giovedì 10 luglio 2014

Con San Paolo sulla via della salvezza

Con San Paolo sulla via della salvezza
Continuiamo il nostro viaggio verso la saggezza di San Paolo Apostolo e lo faccialo analizzando La prima lettera ai Corinzi ,
CONTESTO STORICO
scritta nella primavera del 57, durante il terzo viaggio missionario di Paolo (54-57). Dimorando l’Apostolo ad Efeso, pur essendo tutto dedito all’evangelizzazione di quella grande metropoli e del suo vastissimo retroterra, non cessava di interessarsi delle altre comunità e soprattutto di quella di Corinto, che egli aveva visitato per la prima volta nel 51 d.C in occasione del suo secondo viaggio missionario (49-52 d.C.). C’era a Corinto che non andava bene: si doveva trattare di abusi morali e di gravi sregolatezze nei costumi. Egli tentò di rimediare scrivendo una prima lettera, che disgraziatamente è andata perduta (1 Cor 5, 9-13). L’esito di quella missiva però non dovette essere troppo lusinghiero, se l’Apostolo continuò a ricevere notizie addirittura allarmanti: invece di migliorare, la situazione andava peggiorando. Infatti, sia alcune “persone della casa di Cloe”, sopraggiunte ad Efeso (1 Cor 1,11), sia le notizie ricevute da Apollo (1 Cor 16,12) informarono Paolo di scissioni, antagonismi e ridicole chiesuole che si andavano formando in Corinto. Il fatto strano poi era che le bandiere di questi avversi partiti erano proprio i nomi di rispettabili persone (Paolo, Cefa, Apollo), che non avevano niente a che fare con queste fazioni. La Chiesa dei Corinzi rischiava dunque di frazionarsi in tante sètte rivali. E non era tutto. Abusi anche peggiori si dovevano lamentare in campo morale, soprattutto per quanto riguardava i rapporti sessuali. Su questo punto molti pensavano di potersi concedere le medesime libertà dei pagani, tanto il vizio era in loro incarnito. Anzi pensavano di legittimarsi mettendo avanti l’insegnamento dell’Apostolo sulla “libertà” cristiana: “Tutto mi è lecito” (1 Cor 6, 12-20; 10,23). Si era arrivati addirittura a tollerare un orribile caso pubblico di “incesto” (1 Cor 4,17). Inoltre c’era poca carità tra i cristiani e si dava scandalo ai pagani, portando davanti ai loro tribunali litigi e controversie (1 Cor 6,1-11). Questo il quadro della situazione. Cosa fare per rimediare? Paolo pensò di inviare subito a Corinto Timoteo, per provvedere almeno alle più urgenti necessità (1 Cor 4,17). Ma non si accontentò, sospettando forse che, data la giovane età, i Corinzi non avrebbero preso sul serio il suo caro discepolo (1 Cor 16, 10-11), si decise a scrivere una lettera piuttosto energica e risentita. Nel frattempo però, a lettera già iniziata, dovette arrivare a Corinto una missione ufficiale, composta da Stefana, Fortunato e Acaico (1 Cor 16,17), che proponeva all’Apostolo alcuni “casi di coscienza” e alcuni quesiti, come per esempio: il rapporto tra matrimonio e verginità (1 Cor 7,1), l’uso delle carni immolate agli idoli (8,1), ecc. Tenendo conto di tutti questi elementi, Paolo scrisse questa prima lettera ai Corinzi, che è quella che è giunta a noi, ma in effetti questa è la seconda perché, come abbiamo già detto, la prima è andata perduta (1 Cor 5,9). Questa lettera tuttavia non fu accolta bene e le sue relazioni con la Chiesa di Corinto, lacerata ormai dalle scissioni, peggiorarono. La situazione richiese una tempestiva visita di Paolo a Corinto (2 Cor 12,14; 13, 1-2), che non ebbe però alcun esito positivo concreto. Ritornato ad Efeso, Paolo scrisse ai Corinzi una terza lettera redatta “con molte lacrime” (2 Cor 2, 3-4,9;7,8.12; 10,1.9), anche questa andata perduta. Infine Paolo inviò il discepolo Tito a visitare personalmente i Corinzi per accertarsi dei progressi e delle difficoltà della vita interna di quella comunità e anche nel tentativo di rimediare un po’ alla situazione. Terminata la sua missione, Tito avrebbe dovuto ritirarsi a Troade per incontrare Paolo, che nel frattempo avrebbe lasciato Efeso. Ma durante l’assenza di Tito ebbe luogo ad Efeso la sommossa degli argentieri (Atti 19, 23-30-20,1) che costrinse Paolo ad anticipare di qualche tempo la sua partenza da quella città, per cui arrivato in anticipo a Troade non vi trovò il diletto discepolo. Non avendo “sollievo al suo spirito” (2 Cor 2,13), si affrettò a raggiungere la Macedonia, dove poté finalmente riabbracciare Tito, che gli portava notizie abbastanza confortanti dalla comunità di Corinto (7, 5-7). Per disporre gli animi alla sua imminente venuta, per dissipare i dubbi e gli equivoci che nel frattempo avevano turbato in maniera drammatica i cordiali rapporti tra l’Apostolo e la comunità di Corinto, egli scrisse allora questa seconda lettera che noi abbiamo (ma in effetti è la quarta lettera che Paolo scrive ai Corinzi), caratterizzata da polemica vivace, ironia sferzante, difesa serrata e talora patetica del suo modo di agire. Questo in sintesi il quadro cronologico delle due (o meglio quattro) lettere di Paolo alla comunità di Corinto. Ma per capire meglio le difficoltà dell’evangelizzazione di questa Chiesa, è opportuno, sapere di più sulla situazione economico-sociale-religiosa di questa città.
Fra tutte le comunità cristiane fondate da Paolo, in modo particolare della “Chiesa che è in
Corinto” (1 Cor 1,2) egli andava orgoglioso. Era come il suo capolavoro, il “sigillo” del suo
apostolato, la sua “difesa” contro i denigratori (1 Cor 9,2.3), la sua “lettera di raccomandazione”,
