La Pasqua ebraica era
celebrata a piccoli gruppi di almeno dieci persone e cominciava la sera dopo il
tramonto (il 15 di Nisan). L’uccisione degli agnelli pasquali nel cortile
interno del tempio, era eseguita dai rappresentanti delle singole comunità
partecipanti (ai sacerdoti spettava solamente di aspergere col sangue degli
agnelli l’altare dei sacrifici) il pomeriggio precedente (14 di Nisan), e così
pure la preparazione dell’agnello pasquale. Il pasto era consumato stando
sdraiati su tappeti. All’inizio il capofamiglia, o il padrone di casa,
pronunciava una formula di benedizione su un primo calice di vino, dal quale
bevevano prima lui e poi tutti i commensali del banchetto pasquale. Seguiva la
lavanda delle mani (che per gli Ebrei rivestiva il carattere di purificazione),
e si serviva un antipasto: erbe amare intinte in una salsa rossiccia,
l’haroset.
Si portava, quindi, a tavola
il pasto principale: agnello pasquale, pane azzimo, e vino. Si porgeva,
intanto, un secondo calice e la tradizionale lavanda delle mani. Prima di
toccare questi cibi, però, si teneva la liturgia pasquale, la cui parte più
importante era costituita dalla narrazione (“haggada” in ebraico) pasquale
nella quale il capofamiglia raccontava la storia dell’esodo dall’Egitto
conforme a Deut. 26, 5-11 e interpretava il significato dei singoli elementi
del pasto.
- Erbe amare:
simboleggiavano l’amarezza della schiavitù egiziana.
- Haroset: indicavano la
fabbricazione dei mattoni in terra d’Egitto.
- Agnello: rimandava la
notte della liberazione, quando gli Ebrei col sangue dell’agnello tingevano gli
stipiti delle porte.
- Pane azzimo: era il
simbolo della “fretta” della partenza, infatti, le donne non fecero in tempo a
far lievitare il pane perché il Faraone aveva ordinato di lasciare subito
l’Egitto.
Dopo il simbolismo dei cibi,
si cantava insieme il Salmo 113 (prima parte dell’hallel pasquale, chiamato
anche “Piccolo Hallel”). Si mangiava poi il pasto principale,
senza mangiare, però, l’agnello pasquale, perché offerto a Dio in sacrificio, e
una volta distrutto il Tempio non si offrì più alcun sacrifico. Prima di
mangiare il pasto il capofamiglia introduceva con una preghiera sul pane azzimo
e finiva con un’altra sul terzo calice di vino. Seguiva il tradizionale rito
della lavanda delle mani e la conclusione dell’intera celebrazione col canto
del Salmo 114 o 115 (seconda parte dell’hallel o “Grande Hallel”),
e la benedizione del capofamiglia su un quarto calice. Gesù ha sempre partecipato
alla celebrazione della Pasqua ebraica, ma la sua ultima Pasqua ha voluto
celebrarla con solennità, in una “sala al piano superiore, grande e addobbata”
(Lc. 22,12). Incarica Pietro e Giovanni per i preparativi; i due apostoli
comprano l’occorrente per la Cena pasquale: erbe amare, pane azzimo, vino e
agnello che portano, com’era consuetudine, al tempio per il sacrificio.
Nell’ora stabilita Gesù
siede a tavola e gli Apostoli con lui. Durante la degustazione delle erbe amare
(antipasto) avviene lo svelamento del tradimento
di Giuda: “Colui che intinge con me nel piatto mi tradirà” (Mc. 14,20),
proprio in quel momento Giuda Iscariota stava intingendo le erbe amare
nell’haroset. Gesù continua la Cena secondo l’usanza ebraica, introducendo due
importanti novità. Sostituisce alla benedizione del pane azzimo la consacrazione dello stesso pane (“Questo è il mio Corpo”). Alla
benedizione del terzo calice della Pasqua ebraica sostituisce la consacrazione del vino (“Questo è il mio sangue”).
Al termine della Cena, “dopo
aver cantato l’Inno (il Grande Hallel) si recano verso il monte degli Ulivi”.
