotenti ad afferrare l’oggetto proprio dell’intelletto. Di
conseguenza, per conoscere e
apprezzare
i misteri della fede, l’intelletto dell’uomo deve essere elevato.
Il cristiano illuminato e
guidato
dallo Spirito è in grado di dare una corretta valutazione di tutti
gli eventi umani e di tutte le
scienze
umane. Lo Spirito non si acquisisce per studio, o scienza, ma è lui
stesso che dà all’“uomo
spirituale”
la capacità di giudicare tutte le realtà dell’universo alla luce
del piano divino.
Prendendo,
quindi, lo spunto dalla “carnalità” dei Corinti, che preferivano
stupidamente un
predicatore
a un altro, Paolo presenta ora le finalità, le caratteristiche e le
responsabilità dei
predicatori.
Ricorrendo a due immagini, egli illustra la missione degli
annunciatori del vangelo.
1)
La prima è di tipo agricolo: i predicatori del Vangelo sono
“servitori”, “collaboratori”,
simili
a contadini che irrigano, piantano e curano la coltivazione, ma chi
fa crescere e
vivere
è solo Dio, padrone del campo.
2)
La seconda immagine è di tipo edilizio. Gesù è il fondamento senza
il quale l’edificio
crollerebbe.
I vari ministri del Vangelo sono come gli operai che erigono le mura
con
differenti
materiali. Il “giorno” di Dio (3,13) collauderà quei materiali
per vagliarne la
consistenza
e la solidità. Da queste premesse circa il compito dei predicatori,
l’Apostolo ricava due conseguenze: i cristiani non prendano partito
per nessuno, perché tutti i predicatori appartengono a loro; non
osino “giudicare” nessuno perché soltanto Dio saggerà la
consistenza o meno del loro lavoro. Il capitolo si conclude con una
visione cosmica meravigliosa: non solo gli Apostoli, ma tutta la
realtà del “mondo” fisico con i più strani avvenimenti, quali
la “vita e la morte”, il “presente e il futuro” sono
messaggeri della volontà di Dio e segni del suo amore. Il cristiano
è il vero
dominatore
del mondo, a condizione che orienti tutto a Dio.
Gli
apostoli “amministratori dei misteri di Dio”
Essi
sono: i “ministri”15,
(i servi) di Cristo e gli “amministratori”16,
(i dispensatori), dei misteri di Dio, incaricati di predicare la
rivelazione divina.
A
giudicare l’operato degli annunciatori del Vangelo sarà Dio
stesso, quando verrà il giorno da lui
scelto
e saranno svelati i segreti dei cuori. Non è, perciò, giusto
pronunciare prima del tempo
verdetti
che esaltino o disprezzino l’uno o l’altro dei predicatori del
Vangelo. Tutti devono avere la
consapevolezza
di essere solamente “servi” che operano all’interno di un
progetto più alto, che è
nelle
mani di Dio. Perciò, non bisogna incorrere nel rischio di gonfiarsi
di “orgoglio”, ma “stare a ciò che è scritto” . L’Apostolo
ora enunciando un principio generale valido sia nel campo naturale
che soprannaturale, afferma che “noi tutto abbiamo ricevuto”
(v.7) da Dio e dagli altri: niente abbiamo di nostro che ci possa
distinguere e separare dagli altri. E allora perché inorgoglirsi e
“vantarsi” come se niente avessimo ricevuto? Per far sentire
meglio la stoltezza della nostra superbia, che ci mostra sazi,
ricchi, potenti, sapienti, forti, onorati. Paolo, al contrario, si
presenta all’ultimo posto, simile a un condannato, disprezzato,
perseguitato, affamato, è come “la spazzatura” e il “rifiuto
di tutti”, un miserabile rigettato dal mondo. Spesso nelle lettere
paoline si incontra la descrizione dei fallimenti e delle umiliazioni
subite (2 Cor 4, 7-12; 6, 3-10; 11, 23-33). Eppure è proprio questa
situazione che attesta la validità del ministero apostolico, perché
essa partecipa della logica della Croce. E’ questa la sapienza
cristiana che apre la strada alla salvezza e all’azione divina.