che poteva essere “conosciuta e letta da tutti gli uomini” (2 Cor 3,2). Per comprendere meglio il contenuto, la dottrina, lo spirito delle due lettere, è opportuno premettere una breve descrizione dell’ambiente trovato dall’Apostolo a Corinto. La vecchia città di Corinto, definita da Cicerone “Totius Graeciae lumen” (Pro lege Manilia, 5), che era diventata il centro di resistenza contro Roma, fu distrutta dai romani nel 146 a.C. e rimase un cumulo di rovine fino al 46 a.C., quando Giulio Cesare fondò una nuova Corinto, a cui diede il nome di “Colonia Laus Julia Corinthum”. Nel 27 a.C. Ottaviano Augusto la elevò a capitale della provincia romana dell’Acaia. Da questa data incomincia la rigogliosa ripresa della città, la quale arrivò a superare per importanza e splendore il precedente periodo di prosperità. Con i suoi due porti, Lecheo a ovest e Cencre a est, la nuova Corinto riacquistò ben presto l’importanza commerciale della vecchia città. Ai tempi di Paolo, Corinto era una città in fermento con una popolazione cosmopolita immigrata da tutte le parti dell’impero romano. La sua felice posizione sull’istmo omonimo, a cavallo del Mar Ionio e Mar Egeo, la rendeva un centro amministrativo e commerciale di primo ordine, punto di incontro tra uomini d’affari e mercanti che provenivano dall’Europa, dalla Grecia, dall’Italia, dalla Siria, dall’Egitto e da altre parti dell’impero. Tutto questo spiega la sua florida ricchezza, l’opulenta maestà delle sue costruzioni, fra cui l’Agorà (la piazza centrale della polis greca, dove si svolgeva la vita politica e commerciale della città), il tempio di Apollo in stile dorico, le splendide fontane Glauke e Pirene, rivestita questa ultima di marmi da Erode Attico, ricordato anche per la sua proverbiale corruzione, favorita dal caotico cosmopolitismo dei suoi abitanti. In un mondo pagano già notoriamente tollerante della dissolutezza, Corinto aveva una sua reputazione particolare quanto a licenza sfrenata e corruzione di costumi. Le più dissolute cortigiane si davano convegno a Corinto: fra di esse rimase famosa una certa Laide. Tale pessima rinomanza fece sì che presso gli antichi “fanciulla corinzia” divenisse sinonimo di prostituta. La città era dotata anche di un famoso centro sportivo. Era la patria dei giochi istmici che ricorrevano ogni due anni a primavera. Atleti di tutta la Grecia e di tutto l’impero affluivano a Corinto per competere in queste gare. Corinto rappresenta l’ultima tappa del secondo viaggio missionario di Paolo (Atti 15,36; 17,34). Partito da Antiochia con Sila, aveva attraversato la Siria del Nord e quindi la Cilicia, le città di Derbe e Listra, dove aveva preso al suo seguito il giovane Timoteo, poi Iconio in Licaonia, Antiochia di Pisidia, la Frigia, la regione della Galazia, e finalmente la Misia, di qui si recò a Troade sulla riva asiatica del Mar Egeo. Qui gli era apparso in sogno un Macedone che lo invitava a recarsi nella sua patria: ciò che Paolo fece subito, recandosi a predicare il Vangelo prima a Filippi, quindi a Tessalonica e a Berea. Poi, date le continue persecuzioni da parte dei Giudei, dovette precipitosamente fuggire e mettersi in salvo ad Atene. Anche in questa città il suo apostolato segnò un clamoroso fallimento all’Aereopago. Dopo questo fallimento, solo, senza la compagnia di Timoteo e Sila, mandati nel frattempo a Tessalonica, totalmente sprovvisto di mezzi di sussistenza, Paolo si presentò a Corinto, città del denaro e della lussuria. Ma se ad Atene le cose erano andate male, egli non si poteva certo illudersi che sarebbero andate meglio a Corinto. Quali fossero il suo stato d’animo e i piani per la sua futura attività missionaria ce lo descrive lui stesso nel brano autobiografico (1 Cor 2, 1-5).
Le preoccupazioni economiche, che tormentavano l’Apostolo, furono ben presto superate perché la
Provvidenza gli fece trovare due coniugi giudei, a quel tempo già cristiani (1 Cor 16,19), Aquila e
Priscilla, che proprio allora erano venuti a Corinto da Roma, avendo l’Imperatore Claudio aveva
espulso tutti gli Ebrei dalla capitale a causa di alcuni disordini che sarebbero stati da loro provocati.
Siccome Paolo “faceva lo stesso mestiere, rimase presso di loro e lavorava: erano infatti di mestiere
fabbricanti di tende” (Atti 18,3). Liberatosi dalle preoccupazioni economiche, Paolo si dette subito alla predicazione incominciando, come al solito, dalla Sinagoga. Visto che i Giudei non accettavano il messaggio evangelico, si rivolse ai Gentili, in mezzo ai quali ebbe la consolazione di raccogliere molti seguaci (Atti 18,8). Quantunque questa prima lettera ai Corinzi non sia né sistematica né unitaria, perché tratta argomenti vari, senza un ordine e un legame, ma con l’unico intento di chiarire i dubbi dei suoi interlocutori, vi possiamo tuttavia scorgete due ampie parti, ben distinte tra loro, e che corrispondono alla duplice occasione che indusse Paolo a scrivere: la prima, relativa alla correzione dei disordini verificatisi in Corinto (capp. 1-6); la seconda, riguardante la soluzione di certi quesiti presentati dai Corinzi (capp 7-16). non dimentichiamo che seppur cambiano i contesti storici e i nomi delle persone questa parola è ancora attuale perche' ancora nei tempi odierni questi problemi sono ancora attuali. Vediamo ora più dettagliatamente il piano della lettera.