Il racconto prosegue con la narrazione della Passione e Morte in croce di Gesù.
PASQUA EBRAICA
PASQUA CRISTIANA
Antipasto Antipasto
- I°Calice (benedizione)
- I° Calice
- Lavanda delle
mani
- Lavanda delle mani
- Erbe amare
- Tradimento di Giuda
- Haroset
- Haroset
Pasto
Pasto
- II°
Calice
- II° Calice
- Lavanda delle
mani
- Lavanda delle mani
- Simbolismo dei cibi (Deut.26, 5-11)
- Simbolismo dei cibi
- Piccolo Hallel (Salmo 113)
- Piccolo Hallel
- Agnello
- Agnello
- Pane azzimo
- Consacrazione del Pane
- III° Calice
- Consacrazione del Vino
- Lavanda delle
mani
- Lavanda delle mani
- Grande Hallel (Salmo 114-117)
- Grande Hallel
- IV° Calice (conclusione)
- IV° Calice
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I figli d’Israele partirono da Ramses
verso Sukkot (l’attuale città egiziana Tell el-Maskuta) in seicentomila”. popolo in marcia verso la terra promessa.
Quest’immensa processione
d’uomini – nella realtà, molto più modesta ed esigua – porta con se
i pani azzimi che diventano ora il segno della fuga precipitosa verso la
libertà.
Il primo gruppo (coloro che
furono espulsi), probabilmente, percorse la via del mare, costeggiando a Nord i
territori che portavano fino alla regione dei Filistei, quindi, questi esuli
arrivarono a Cades e penetrarono nella Terra Promessa. Il gruppo più
significativo fuggì dall’Egitto attraversando la penisola del Sinai. Nella
storia è il Signore che veglia” (v. 42), come ha vegliato in quella
notte per guidare il suo popolo verso la libertà. La tradizione giudaica
posteriore, distinguerà quattro notti fondamentali nella storia della salvezza.
La prima è quella della Creazione (Gen. 1,3). La seconda è la notte
dell’Alleanza con Abramo (Gen. 15, 17-18).
La terza è quella della liberazione dall’Egitto (Es. 12,42). La quarta e ultima
notte sarà quella della venuta del Messia, in altre parole, la liberazione
definitiva.
“Esodo 12,43 descrive la celebrazione della
Pasqua ebraica.
Gli stranieri e coloro che
non partecipano a pieno titolo alla famiglia, non mangeranno l’agnello e gli
azzimi. Uno straniero che vuole parteciparvi deve prima accettare la
circoncisione, segno dell’alleanza tra Dio e Israele. La celebrazione deve
avere come sede la casa e come caratteristica precipua l’integrità: le ossa
dell’agnello non devono essere spezzate, la carne dev’essere tutta consumata,
il resto avanzato sarà bruciato.
Questa prima Pasqua,
celebrata in Egitto, è la sorgente di tutte le altre.
Questo testo riporta un’altra legge
religiosa di gran rilievo, quella secondo cui ogni primogenito ebreo è
automaticamente consacrato e quindi riservato al Signore. La legge funge da
contrasto con la vicenda dei primogeniti egiziani: costoro sono consacrati in
modo quasi sacrificale alla giustizia divina nella strage notturna; i
primogeniti ebrei sono, invece, possesso divino perché salvati da lui. Subito
dopo, però, il testo biblico ritorna sulle norme pasquali, da osservare
soprattutto quando Israele sarà stanziato nella terra promessa.
La Pasqua sarà una memoria
viva e perpetua della liberazione donata da Dio, una memoria da conservare
negli occhi (la mente), sulla bocca (la fede), e nelle mani (l’azione). Queste
espressioni simboliche verranno in seguito applicate alla Legge (Deut. 6).
In seguito gli Ebrei presero
alla lettera queste espressioni d’Es. 13,9 dando origine ai “filatteri” (dal greco “phjlasso” = “custodire”,
Mt. 23,5). In altre parole erano piccoli astucci di cuoio o di pergamena, posti
sulla fronte e sul braccio sinistro, contenenti dei testi biblici particolarmente
significativi (Deut. 6, 4-9; 11, 18-21).La legge dei primogeniti è ora
puntualizzata in modo rigoroso. Essa ormai non riguarda solo i figli d’Israele
ma anche i primi parti degli animali; poi c’incontreremo con una norma che
consacra a Dio anche le primizie dei campi (Levitico 23).