Paolo conclude la prima parte del suo scritto con un appello rivolto
ai suoi interlocutori, nei cui confronti egli si sente non un maestro
o un educatore, ma un padre, perché li ha “generati in Cristo
Gesù, mediante il Vangelo”. E’ per questo che i Corinzi devono
ascoltare le sue parole, anche se severe, perché nascono dall’amore
e dalla verità. Non manca una punta di polemica finale contro coloro
che si ribellano, convinti di aver raggiunto un’altezza spirituale
tale da essere superiori a tutti. Contro di loro l’Apostolo
presenta un volto rude, simbolicamente raffigurato dal bastone che
castiga. Si annunzia, però, anche l’invio previo di Timoteo, il
collaboratore di Paolo, destinato a precedere l’Apostolo nel
tentativo di mettere ordine nella turbolenta comunità di Corinto.
Il
caso di incesto
Un
secondo grave disordine è l' incesto (
Rapporto
sessuale tra persone di sesso diverso ma unite da un rapporto di
consanguineità ) e
San Paolo
pronuncia una sentenza di scomunica, cioè di separazione dalla
Chiesa, contro il colpevole, aggiungendovi la “consegna a Satana”.
La
pena però non ha solo carattere vendicativo, ma anche medicinale:
perché cioè l’anima dello
scomunicato
“sia salva” per “il giorno del Signore”.
Il
cattivo esempio è un lievito
(un fermento) negativo che corrompe anche gli
altri. E
qui
l’Apostolo prende spunto dalla Pasqua ebraica per ricordare che,
nella vita cristiana, l’agnello immolato è Cristo e i pani azzimi
dell’antico rito biblico sono i cristiani purificati dalla malizia
e dalla perversità. Si ribadisce la necessità di una limpida morale
della comunità, anche se il contatto con il mondo esterno comporta
l’incontro con tanti vizi. Il cristiano non è duro nel giudicare
coloro che sono all’esterno, è invece severo nel giudicare la
purezza della Chiesa. In questa lettera esortava i cristiani a
rompere ogni relazione (“a non mescolarsi”) con le persone dedite
alla lussuria, idolatria, rapacità e simili. L’Apostolo chiarisce
qui che lui intende rivolgersi solo ai cristiani, perché “quelli
che sono fuori”, cioè coloro che non appartengono alla comunità
cristiana saranno giudicati da Dio.
Il
ricorso ai tribunali pagani
Un
terzo disordine nella Chiesa è rappresentato dal fatto che alcuni
cristiani, che avevano qualche “affare” litigioso fra di loro,
invece di risolverlo in spirito di fraternità facevano ricorso ai
giudici “pagani”. E questo era occasione di scandalo all’esterno
della Chiesa.
I
pagani, infatti, già inclini alla “ingiustizia” e alla
parzialità (perciò vengono detti “ingiusti” v. 1),
non
potevano, nelle loro sentenze, tener conto dei principi religiosi e
superiori, che guidano i
cristiani
nel loro agire, per cui i loro tribunali sono “ingiusti”.
I
“santi” (così sono chiamati i cristiani in 6,2) devono essere
giudicati da altri “santi”, cioè la
comunità
cristiana dovrebbe costituire i propri tribunali, o perlomeno
invitare “un fratello saggio” a
dirigere
le questioni tra fratelli. Ma c’è un modo più radicale di
risolvere il problema, senza neanche ricorrere a una persona saggia,
ed è quello di non aver litigi (v. 7). Tali animosità infatti, per
lo spirito cristiano e anche per il buon nome dei cristiani presso i
pagani, rappresentano una vera sconfitta (v. 7). Piuttosto si subisca
l’ingiustizia e ci si lasci anche “spogliare” invece di
danneggiare i fratelli! Siamo di fronte all’insegnamento di Cristo,
nel Discorso della montagna. “Se uno ti percuote nella guancia
destra… A chi vuol prendere la tunica, lascia anche il mantello”.
Tale
principio della non-violenza è da intendersi come una permanente
disposizione a subire il
male
piuttosto che farlo. Se però la violenza altrui fosse causa di
disordine per la società o l’altro
non
fosse per niente disposto a imparare la lezione della mitezza, è
chiaro che interessi superiori ci
imporrebbero
di rinunciare alla mitezza e di usare la legittima forza. Altrimenti
crollerebbe il
principio
dell’autorità che Cristo medesimo (Gv 19,11) e Paolo (Rom 13, 1-7
cfr 1 Pt 2, 13-14)
hanno
così fortemente inculcato. Ogni peccato grave, sia esso lussuria o
avarizia o incontinenza o calunnia, esclude dalla “eredità del
regno” celeste. Comunque, il Battesimo ha “mondato “ tutto
l’uomo, e lo ha reso partecipe della stessa “santità” e
“giustizia” di Dio. E ciò in virtù della presenza di Cristo che
opera nel sacramento e per l’effusione dello “Spirito Santo”
nel medesimo sacramento (v. 11).Ma alcuni Corinti si appellavano alla
libertà cristiana per giustificare gravi trasgressioni morali
(v.12). E’ vero che al cristiano “tutto è lecito”, a
condizione però che questo sia “vantaggioso” a sé e agli altri,
e soprattutto che l’esercizio di tale libertà di fatto non renda
il credente “schiavo” di nessuno. E’ proprio questa
schiavitù che produce l’impurità, ed è quindi dannosa a sé e al
corpo sociale perché rende gli uomini schiavi degli istinti più
bestiali.