Vita Cristiana

l’Apostolo afferma “siamo stati santificati in Cristo Gesù” nel Battesimo, ricevendo un’investitura vocazionale che ci impegna “ad essere santi” anche di fatto. A Cristo viene dato il titolo di “Signore”segno evidente della sua divinità. La Chiesa sostituisce quindi il popolo eletto, assumendone anche i diritti e le prerogative. Questa è la prima volta che tale titolo viene trasferito dalle comunità cristiane della Giudea (1 Tess 2,14) a una comunità cristiana proveniente dal paganesimo. San Paolo inoltre introduce il termine del “la Chiesa di Dio”, ricordando che la chiesa è patrimonio comune di tutti coloro che seguono l'insegnamento di Cristo pertanto l’invito all’unità che permea tutta la nostra lettera e a fuggire lo spirito di divisione e di partito . Fra i carismi vengono ricordati la “scienza” delle cose divine e il dono di saperla comunicare agli altri mediante appropriato “discorso” (v. 5). Paolo però spinge il suo sguardo anche nel futuro: la grazia presente è un pegno sicuro per i successivi aiuti, necessari a perseverare “irreprensibili” fino all’ultimo giorno (v. 8), in cui avverrà la gloriosa “manifestazione di Gesù”. Tale salvezza è qualificata da Paolo, come “comunione” con il Figlio stesso di Dio. La vita eterna non sarà che lo svelarsi e la degustazione totale delle dolcezze della nostra figliolanza celeste. Si noti la prospettiva “escatologica” in cui Paolo inserisce la vita del cristiano: questi è in continua “attesa” della Parusia del Signore (v. 7) ed è chiaro che in tale attesa, se egli è saggio, non può abbandonarsi alla negligenza e all’ozio, come il servo stolto del Vangelo (Mt 25, 24-30).

Divisioni tra i fedeli (1, 10-31)

L’adesione perfetta a Cristo deve portare a una perfetta unità di “pensieri” e di “sentimenti”, e ad eliminare le presenti e possibili future “scissioni”, che producono inevitabili “discordie”e che mettevano in serio pericolo non solo l’armonia ma anche, la purezza della fede e dei costumi. L’Apostolo ci ricorda che il Cristo non è stato “diviso”,ma ha vissuto per unire. La condanna di queste divisioni è fondata da Paolo sull’unicità del battesimo, che ha solo in Cristo la sorgente di ogni salvezza. E’ l’occasione per ricordare che alla radice del battesimo c’è l’annunzio della fede che è impegno primario e fondamentale dell’Apostolo. Al centro della fede cristiana c’è un segno scandaloso e provocatorio per la ragione umana, il Cristo crocifisso, segno rigettato dalla sapienza greca e dalla religione giudaica, ma elevato da Dio come potenza di salvezza. Il messaggio della Croce, quindi, è follia per quelli che si perdono, ma per coloro che sono salvati, è la rivelazione della potenza salvifica di Dio. Oggi, come nel passato, Dio confonde la sapienza umana. Gli uomini sapienti, non valgono nulla davanti a Dio. Non è fra di loro che egli sceglie i predicatori della buona novella della salvezza. Dio non ha scelto per la predicazione abili “dialettici” o persone di grande “dottrina”, ma umili pescatori e gente modesta, dichiarando con ciò stesso che è “stolta” la sapienza e l’intelligenza umana qualora presumesse di salvare il mondo. Il culmine poi della “stoltezza” e dello “scandalo” Paolo l’attinge dalla predicazione di “Cristo crocifisso” (v. 23), come unica fonte di salvezza. Ora un Dio crocifisso era qualcosa di incomprensibile, Il messaggio del Vangelo, quindi, è una delusione per il mondo perché Dio rivela la sua sapienza e le sue azioni salvifiche, in Cristo crocifisso e risorto. L’Apostolo conferma questo modo di agire di Dio, che si fa beffa della pretesa autosufficienza umana, la maggior parte di quei cristiani infatti erano stati “chiamati” alla fede, proprio da quelle classi meno nobili e colte della città (v. 26). Davanti a Dio non valgono privilegi di casta, di borsa, di cultura o prestigio, anzi egli sceglie proprio ciò che è più spregevole, o addirittura “ciò che non esiste”, cioè ciò che non ha significato (stolti, poveri, schiavi, pagani) per dimostrare che l’uomo, chiunque egli sia, è nulla e che la salvezza viene esclusivamente da Dio, in modo che nessuno possa vantarsi (v. 31). Dalla loro condizione di nullità siamo trasformati dalla chiamata e dall’azione di Dio in una nuova creazione. In Cristo, crocifisso e risorto, i cristiani vengono in possesso di tutto ciò a cui si aspira: giustizia, santità e redenzione.
Giustizia: Cristo che è “il sì” a tutte le promesse di Dio, incarna la giustizia divina, cioè, la fedeltà
di Dio alle sue promesse di salvezza (Rom 3, 21-30).
Santificazione: in quanto incarnazione della santità di Dio e dispensatore dello Spirito di santità
elargito nel battesimo, il Cristo risorto è diventato santificazione per noi.
Redenzione: con la sua morte e risurrezione Cristo ha liberato gli uomini dalla schiavitù del
peccato, della carne, della legge e della morte. Paolo menziona per ultima la redenzione perché
essa viene completata unicamente dopo l’elargizione dell’ultima grazia, la risurrezione gloriosa del
corpo (Rom 8,23).