La menzione dell’asino
(Es. 13,13) è dovuta al fatto che esso era l’animale più comune per il lavoro
agricolo; essendo considerato “impuro”, non poteva essere riservato a Dio ma
sostituito con un altro animale, quando non c’era la possibilità economica di
riscattarlo con una sostituzione, era ucciso sacrificalmente con un colpo alla
nuca, così da evitare spargimento di sangue. Il sangue era considerato
una realtà sacra e intoccabile perché simbolo della vita.
I primogeniti degli
animali e degli uomini spettano alla divinità, come unica dispensatrice della
vita.
Questa convinzione degli
antichi si basava sul fatto che al primogenito era attribuito un particolare
carattere sacro. I promogeniti degli uomini, tuttavia, non dovevano essere
immolati, ma riscattati con un’offerta sostitutiva (Gen. 22,13; Es. 13,13).
Nella codificazione della
legislazione del culto e dei sacrifici, i Leviti (discendenti di Levi)
sostituirono i primogeniti d’Israele (Num. 3,12). Nel N.T. anche Gesù ha la
dignità e gli obblighi del primo nato e come tale “è offerto al Signore” (Lc.
2, 22-24). Alla radice della legge, comunque, è ribadito l’evento dell’esodo: i
primogeniti ebrei furono salvati da Dio e divennero perciò sua proprietà.
Esodo 13, 17-18 presenta un duplice itinerario per
l’uscita dall’Egitto.
- Il primo è quello della “strada della
terra dei Filistei”, vale
a dire, la strada militare che corre parallela alle coste del Mediterraneo e
che gli Egiziani percorrevano per recarsi in Siria
- Il secondo è quello della “strada del
deserto” (Es. 13,18) che Dio stesso indica al popolo, perché meno
controllata, quindi, più sicura e tranquilla. Questo percorso era più lungo del
primo, perché s’inoltrava nella penisola del deserto del Sinai e poi saliva
verso la Palestina, dopo aver superato il Mare delle Canne (di solito tradotto
con Mar Rosso), in pratica l’ampia area delle paludi ad oriente del delta del
Nilo, nella zona dei Laghi Amari o Salati, una regione oggi trasformata dall’istmo
di Suez.
Il percorso così
configurato, è visto come voluto da Dio, per impedire ad Israele di lasciarsi
tentare dalla nostalgia del ritorno in Egitto di fronte alle prime difficoltà. Israele marcia di tappa in tappa verso il
deserto, accompagnato dalle ossa di Giuseppe – rispettando così un suo
esplicito desiderio (Gen. 50,259 – e dal Signore, la cui presenza è
simboleggiata dalla nube che ripara dall’ardore del sole durante il giorno e
dal fuoco che illumina le tenebre della notte.
Nube e fuoco sono segni del mistero di Dio e della sua
provvidenza che guida Israele verso la libertà.
- da Sukkot, in ebraico significa “capanne”,. a Baal-Zefon
Rientra ora in scena il
Faraone il cui cuore ostinato non è stato piegato neppure dall’irruzione
terribile del giudizio di Dio, incarnato nella morte dei primogeniti. Secondo
la concezione biblica, Dio stesso combatte per proteggere il suo popolo
mostrando la via di uscita.
Infatti Mosè col suo bastone prodigioso dividerà le acque e
Israele passerà libero e salvo, mentre l’esercito faraonico scoprirà chi è il
vero Signore della storia. La presenza di Dio, come altrove nella Bibbia, è
incarnata dall’angelo che - insieme con l’altro simbolo divino della nube – si
schiera tra Israele e gli Egiziani quasi ad erigere una cortina di protezione.