Un’altra
difficoltà veniva manifestata dai più libertini circa la naturale
inclinazione degli uomini
verso
l’atto sessuale. Essi infatti sostenevano che il piacere sessuale è
semplicemente la
soddisfazione
di un appetito naturale, lecito quindi quanto il mangiare e il bere
(v. 13).
L’Apostolo
rigetta questa argomentazione sbagliata, appellandosi alla dignità e
al ruolo del corpo
del
cristiano nell’economia divina della salvezza. Il mangiare e il
bere fanno parte della vita
mortale
in questo mondo e non sussisteranno nella vita della gloria. Per
questo tali funzioni non
hanno
alcun valore religioso. Ma il corpo è destinato alla glorificazione,
a divenire “un corpo
spirituale”
(15, 42-44). Esso in quanto tale, sopravviverà alla stessa morte
partecipando alla futura
risurrezione,
sull’esempio del “Signore Gesù rivestendosi di gloria immortale”
(Fil 3,21).
L’argomento
di Paolo poggia sui concetti di uso e di unione. Sesso, cibi e
bevande sono destinati
da
Dio all’uso e tale uso può essere lecito o illecito, per esempio,
sono illeciti: la golosità,
l’ebbrezza
e la fornicazione. Ma anche quell’uso che è lecito cesserà con la
risurrezione (“Dio
distruggerà
sia quello che questi”), cioè non ci sarà più ne sesso né cibo.
Ora,
la fornicazione, proprio per la sua stessa natura, avvilisce e
macchia il corpo, perché ne fa uno
strumento
di egoistico e sterile piacere e non lo predispone alla limpida
trasparenza che avrà nel
giorno
della risurrezione. Essendo questa la destinazione del nostro corpo,
è chiaro che Dio non
può
averlo fatto “per la fornicazione” ma solo per la gloria futura.
Nel battesimo il cristiano è incorporato a Cristo, così che il suo
corpo è diventato un membro di Cristo, quindi, gli appartiene. Ora
se “Dio ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la
sua potenza” (6,14). Il Signore Risorto è il modello oltre che il
fondamento del destino glorioso del corpo del cristiano.
Un’altra
considerazione a convalida della malizia dei rapporti sessuali
peccaminosi è questa:
benché
il corpo serva da strumento di peccato negli altri vizi, per esempio,
nell’ebbrezza e nella
golosità,
esso non stabilisce un’intima unione con un’altra persona, non si
sottomette al potere di
un
altro, come avviene invece per la fornicazione. Il fornicatore,
infatti, pecca contro il suo stesso
corpo,
contro la sua stessa persona, perché lo stacca dal Signore,
donandolo a un’altra persona, e lo
priva
del suo glorioso destino. Il corpo del cristiano, invece, è un
tempio in cui dimora lo Spirito
Santo
e appartiene pertanto a Dio. Il cristiano non ha alcun diritto di
cederlo a un altro. La
fornicazione
è anche un sacrilegio. Nel
matrimonio, invece, si presuppone l’unione degli spiriti prima che
dei corpi (v. 17), come Gesù che “ha amato la
Chiesa e si è offerto in sacrificio per essa (Ef. 5,25); nella
“fornicazione” invece è sovvertito l’ordine della creazione
(Gen 2,24) e si cerca solo l’egoistico soddisfacimento della
“carne”, soffocando le esigenze dello “spirito”.