La vera sapienza

il significato della Sapienza divina consiste nell'accettare con fede il mistero del “Cristo crocifisso” che il cristiano sarà avviato ed è introdotto nella vera “sapienza” che viene donata dallo Spirito solo a quei cristiani, anche i più semplici e meno colti, che sono arrivati, mediante una fede solida e un
amore operante, a una assimilazione feconda dei principi del Cristianesimo. Essi sono cristiani adulti in Cristo e spiritualmente maturi. Essere “perfetti” per i cristiani è una realtà, ma anche un compito, un’esigenza di vita. Questa sapienza non è conosciuta dai “dominatori di questo mondo”, cioè dalle grandi personalità che dominano le nazioni. Il potere, crocifiggendo Gesù, ha dimostrato di non conoscere il mistero divino. La sapienza è, invece, comunicata dallo Spirito di Dio a coloro che si sono lasciati invadere dallo Spirito stesso che è, così, divenuto il loro maestro interiore. Con le forze della sua ragione l’uomo non riesce ad accogliere questa sapienza, anzi, la rigetta come follia. Chi, invece, è mosso dallo Spirito riesce a penetrare il mistero divino e giunge a possedere lo stesso “pensiero di Cristo”

La vera funzione dei predicatori

I Corinzi come noi con le loro e nostre divisioni e con il rimandare a predicatori umani,
rivelano di essere lontani dalla sapienza divina. Sono simili a bambini (non si può dare del cibo
solido a un “infante” appena capace di digerire il “latte” materno), cioè legati ancora alla carne,
incapaci di salire alla maturità della fede.
L’apostolo qui contrappone due gruppi:
1) Uomini “materiali”, o i bambini in Cristo (psjchikoi, da psjchè) che usano soltanto le facoltà naturali di conoscenza e di intelligenza (nous)
2) Uomini “spirituali” (pneumatikoi, da pneuma), nei quali lo Spirito Santo dimora e agisce.
E' L’uomo perfettamente docile allo Spirito che abita in lui. Lo Spirito del Signore, pertanto, abita e agisce nell’“uomo spirituale” (pneumatikos) così che il suo pensare è sintonizzato con quello di
Cristo e valuta ogni cosa correttamente da un punto di vista soprannaturale. Le facoltà dei sensi
sono impotenti ad afferrare l’oggetto proprio dell’intelletto. Di conseguenza, per conoscere e
apprezzare i misteri della fede, l’intelletto dell’uomo deve essere elevato. Il cristiano illuminato e
guidato dallo Spirito è in grado di dare una corretta valutazione di tutti gli eventi umani e di tutte le
scienze umane. Lo Spirito non si acquisisce per studio, o scienza, ma è lui stesso che dà all’“uomo
spirituale” la capacità di giudicare tutte le realtà dell’universo alla luce del piano divino.
Prendendo, quindi, lo spunto dalla “carnalità” dei Corinti, che preferivano stupidamente un
predicatore a un altro, Paolo presenta ora le finalità, le caratteristiche e le responsabilità dei
predicatori. Ricorrendo a due immagini, egli illustra la missione degli annunciatori del vangelo.
1) La prima è di tipo agricolo: i predicatori del Vangelo sono “servitori”, “collaboratori”,
simili a contadini che irrigano, piantano e curano la coltivazione, ma chi fa crescere e
vivere è solo Dio, padrone del campo.
2) La seconda immagine è di tipo edilizio. Gesù è il fondamento senza il quale l’edificio
crollerebbe. I vari ministri del Vangelo sono come gli operai che erigono le mura con
differenti materiali. Il “giorno” di Dio (3,13) collauderà quei materiali per vagliarne la
consistenza e la solidità. Da queste premesse circa il compito dei predicatori, l’Apostolo ricava due conseguenze: i cristiani non prendano partito per nessuno, perché tutti i predicatori appartengono a loro; non osino “giudicare” nessuno perché soltanto Dio saggerà la consistenza o meno del loro lavoro. Il capitolo si conclude con una visione cosmica meravigliosa: non solo gli Apostoli, ma tutta la realtà del “mondo” fisico con i più strani avvenimenti, quali la “vita e la morte”, il “presente e il futuro” sono messaggeri della volontà di Dio e segni del suo amore. Il cristiano è il vero
dominatore del mondo, a condizione che orienti tutto a Dio.

Gli apostoli “amministratori dei misteri di Dio”