Passa, così, una notte
d’attesa, cupa per gli Egiziani, luminosa per gli Ebrei che sono rischiarati
dalla nube che riflette una luce misteriosa sul loro accampamento. La Tradizione più antica, quella Jawhista,
(X sec. a.C.) descrive il
passaggio come una possibilità offerta ad Israele a causa di un forte vento
che, soffiando per un’intera notte, prosciuga la laguna (v. 21). Israele passa,
gli Egiziani non riescono ad approfittare di quest’occasione e sono ributtati
esanimi sulla riva quando le acque si sono nuovamente distese.
Ci sono stati molti
tentativi per dimostrare l’attendibilità storica di questa versione. I dati
biblici sono così esili da impedire una determinazione precisa dell’evento.
L’intervento di Dio libera e salva il suo popolo. Infatti nelle acque che si
trasformano in un sepolcro d’acqua per gli Egiziani e in mezzo di salvezza per
gli Ebrei, l’autore sacro ha visto il passaggio dall’Israele vecchio e schiavo
all’Israele nuovo e libero. E’ sulla base di questo simbolismo (il mare nella
Bibbia è segno di male e di morte), che il nostro racconto è diventato
un’immagine spirituale nella tradizione successiva. Per il Cristianesimo, poi,
si è trasformata in un emblema dell’esperienza pasquale del battezzato (1 Or.
10,2).
“Cantate
al Signore, perché si è mostrato grande: cavallo e cavaliere ha gettato in
mare” queste parole d’Esodo 15,21 sembrano la
più antica composizione della Bibbia. Veniva cantato col
Tamburello, la lira, l’arpa,
con uno strumento simile alla cetra, con dieci corde,Il flauto
Vi erano poi il corno, il corno
di ariete e i cembali,
Alle armate faraoniche egli
oppone la sua “destra”, che brandisce le forze naturali a lui soggette e il
soffio caldo della sua ira che irrompe dalle sue narici, secondo un’immagine
biblica legata allo “sbuffare” della collera (v. 8 e 10).
Il riferimento alla “destra
vittoriosa” di Dio è il tema portante del canto di Mosè (Es. 15,6), ma è
presente anche negli altri libri biblici, nei quali la rivelazione della forza
di Dio è descritta con l’immagine espressiva della sua “mano forte” e del suo
“braccio teso” a favore del popolo da lui salvato (Salmo 118).
Ira, collera, soffio di
Dio, riferiti a Dio, fanno parte del linguaggio antropomorfico con
il quale si attribuisce alla divinità comportamenti e reazioni dell’uomo.
La seconda parte dell’inno” (vv. 13-18) va
oltre l’esodo, si distende nel deserto, nella conquista della terra promessa e
giunge fino a Gerusalemme. Siamo, quindi, in presenza di un’elaborazione
posteriore, quando in Israele è già sorta la monarchia davidica ed è già stato
eretto il Tempio. Sfilano
innanzi tutto il popolo dell’area attorno e dentro la terra promessa. L’elenco
comprende quattro nomi (Filistei, Edom, Moab e Canaan), quasi a intendere i
punti cardinali della terra donata da Dio al suo popolo. Essi sono travolti
dalla paura, pietrificati anch’essi davanti alla potenza del Signore che stende
il suo braccio vittorioso e protettore nei confronti d’Israele.
Il Signore guida Israele
fino al monte di proprietà personale di Dio (il “monte della tua eredità”), lo
stabilisce perciò in Sion, dove si erge la santa dimora, il santuario preparato
dalle mani stesse di Dio.
L’inno di Mosè, si trasforma
così, in un Salmo del Tempio di Gerusalemme, tant’è vero che la finale contiene
un’antifona liturgica in onore del Signore re: “Il Signore regnerà in eterno e
per sempre” (v. 18).
L’obiettivo del narratore
ritorna, però, dopo il cantico di Mosè, sulla distesa dei cavalieri egiziani
annegati e sulla gioiosa processione degli Ebrei in marcia verso la libertà.
Al canto di Mosè, si associa
anche Maria, sua sorella, il cui nome ebraico “Miriam” è stato variamente interpretato: o sulla base
dell’egiziano “Mara” = “sazia”, “bella”, “formosa”, o dall’egiziano “Meri”=
“amata”, oppure da una radice cananea “rwm” che significa “elevata”.