Matrimonio
e verginita’
Mediante
la fede e la speranza il cristiano è già nel futuro, egli passa la
sua vita in questo mondo con gli occhi fissi in cielo, in una
paziente attesa della rivelazione gloriosa del Signore e della
glorificazione del suo stesso corpo al tempo della parusia (Gal 1,20;
Rom 8, 9-11; Ef 1,19). Poiché alla risurrezione non ci sarà né
moglie né marito (Mc 12,25; Mt 22,30), allora la verginità colloca
il cristiano nel futuro a livello esistenziale. Le preoccupazioni e
le responsabilità dello stato coniugale coinvolgono sia il marito
che la moglie negli affari di questo mondo che passa, e rendono
impossibile una dedizione totale alle “cose del Signore”. I
celibi e le vergini, invece, essendo liberi dalle preoccupazioni
della vita familiare, realizzano già in anticipo quella perfetta
consacrazione a Dio nel corpo e nello spirito che caratterizzerà la
vita di gloria (7, 32-34). Tutto questo però non sminuisce il
matrimonio, l’Apostolo, infatti, chiama entrambi questi stati di
vita (matrimonio e celibato), come “doni” di Dio (7,7).
Ovviamente l’accento sulla verginità acquista una particolare
urgenza, perché Paolo, quando scriveva questa lettera, sperava che
la venuta gloriosa del Signore fosse imminente. Ora esaminiamo il
testo più da vicino. Il matrimonio per l’Apostolo è lecito e
onesto, quantunque la verginità sia più eccellente: “E’ meglio
per un uomo di non toccare donna…” (v. 1). In tutta
la sezione egli considera il matrimonio più come un rimedio contro
la concupiscenza (vv. 2-9), che non nei suoi elementi positivi
di santità e di consacrazione cristiana, anche se Paolo non esclude
evidentemente questo aspetto, che è primario e fondamentale. I due
coniugi, infatti, hanno un uguale, esclusivo e reciproco diritto sui
corpi l’uno dell’altro in ordine agli atti matrimoniali (vv.3-4).
Questo contro lo stato di inferiorità della donna riconosciuto dal
diritto pagano e, in certa misura, anche ebraico. I coniugi, però,
possono di per sé anche rinunciare ai loro diritti coniugali per
attendere alla preghiera (v. 5). E questo per avvicinarsi di
più all’ideale di superamento degli istinti rappresentato dalla
verginità.20 E’ vero
che chi è libero dalla schiavitù dei sensi e dell’istinto può
più facilmente conversare con Dio e seguire attività spirituali, ma
è anche vero che vi è un pericolo che l’Apostolo teme, la
seduzione di “Satana”, e perciò dissuade il prolungamento
dell’astinenza. Ma se Paolo ha consigliato il matrimonio (vv.
6-7), è stato per una “condiscendente” comprensione per
coloro che non hanno la forza di resistere alla tirannia dei sensi.
Egli desidererebbe però che tutti scegliessero lo stato di verginità
come ha fatto lui. Ma ognuno ha davanti a sé una strada segnatagli
da Dio, una particolare “vocazione” che deve seguire. Non solo la
verginità dunque, ma anche il matrimonio è un “dono” di Dio,
che conferisce una particolare “grazia di stato” (kàrìsma).
Paolo in questi versetti (vv. 8-9) riassume tutta la dottrina
precedentemente esposta: “meglio” non sposarsi. Se però qualcuno
non si sa contenere, si sposi piuttosto che “ardere” di
concupiscenza. Ma se il matrimonio concede dei diritti, impone
anche dei doveri, il primo dei quali è l’“indissolubilità”
del vincolo (vv. 10-11). Paolo non fa che ricordare
l’insegnamento di Cristo (Mt5,32; 19, 6-9; Mc 10, 9-12; Lc 16,18).
Si tratta dunque di un insegnamento divino, trasmesso fedelmente
dalla tradizione apostolica. L’unica concessione che si possa fare
è che, per gravi motivi, la moglie non coabiti più col marito,
senza però “risposarsi”: il vincolo sussiste sempre. L’ideale
tuttavia è che “si riconcili” subito col marito. Non si tratta
dunque di divorzio, ma della cosiddetta “separazione legale”.
Quello che vale per la moglie vale ovviamente anche per il marito,
dato il piano di eguaglianza in cui l’Apostolo pone i due coniugi.
Al
marito poi è espressamente vietato di “ripudiare la moglie”,
come invece concedeva la Legge mosaica (Mt 19,7). Paolo affronta ora
(vv. 12-14) il caso dei cosiddetti “matrimoni misti”, cioè
tra un cristiano e un pagano. Un cristiano è obbligato a continuare
ad abitare dopo il battesimo con una moglie non della religione del
marito, a condizione che il partner non credente acconsenta a
coabitare in pace con il partner cristiano. Paolo dà una motivazione
più profonda a questa unione “mista”. Il corpo del cristiano
mediante il battesimo è stato santificato, è un membro di Cristo.