Essi sono: i “ministri”15, (i servi) di Cristo e gli “amministratori”16, (i dispensatori), dei misteri di Dio, incaricati di predicare la rivelazione divina.
A giudicare l’operato degli annunciatori del Vangelo sarà Dio stesso, quando verrà il giorno da lui
scelto e saranno svelati i segreti dei cuori. Non è, perciò, giusto pronunciare prima del tempo
verdetti che esaltino o disprezzino l’uno o l’altro dei predicatori del Vangelo. Tutti devono avere la
consapevolezza di essere solamente “servi” che operano all’interno di un progetto più alto, che è
nelle mani di Dio. Perciò, non bisogna incorrere nel rischio di gonfiarsi di “orgoglio”, ma “stare a ciò che è scritto” . L’Apostolo ora enunciando un principio generale valido sia nel campo naturale che soprannaturale, afferma che “noi tutto abbiamo ricevuto” (v.7) da Dio e dagli altri: niente abbiamo di nostro che ci possa distinguere e separare dagli altri. E allora perché inorgoglirsi e “vantarsi” come se niente avessimo ricevuto? Per far sentire meglio la stoltezza della nostra superbia, che ci mostra sazi, ricchi, potenti, sapienti, forti, onorati. Paolo, al contrario, si presenta all’ultimo posto, simile a un condannato, disprezzato, perseguitato, affamato, è come “la spazzatura” e il “rifiuto di tutti”, un miserabile rigettato dal mondo. Spesso nelle lettere paoline si incontra la descrizione dei fallimenti e delle umiliazioni subite (2 Cor 4, 7-12; 6, 3-10; 11, 23-33). Eppure è proprio questa situazione che attesta la validità del ministero apostolico, perché essa partecipa della logica della Croce. E’ questa la sapienza cristiana che apre la strada alla salvezza e all’azione divina. Paolo conclude la prima parte del suo scritto con un appello rivolto ai suoi interlocutori, nei cui confronti egli si sente non un maestro o un educatore, ma un padre, perché li ha “generati in Cristo Gesù, mediante il Vangelo”. E’ per questo che i Corinzi devono ascoltare le sue parole, anche se severe, perché nascono dall’amore e dalla verità. Non manca una punta di polemica finale contro coloro che si ribellano, convinti di aver raggiunto un’altezza spirituale tale da essere superiori a tutti. Contro di loro l’Apostolo presenta un volto rude, simbolicamente raffigurato dal bastone che castiga. Si annunzia, però, anche l’invio previo di Timoteo, il collaboratore di Paolo, destinato a precedere l’Apostolo nel tentativo di mettere ordine nella turbolenta comunità di Corinto.

Il caso di incesto

Un secondo grave disordine è l' incesto ( Rapporto sessuale tra persone di sesso diverso ma unite da un rapporto di consanguineità ) e San Paolo pronuncia una sentenza di scomunica, cioè di separazione dalla Chiesa, contro il colpevole, aggiungendovi la “consegna a Satana”.
La pena però non ha solo carattere vendicativo, ma anche medicinale: perché cioè l’anima dello
scomunicato “sia salva” per “il giorno del Signore”.
Il cattivo esempio è un lievito (un fermento) negativo che corrompe anche gli altri. E
qui l’Apostolo prende spunto dalla Pasqua ebraica per ricordare che, nella vita cristiana, l’agnello immolato è Cristo e i pani azzimi dell’antico rito biblico sono i cristiani purificati dalla malizia e dalla perversità. Si ribadisce la necessità di una limpida morale della comunità, anche se il contatto con il mondo esterno comporta l’incontro con tanti vizi. Il cristiano non è duro nel giudicare coloro che sono all’esterno, è invece severo nel giudicare la purezza della Chiesa. In questa lettera esortava i cristiani a rompere ogni relazione (“a non mescolarsi”) con le persone dedite alla lussuria, idolatria, rapacità e simili. L’Apostolo chiarisce qui che lui intende rivolgersi solo ai cristiani, perché “quelli che sono fuori”, cioè coloro che non appartengono alla comunità cristiana saranno giudicati da Dio.