Il ruolo di Maria
sembrerebbe in gran considerazione nella tradizione orale e popolare (Michea
6,4: “Ho mandato avanti a te Mosè, Aronne e Maria), anche se la tradizione
scritta è stata tutta incentrata sul ruolo del fratello Mosè. Con Aronne essa
fu coinvolta in un episodio di contestazione contro Mosè e fu colpita dalla
lebbra (Num. 12, 1-15). Probabilmente essi reclamavano un’autorità simile a
quella di Mosè.
Accompagnata dai tamburelli
ritmici e dalle danze delle donne ebree, Maria, intona una specie di antifona
che è considerata dagli studiosi come il nucleo da cui si è sviluppato il
cantico di Mosè appena letto.
Tutti i popoli dell’antico
Oriente hanno sempre praticato la danza come manifestazione pubblica di gioia
nelle feste religiose, familiari e nazionali. La Bibbia ricorda la danza in
onore di Dio (Es. 15,20), del vitello d’oro (Es. 32,19) e soprattutto quella
gioiosa di Davide dinanzi all’Arca (2 Sam. 6,14). La danza era parte importante
dei festeggiamenti della vittoria in guerra (1 Sam. 18, 6-7), dei matrimoni
(Sofonia 3, 16-17) e dei raccolti (Giudici 21,21; Geremia 31, 4-13). Il Salmo 150 invita ogni credente a lodare Dio
“con timpani e danze”.
Conclusa l’epopea del
passaggio del mare, seguono le distese deserticheDalla zona del Mare dei
Giunchi, sappiamo che Mosè condusse il popolo nel deserto di “Sur”,
chiamato il deserto di “Etam” in Num. 33,8. La parola ebraica “Sur” significa
“muro”: il deserto era così chiamato per la costituzione stepposa nella parte
settentrionale della penisola.Al termine d’una marcia di
tre giorni, il popolo giunge alla sorgente dal nome eziologico di “Mara”,
intravedono uno specchio d’acqua ma è salmastra: ecco spiegato il nome “Mara”
che in ebraico significa “amara”.Scatta la protesta d’Israele
assetato e sfinito.
“Mormorare”
nella Bibbia, è un verbo forte, usato per indicare l’opposizione di Israele a
Dio e al suo interessamento (Es. 15,24; 16,2.8; Salmo 78,19), un’opposizione
aspra e insistente (Esodo 17,7). E’ il verbo che percorre i libri biblici
che parlano del cammino di Israele nel deserto, e della sua pretesa di
suggerire a Dio come dovrebbe guidare la storia e gliavvenimenti. Le mormorazioni riguardano la sete
(Es. 15,24; 17,3), la fame (Es. 16, 2-3; Num. 11,
4-5), i pericoli di guerra (Num. 14, 2-3). Lasciato alla sua sola libertà,
l’uomo può compromettere la storia della salvezza pensata da Dio.
Dopo la protesta “Mosè gridò
al Signore, che gli mostrò un legno: lo gettò nell’acqua e l’acqua diventò
dolce” (v. 25). Questo curioso episodio riflette una convinzione ancora oggi
presente presso i beduini, secondo la quale alcuni arbusti sono ritenuti dotati
di poteri disinfettanti e purificatori.
Dopo questo episodio, si
profila davanti al popolo in marcia. Il cammino è ancora lungo. Bisogna arrivare
al deserto di “Sin”. Israele è ormai in marcia da un mese (Es. 16,1),
rispetto la notte di Pasqua (Es. 12,18). La resistenza alla salvezza offerta da
Dio si manifesta ancora una volta con la protesta del popolo ora affamato. Il
passato egiziano è visto con nostalgia: là c’erano pentole piene di carne e si
mangiava a sazietà! Si giunge fino al punto di accusare Mosè e Aronne di aver
condotto consapevolmente il popolo a morire nel deserto. Questo stravolgimento
nasce dalla malafede e dalla ribellione che la Bibbia descrive col verbo
ebraico “lwn” = “protestare”, “mormorare”, “recriminare”,
usato quasi esclusivamente nei racconti dell’esodo.