Lo sposo non credente, che diventa una sola carne con il cristiano
nella unione matrimoniale, diventa partecipe di questa
santificazione. Anche i figli nati da queste unioni sono “santi”
perché partecipano di questa grazia del coniuge cristiano, quindi
sono di diritto membri del popolo di Dio.
Tuttavia,
se il partner non credente abbandona il matrimonio, il cristiano deve
lasciarlo (la) andare.
Il
cristiano, infatti, non è obbligato a opporsi alla separazione e
coinvolgere se stesso in una vita di
discordia
coniugale e di reciproco antagonismo e liti senza fini. Permettendo
allo sposo non
credente
di andarsene, egli si assicurerà quella pace che è l’unica
atmosfera consona ad una vita
cristiana.
L’Apostolo dichiarando così il primato della fede, della libertà
dello spirito, ammette che i due si stacchino dal loro vincolo (è il
cosiddetto “privilegio paolino”21),
quando c’è impossibilità reale di convivenza e conversione.
L’unico motivo per un cristiano di continuare a vivere in un
matrimonio con un partner non credente è la sua speranza di salvare
il non credente (v. 16). Tale speranza è scarsamente fondata
quando il credente non desidera continuare nel matrimonio.
Comunque
sia, escluso questo caso del tutto eccezionale, l’Apostolo si
affretta a esortare ognuno a
perseverare
nello stato in cui si trovava, quando è stato chiamato alla fede: “E
questo io ordino a
tutte
le Chiese” (v. 17). Per chiarire meglio il concetto espresso prima
(v. 17), Paolo porta due esempi, presi l’uno dal mondo religioso e
l’altro dagli ordinamenti sociali del tempo.
1)
Davanti a Dio non contano né privilegi religiosi né quelli di casta
ma solo “l’osservanza dei comandamenti” (v. 19) e cioè “la
fede che opera mediante la carità” (Gal 5,6). Perciò davanti a
lui conta soltanto la “creatura nuova” rinata in Cristo Gesù.
2)
esempio è preso dagli ordinamenti sociali del tempo: neppure la
condizione di “schiavo”
impedisce
di essere cristiano (v. 21), perciò ciascuno rimanga tranquillamente
al suo posto (vv.
20.24),
che anzi, anche se uno potesse diventare “libero”, si consiglia
di rimanere nella
“condizione”
di prima (v. 21). Nella povertà e nell’umiltà si assomiglia di
più a Gesù Cristo, che
per
noi ha voluto “essere povero pur essendo ricco” (2 Cor 8,9), ed
ha assunto proprio la “forma di
schiavo”
pur essendo Dio (Fil 2, 6-7). Alcuni esegeti però interpretano
questo v. 21 in un modo del tutto diverso. Essi ritengono che Paolo
stia qui rivolgendo un invito agli schiavi a sfruttare ogni
opportunità per ottenere la libertà. Ma il contesto dell’intero
brano, e l’intero pensiero di Paolo, sono a favore della prima
interpretazione. L’apostolo, infatti, ha sempre visto
l’incompatibilità tra schiavitù e dignità dell’uomo creato ad
immagine di Dio ed elevato ad una nuova vita in Cristo, nel quale non
c’è alcuna distinzione tra schiavo e libero (Gal 3,28; 2 Cor
12,13; Col 3,11). Egli ha sempre affermato che padrone e schiavo sono
uguali in Cristo, davanti al quale non ci sono preferenze di persone
(Ef 6, 5-9). Tuttavia, a parte un velato accenno a Filemone perché
conceda la libertà a Onesimo (Filem 21), egli non fece mai pressione
sui padroni cristiani perché liberassero i loro schiavi. L’economia
del mondo grecoromano era costruita sul sistema della schiavitù e le
rivolte degli schiavi, assai temute dai romani, venivano soffocate
senza pietà. La Chiesa, assai piccola dal punto di vista numerico in
rapporto alla popolazione dell’impero e composta quasi interamente
da persone provenienti dalle classi più deboli della società, non
poteva fomentare ribellione contro quella struttura sociale ed
economica. Se l’Apostolo avesse pubblicamente proclamato la
incompatibilità della schiavitù con la dignità dell’uomo sarebbe
stato perseguitato come un agitatore di schiavi. Gli schiavi non
avrebbero avuto alcun vantaggio e la Chiesa sarebbe stata
spietatamente perseguitata. Paolo si limitò a predicare quella
dottrina cristiana che nel corso dei secoli portò gradualmente
all’abolizione della schiavitù. All’ Apostolo, quindi, preme
affermare qui un principio di immensa portata teologica ed ascetica,
e cioè difendere il Cristianesimo dall’accusa di ribellione e di
spirito rivoluzionario. Il Cristianesimo è un fatto interiore e
come tale si concilia con tutte le posizioni sociali: quello che
conta è il rapporto intimo di ognuno di noi con Dio. Ora, è
evidente che lo schiavo cristiano è “liberto del Signore” (v.