Il ricorso ai tribunali pagani

Un terzo disordine nella Chiesa è rappresentato dal fatto che alcuni cristiani, che avevano qualche “affare” litigioso fra di loro, invece di risolverlo in spirito di fraternità facevano ricorso ai giudici “pagani”. E questo era occasione di scandalo all’esterno della Chiesa.
I pagani, infatti, già inclini alla “ingiustizia” e alla parzialità (perciò vengono detti “ingiusti” v. 1),
non potevano, nelle loro sentenze, tener conto dei principi religiosi e superiori, che guidano i
cristiani nel loro agire, per cui i loro tribunali sono “ingiusti”.
I “santi” (così sono chiamati i cristiani in 6,2) devono essere giudicati da altri “santi”, cioè la
comunità cristiana dovrebbe costituire i propri tribunali, o perlomeno invitare “un fratello saggio” a
dirigere le questioni tra fratelli. Ma c’è un modo più radicale di risolvere il problema, senza neanche ricorrere a una persona saggia, ed è quello di non aver litigi (v. 7). Tali animosità infatti, per lo spirito cristiano e anche per il buon nome dei cristiani presso i pagani, rappresentano una vera sconfitta (v. 7). Piuttosto si subisca l’ingiustizia e ci si lasci anche “spogliare” invece di danneggiare i fratelli! Siamo di fronte all’insegnamento di Cristo, nel Discorso della montagna. “Se uno ti percuote nella guancia destra… A chi vuol prendere la tunica, lascia anche il mantello”.
Tale principio della non-violenza è da intendersi come una permanente disposizione a subire il
male piuttosto che farlo. Se però la violenza altrui fosse causa di disordine per la società o l’altro
non fosse per niente disposto a imparare la lezione della mitezza, è chiaro che interessi superiori ci
imporrebbero di rinunciare alla mitezza e di usare la legittima forza. Altrimenti crollerebbe il
principio dell’autorità che Cristo medesimo (Gv 19,11) e Paolo (Rom 13, 1-7 cfr 1 Pt 2, 13-14)
hanno così fortemente inculcato. Ogni peccato grave, sia esso lussuria o avarizia o incontinenza o calunnia, esclude dalla “eredità del regno” celeste. Comunque, il Battesimo ha “mondato “ tutto l’uomo, e lo ha reso partecipe della stessa “santità” e “giustizia” di Dio. E ciò in virtù della presenza di Cristo che opera nel sacramento e per l’effusione dello “Spirito Santo” nel medesimo sacramento (v. 11).Ma alcuni Corinti si appellavano alla libertà cristiana per giustificare gravi trasgressioni morali (v.12). E’ vero che al cristiano “tutto è lecito”, a condizione però che questo sia “vantaggioso” a sé e agli altri, e soprattutto che l’esercizio di tale libertà di fatto non renda il credente “schiavo” di nessuno. E’ proprio questa schiavitù che produce l’impurità, ed è quindi dannosa a sé e al corpo sociale perché rende gli uomini schiavi degli istinti più bestiali.
Un’altra difficoltà veniva manifestata dai più libertini circa la naturale inclinazione degli uomini
verso l’atto sessuale. Essi infatti sostenevano che il piacere sessuale è semplicemente la
soddisfazione di un appetito naturale, lecito quindi quanto il mangiare e il bere (v. 13).
L’Apostolo rigetta questa argomentazione sbagliata, appellandosi alla dignità e al ruolo del corpo
del cristiano nell’economia divina della salvezza. Il mangiare e il bere fanno parte della vita
mortale in questo mondo e non sussisteranno nella vita della gloria. Per questo tali funzioni non
hanno alcun valore religioso. Ma il corpo è destinato alla glorificazione, a divenire “un corpo
spirituale” (15, 42-44). Esso in quanto tale, sopravviverà alla stessa morte partecipando alla futura
risurrezione, sull’esempio del “Signore Gesù rivestendosi di gloria immortale” (Fil 3,21).
L’argomento di Paolo poggia sui concetti di uso e di unione. Sesso, cibi e bevande sono destinati
da Dio all’uso e tale uso può essere lecito o illecito, per esempio, sono illeciti: la golosità,
l’ebbrezza e la fornicazione. Ma anche quell’uso che è lecito cesserà con la risurrezione (“Dio
distruggerà sia quello che questi”), cioè non ci sarà più ne sesso né cibo.
Ora, la fornicazione, proprio per la sua stessa natura, avvilisce e macchia il corpo, perché ne fa uno
strumento di egoistico e sterile piacere e non lo predispone alla limpida trasparenza che avrà nel
giorno della risurrezione. Essendo questa la destinazione del nostro corpo, è chiaro che Dio non
può averlo fatto “per la fornicazione” ma solo per la gloria futura. Nel battesimo il cristiano è incorporato a Cristo, così che il suo corpo è diventato un membro di Cristo, quindi, gli appartiene. Ora se “Dio ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza” (6,14). Il Signore Risorto è il modello oltre che il fondamento del destino glorioso del corpo del cristiano.
Un’altra considerazione a convalida della malizia dei rapporti sessuali peccaminosi è questa:
benché il corpo serva da strumento di peccato negli altri vizi, per esempio, nell’ebbrezza e nella
golosità, esso non stabilisce un’intima unione con un’altra persona, non si sottomette al potere di
un altro, come avviene invece per la fornicazione. Il fornicatore, infatti, pecca contro il suo stesso
corpo, contro la sua stessa persona, perché lo stacca dal Signore, donandolo a un’altra persona, e lo
priva del suo glorioso destino. Il corpo del cristiano, invece, è un tempio in cui dimora lo Spirito
Santo e appartiene pertanto a Dio. Il cristiano non ha alcun diritto di cederlo a un altro. La
fornicazione è anche un sacrilegio. Nel matrimonio, invece, si presuppone l’unione degli spiriti prima che dei corpi (v. 17), come Gesù che “ha amato la Chiesa e si è offerto in sacrificio per essa (Ef. 5,25); nella “fornicazione” invece è sovvertito l’ordine della creazione (Gen 2,24) e si cerca solo l’egoistico soddisfacimento della “carne”, soffocando le esigenze dello “spirito”.

Matrimonio e verginita’