In un testo carico di
ripetizioni, dovute al concentrarsi delle varie tradizioni, si promette,
allora, al popolo un pane che “pioverà dal cielo” ogni giorno, tranne il
sabato. Ricordando che il giorno festivo è contrassegnato dal riposo, l’autore
biblico fa sì che il venerdì sia offerto da Dio al popolo affamato il doppio
del nutrimento necessario così da coprire pure il giorno del riposo. Insieme al
pane sarà offerta anche la carne, donata anch’essa dal Signore che si rivela
come un padre di famiglia preoccupato per il suo “figlio primogenito” Israele.
La scena grandiosa della
manna si apre con un’apparizione della Gloria del Signore avvolta dalla nube.
La Gloria, in
ebraico “Kabod”, è la rappresentazione dello svelarsi del mistero divino. Uno
svelamento che rimane incompiuto (si noti, infatti, la presenza della nube che
cela lo splendore della Gloria), perché l’uomo non può sopportare l’infinito di
Dio e la sua luce abbagliante.
Le parole divine annunziano
l’intervento per saziare Israele affamato. Alla sera Dio offrirà le quaglie,
uccelli migratori, che transitano nella penisola sinaitica due volte l’anno. La
bassa quota del loro volo e la stanchezza per la lunga traversata facilitano la
cattura di questi uccelli, la cui carne è gustosa. Sulla via dell’esodo un volo
di quaglie fu provvidenziale per gli Israeliti stanchi e affamati (Es. 16,13).
In Numeri 11, 31-33 un altro volo di quaglie si trasformò in castigo.
Al mattino sarà offerto,
invece, un cibo “fine, granuloso e minuto come la brina”. Il riferimento va
alla “manna” (in ebraico “man” è pronome interrogativo affine al “che
cosa?”; “hu”
significa invece “questo”)
Ancora oggi i beduini del
deserto chiamano “man” il frutto di una pianta conosciuta come “tamarix
mannifera”, che cresce soprattutto sulla costa occidentale della penisola
sinaitica; essi la raccolgono, la spalmano sul pane, la usano in pasticceria e
persino la distillano. Il
colore della manna è bianco come granelli di una pianta, il coriandolo (Es. 16, 31), i cui semi aromatici
sono adoperati per dare sapore. La pianta, ombrellifera, è alta circa 50 cm. e
produce fiori bianchi. Il coriandolo è tipico dei paesi mediterranei ed è usato
anche in profumeria e in farmacia.
Il sapore della manna è
simile al miele e il popolo doveva prendere un “homer” a
testa. L’homer e l’efa,
sono due unità di misura. L’homer equivale a circa 2,2 litri, l’efa a circa 22
litri.
In tutta la tradizione
biblica appare sempre il carattere straordinario di questo cibo che acquista
significati spirituali.
In Deut. 8,3 si legge: “Il Signore ti ha fatto mangiare
la manna che tu non conoscevi, per insegnarti che non di solo pane vive l’uomo,
ma di tutto ciò che esce dalla bocca di Dio”.
Il libro della Sapienza 16, 20-21 commenta: “Nutristi il tuo popolo con
il cibo degli angeli e preparasti per loro dal cielo un pane già pronto, senza
fatica, capace di procurare ogni delizia e di soddisfare ogni gusto. Veramente
quel tuo sostentamento manifestava la tua dolcezza per i figli”.
Lo sviluppo ultimo del
simbolismo della manna, si avrà nel discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di
Cafarnao (Giovanni 6),
dove essa diventa figura dell’eucarestia.
Com’è annunziato, giunti
alla vigilia del sabato, la manna raddoppia in quantità per permettere ad
Israele di osservare in pienezza il riposo sabbatico. Così gli Ebrei raccolgono
la manna e la fanno cuocere (c’è una piccola contraddizione con quanto si
diceva nel v. 21 a proposito dell’incapacità della manna di resistere al calore
del sole) e la conservano per il giorno successivo. Pertanto il miracolo della manna
sta nel modo abbondante di produzione, come nella moltiplicazione dei pani
operata da Gesù.