22) nel suo spirito, perché interiormente libero; e il padrone
cristiano, a sua volta, è “schiavo di Cristo”, nel senso che
deve riconoscere di essere stato da lui “comprato a caro prezzo”
nella Redenzione e ne accetta la sovranità. Una volta rovesciate le
condizioni interiori e trasformati gli spiriti, è chiaro che schiavi
e padroni invertiranno anche i loro rapporti esterni e sentiranno di
essere tutti ugualmente “liberi” e “schiavi” davanti a Dio.
Senza nessuna ribellione esterna, il Cristianesimo ha così compiuto
la grande rivoluzione della storia e ha abolito la schiavitù. Se una
dipendenza gli uni dagli altri sarà sempre necessaria nel mondo, i
cristiani sentano che è una dipendenza di amore e di servizio, così
come avviene in una famiglia dove l’ultimo non sente di essere meno
del primo, proprio per lo spirito di amore e di fraternità che vi
regna. L’unica “schiavitù” che il cristiano non potrà mai
accettare è quella dell’errore, dei pregiudizi, delle passioni
degli altri “uomini”. E’ di loro non bisogna farsi “schiavi”
(v. 23). Di fronte ad essi perciò il cristiano difenderà la sua
dignità di “liberto del Signore” e proteggerà, anche con la
morte se è necessario, la libertà “compratagli da Cristo a così
caro prezzo”. Lo stato di verginità è preferibile al matrimonio.
Riguardo
al celibato (“vergini”) dato che il tempo corre veloce verso la
parusia, è consigliabile dice Paolo che ciascuno rimanga così
com’è, celibe o sposato. Dato che, secondo l’insegnamento di
Paolo,
si avvicina velocemente la venuta del Signore, i cristiani devono
rimanere nello stato in cui
si
trovano: il celibe non deve sposarsi e il coniugato non deve
separarsi. Ma il celibe che si sposa
non
commette alcun peccato. Il consiglio di Paolo ai vergini di rimanere
celibi è suggerito da un
paterno
amore: egli vorrebbe risparmiare loro “le tribolazioni della carne”
inerenti alla vita
coniugale
(v. 28). Quanto più si avvicina la “fine” di tutti, tanto più
ognuno deve vivere come se fosse già distaccato da tutto, perché
niente avrà consistenza in quel “giorno” se non l’amore con il
quale avremo aderito al Signore. Qui viene suggerita dall’Apostolo
una meravigliosa regola di vita spirituale (“passa la scena di
questo mondo”), valida per ogni situazione dell’esistenza, tutto
è considerato come ombra delle cose future. Stando così le cose, è
innegabile che lo stato celibatario (vv. 32-35) colloca il cristiano
nella futura vita verginale della risurrezione, e perciò lo prepara
meglio all’incontro con Cristo. Come appendice al principio della
superiorità dello stato di verginità, l’Apostolo passa a
considerare due casi concreti: il primo (vv. 36-38) relativo ad
alcune “vergini” che si trovano in situazioni particolari; il
secondo (vv. 39-40) relativo alle “vedove”.
Il
primo caso è molto dibattuto tra gli esegeti: alcuni parlano di un
padre incerto che rimanda le
nozze
ed è invitato a prendere una decisione; altri pensano a un uomo (o
tutore) che ha accolto in
casa
sua una vergine; altri ancora pensano si tratti di fidanzati incerti
tra un ideale celibatario e il
matrimonio.
Più
chiaro è il consiglio riguardante le vedove, l’Apostolo non
intende vincolare la loro libertà di
risposarsi
dopo la morte del marito, però sarebbe meglio che rimanesse “così”
(v. 40).
Tratto da Don Antonio Schena
Nessun commento:
Posta un commento