Mediante la fede e la speranza il cristiano è già nel futuro, egli passa la sua vita in questo mondo con gli occhi fissi in cielo, in una paziente attesa della rivelazione gloriosa del Signore e della glorificazione del suo stesso corpo al tempo della parusia (Gal 1,20; Rom 8, 9-11; Ef 1,19). Poiché alla risurrezione non ci sarà né moglie né marito (Mc 12,25; Mt 22,30), allora la verginità colloca il cristiano nel futuro a livello esistenziale. Le preoccupazioni e le responsabilità dello stato coniugale coinvolgono sia il marito che la moglie negli affari di questo mondo che passa, e rendono impossibile una dedizione totale alle “cose del Signore”. I celibi e le vergini, invece, essendo liberi dalle preoccupazioni della vita familiare, realizzano già in anticipo quella perfetta consacrazione a Dio nel corpo e nello spirito che caratterizzerà la vita di gloria (7, 32-34). Tutto questo però non sminuisce il matrimonio, l’Apostolo, infatti, chiama entrambi questi stati di vita (matrimonio e celibato), come “doni” di Dio (7,7). Ovviamente l’accento sulla verginità acquista una particolare urgenza, perché Paolo, quando scriveva questa lettera, sperava che la venuta gloriosa del Signore fosse imminente. Ora esaminiamo il testo più da vicino. Il matrimonio per l’Apostolo è lecito e onesto, quantunque la verginità sia più eccellente: “E’ meglio per un uomo di non toccare donna…” (v. 1). In tutta la sezione egli considera il matrimonio più come un rimedio contro la concupiscenza (vv. 2-9), che non nei suoi elementi positivi di santità e di consacrazione cristiana, anche se Paolo non esclude evidentemente questo aspetto, che è primario e fondamentale. I due coniugi, infatti, hanno un uguale, esclusivo e reciproco diritto sui corpi l’uno dell’altro in ordine agli atti matrimoniali (vv.3-4). Questo contro lo stato di inferiorità della donna riconosciuto dal diritto pagano e, in certa misura, anche ebraico. I coniugi, però, possono di per sé anche rinunciare ai loro diritti coniugali per attendere alla preghiera (v. 5). E questo per avvicinarsi di più all’ideale di superamento degli istinti rappresentato dalla verginità.20 E’ vero che chi è libero dalla schiavitù dei sensi e dell’istinto può più facilmente conversare con Dio e seguire attività spirituali, ma è anche vero che vi è un pericolo che l’Apostolo teme, la seduzione di “Satana”, e perciò dissuade il prolungamento dell’astinenza. Ma se Paolo ha consigliato il matrimonio (vv. 6-7), è stato per una “condiscendente” comprensione per coloro che non hanno la forza di resistere alla tirannia dei sensi. Egli desidererebbe però che tutti scegliessero lo stato di verginità come ha fatto lui. Ma ognuno ha davanti a sé una strada segnatagli da Dio, una particolare “vocazione” che deve seguire. Non solo la verginità dunque, ma anche il matrimonio è un “dono” di Dio, che conferisce una particolare “grazia di stato” (kàrìsma). Paolo in questi versetti (vv. 8-9) riassume tutta la dottrina precedentemente esposta: “meglio” non sposarsi. Se però qualcuno non si sa contenere, si sposi piuttosto che “ardere” di concupiscenza. Ma se il matrimonio concede dei diritti, impone anche dei doveri, il primo dei quali è l’“indissolubilità” del vincolo (vv. 10-11). Paolo non fa che ricordare l’insegnamento di Cristo (Mt5,32; 19, 6-9; Mc 10, 9-12; Lc 16,18). Si tratta dunque di un insegnamento divino, trasmesso fedelmente dalla tradizione apostolica. L’unica concessione che si possa fare è che, per gravi motivi, la moglie non coabiti più col marito, senza però “risposarsi”: il vincolo sussiste sempre. L’ideale tuttavia è che “si riconcili” subito col marito. Non si tratta dunque di divorzio, ma della cosiddetta “separazione legale”. Quello che vale per la moglie vale ovviamente anche per il marito, dato il piano di eguaglianza in cui l’Apostolo pone i due coniugi.
Al marito poi è espressamente vietato di “ripudiare la moglie”, come invece concedeva la Legge mosaica (Mt 19,7). Paolo affronta ora (vv. 12-14) il caso dei cosiddetti “matrimoni misti”, cioè tra un cristiano e un pagano. Un cristiano è obbligato a continuare ad abitare dopo il battesimo con una moglie non della religione del marito, a condizione che il partner non credente acconsenta a coabitare in pace con il partner cristiano. Paolo dà una motivazione più profonda a questa unione “mista”. Il corpo del cristiano mediante il battesimo è stato santificato, è un membro di Cristo. Lo sposo non credente, che diventa una sola carne con il cristiano nella unione matrimoniale, diventa partecipe di questa santificazione. Anche i figli nati da queste unioni sono “santi” perché partecipano di questa grazia del coniuge cristiano, quindi sono di diritto membri del popolo di Dio.
Tuttavia, se il partner non credente abbandona il matrimonio, il cristiano deve lasciarlo (la) andare.
Il cristiano, infatti, non è obbligato a opporsi alla separazione e coinvolgere se stesso in una vita di
discordia coniugale e di reciproco antagonismo e liti senza fini. Permettendo allo sposo non
credente di andarsene, egli si assicurerà quella pace che è l’unica atmosfera consona ad una vita
cristiana. L’Apostolo dichiarando così il primato della fede, della libertà dello spirito, ammette che i due si stacchino dal loro vincolo (è il cosiddetto “privilegio paolino”21), quando c’è impossibilità reale di convivenza e conversione. L’unico motivo per un cristiano di continuare a vivere in un matrimonio con un partner non credente è la sua speranza di salvare il non credente (v. 16). Tale speranza è scarsamente fondata quando il credente non desidera continuare nel matrimonio.
Comunque sia, escluso questo caso del tutto eccezionale, l’Apostolo si affretta a esortare ognuno a
perseverare nello stato in cui si trovava, quando è stato chiamato alla fede: “E questo io ordino a
tutte le Chiese” (v. 17). Per chiarire meglio il concetto espresso prima (v. 17), Paolo porta due esempi, presi l’uno dal mondo religioso e l’altro dagli ordinamenti sociali del tempo.
1) Davanti a Dio non contano né privilegi religiosi né quelli di casta ma solo “l’osservanza dei comandamenti” (v. 19) e cioè “la fede che opera mediante la carità” (Gal 5,6). Perciò davanti a lui conta soltanto la “creatura nuova” rinata in Cristo Gesù.
2) esempio è preso dagli ordinamenti sociali del tempo: neppure la condizione di “schiavo”
impedisce di essere cristiano (v. 21), perciò ciascuno rimanga tranquillamente al suo posto (vv.
20.24), che anzi, anche se uno potesse diventare “libero”, si consiglia di rimanere nella
condizione” di prima (v. 21). Nella povertà e nell’umiltà si assomiglia di più a Gesù Cristo, che
per noi ha voluto “essere povero pur essendo ricco” (2 Cor 8,9), ed ha assunto proprio la “forma di
schiavo” pur essendo Dio (Fil 2, 6-7). Alcuni esegeti però interpretano questo v. 21 in un modo del tutto diverso. Essi ritengono che Paolo stia qui rivolgendo un invito agli schiavi a sfruttare ogni opportunità per ottenere la libertà. Ma il contesto dell’intero brano, e l’intero pensiero di Paolo, sono a favore della prima interpretazione. L’apostolo, infatti, ha sempre visto l’incompatibilità tra schiavitù e dignità dell’uomo creato ad immagine di Dio ed elevato ad una nuova vita in Cristo, nel quale non c’è alcuna distinzione tra schiavo e libero (Gal 3,28; 2 Cor 12,13; Col 3,11). Egli ha sempre affermato che padrone e schiavo sono uguali in Cristo, davanti al quale non ci sono preferenze di persone (Ef 6, 5-9). Tuttavia, a parte un velato accenno a Filemone perché conceda la libertà a Onesimo (Filem 21), egli non fece mai pressione sui padroni cristiani perché liberassero i loro schiavi. L’economia del mondo grecoromano era costruita sul sistema della schiavitù e le rivolte degli schiavi, assai temute dai romani, venivano soffocate senza pietà. La Chiesa, assai piccola dal punto di vista numerico in rapporto alla popolazione dell’impero e composta quasi interamente da persone provenienti dalle classi più deboli della società, non poteva fomentare ribellione contro quella struttura sociale ed economica. Se l’Apostolo avesse pubblicamente proclamato la incompatibilità della schiavitù con la dignità dell’uomo sarebbe stato perseguitato come un agitatore di schiavi. Gli schiavi non avrebbero avuto alcun vantaggio e la Chiesa sarebbe stata spietatamente perseguitata. Paolo si limitò a predicare quella dottrina cristiana che nel corso dei secoli portò gradualmente all’abolizione della schiavitù. All’ Apostolo, quindi, preme affermare qui un principio di immensa portata teologica ed ascetica, e cioè difendere il Cristianesimo dall’accusa di ribellione e di spirito rivoluzionario. Il Cristianesimo è un fatto interiore e come tale si concilia con tutte le posizioni sociali: quello che conta è il rapporto intimo di ognuno di noi con Dio. Ora, è evidente che lo schiavo cristiano è “liberto del Signore” (v. 22) nel suo spirito, perché interiormente libero; e il padrone cristiano, a sua volta, è “schiavo di Cristo”, nel senso che deve riconoscere di essere stato da lui “comprato a caro prezzo” nella Redenzione e ne accetta la sovranità. Una volta rovesciate le condizioni interiori e trasformati gli spiriti, è chiaro che schiavi e padroni invertiranno anche i loro rapporti esterni e sentiranno di essere tutti ugualmente “liberi” e “schiavi” davanti a Dio. Senza nessuna ribellione esterna, il Cristianesimo ha così compiuto la grande rivoluzione della storia e ha abolito la schiavitù. Se una dipendenza gli uni dagli altri sarà sempre necessaria nel mondo, i cristiani sentano che è una dipendenza di amore e di servizio, così come avviene in una famiglia dove l’ultimo non sente di essere meno del primo, proprio per lo spirito di amore e di fraternità che vi regna. L’unica “schiavitù” che il cristiano non potrà mai accettare è quella dell’errore, dei pregiudizi, delle passioni degli altri “uomini”. E’ di loro non bisogna farsi “schiavi” (v. 23). Di fronte ad essi perciò il cristiano difenderà la sua dignità di “liberto del Signore” e proteggerà, anche con la morte se è necessario, la libertà “compratagli da Cristo a così caro prezzo”. Lo stato di verginità è preferibile al matrimonio.
Riguardo al celibato (“vergini”) dato che il tempo corre veloce verso la parusia, è consigliabile dice Paolo che ciascuno rimanga così com’è, celibe o sposato. Dato che, secondo l’insegnamento di
Paolo, si avvicina velocemente la venuta del Signore, i cristiani devono rimanere nello stato in cui
si trovano: il celibe non deve sposarsi e il coniugato non deve separarsi. Ma il celibe che si sposa
non commette alcun peccato. Il consiglio di Paolo ai vergini di rimanere celibi è suggerito da un
paterno amore: egli vorrebbe risparmiare loro “le tribolazioni della carne” inerenti alla vita
coniugale (v. 28). Quanto più si avvicina la “fine” di tutti, tanto più ognuno deve vivere come se fosse già distaccato da tutto, perché niente avrà consistenza in quel “giorno” se non l’amore con il quale avremo aderito al Signore. Qui viene suggerita dall’Apostolo una meravigliosa regola di vita spirituale (“passa la scena di questo mondo”), valida per ogni situazione dell’esistenza, tutto è considerato come ombra delle cose future. Stando così le cose, è innegabile che lo stato celibatario (vv. 32-35) colloca il cristiano nella futura vita verginale della risurrezione, e perciò lo prepara meglio all’incontro con Cristo. Come appendice al principio della superiorità dello stato di verginità, l’Apostolo passa a considerare due casi concreti: il primo (vv. 36-38) relativo ad alcune “vergini” che si trovano in situazioni particolari; il secondo (vv. 39-40) relativo alle “vedove”.
Il primo caso è molto dibattuto tra gli esegeti: alcuni parlano di un padre incerto che rimanda le
nozze ed è invitato a prendere una decisione; altri pensano a un uomo (o tutore) che ha accolto in
casa sua una vergine; altri ancora pensano si tratti di fidanzati incerti tra un ideale celibatario e il
matrimonio.
Più chiaro è il consiglio riguardante le vedove, l’Apostolo non intende vincolare la loro libertà di

risposarsi dopo la morte del marito, però sarebbe meglio che rimanesse “così” (v. 40).
Tratto da Don Antonio Schena

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