Notiamo inoltre come gli Ebrei non si
cibarono soltanto di manna. Il testo sacro lascia supporre che avendo con se
del bestiame, si cibano pure di latte e di carne. In Deut. 2,6 si prevede l’acquisto di viveri
nel passaggio lungo la frontiera del paese degli Edomiti; e Giosuè 1,11 dà
disposizioni per gli approvvigionamenti. La manna era dunque destinata ad
integrare altri generi alimentari, necessariamente scarsi in una steppa. La
manna serve pure da memoriale: un’urna speciale doveva contenere una certa
misura ed essere posta davanti alla Testimonianza (cioè alle tavole della Legge
conservate nell’arca), per ricordare alle generazioni future, un amore durato per
tutti i 40 anni del viaggio d’Israele nel deserto. La manna, infatti, cesserà
alle soglie della terra promessa.
Nella marcia d’Israele nel deserto si riaffaccia l’incubo della
sete e, con essa, la tentazione alla ribellione contro Mosè e il Signore. Siamo
sempre nel deserto di “Sin”, situato nel sud della penisola del Sinai; inizia
il paesaggio arido e spoglio che fa da sfondo al cammino degli Israeliti verso
la terra promessa.
Mosè, consapevole della
durezza della prova a cui è sottoposto il suo popolo assetato e della sua
esasperazione che lo può spingere a reazioni inconsulte, si rivolge a Dio, il
quale risponde ancora una volta col suo amore.
Il bastone di Mosè, farà
sprizzare una sorgente dalla roccia così da dissetare Israele. E’ curioso
notare che Paolo, riprendendo una tradizione giudaica, immagina che questa rupe
da cui era scaturita l’acqua, accompagni Israele nel suo pellegrinaggio nel
deserto: essa era per l’Apostolo simbolo di Cristo, fonte d’acqua viva (1 Or.
10,4).
L’evento clamoroso dell’acqua
sgorgata dalla roccia termina con una delle numerose spiegazioni di nomi di
località che abbiamo incontrato nella Bibbia. Quel luogo si chiamerà “Massa”
(in ebraica «prova”, “tentazione”) ed è inteso nel senso che gli Ebrei
“misero alla prova il Signore dicendo: “Il Signore è in mezzo a noi o no?” (Es.
17,7).
“Meriba”
(dall’ebraico “rib” = “discutere”, “contendere”), nasce a
motivo della “contesa dei figli d’Israele” (Es. 17, 2.7) con il Signore e con
Mosè.
Per la gravità
dell’atteggiamento assunto dagli Ebrei verso Dio, queste due località, sono
ricordate dalla tradizione biblica in modo negativo, con l’esortazione a non
ripetere più una tale esperienza (Salmo 95,8: “Non indurite il vostro cuore
come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto...). La crisi a Meriba
in Numeri 20, 2-13 è considerata, da alcuni, occasione
della famosa colpa di Mosè, per la quale egli non poté poi entrare nella terra
promessa.
Si profila, ora, all’orizzonte un altro
ostacolo alla salvezza: l’ostilità delle tribù beduine del deserto. Si tratta
d’Amalek, una popolazione che diventerà quasi un simbolo dei nemici d’Israele
anche nella storia successiva (Deut. 25, 17-19).
Gli Amaleciti facevano parte
di una federazione di nomadi del deserto insieme con i Madianiti e i Keniti.
Nel deserto era facile venire a conflitto con queste tribù a motivo soprattutto
del diritto di usare le sorgenti d’acqua presso le oasi. Questo conflitto può
costituire il retroscena della battaglia d’Israele con Amalek, com’è descritta
in questo testo di Esodo 17, 1-16.
Per la prima volta accanto a
Mosè appare Giosuè, che sarà il futuro condottiero d’Israele nella terra
promessa. E’ lui a dirigere i combattimenti ebrei contro Amalek. Cur che appare insieme con Mosè e Aronne è
un personaggio citato solo in Es. 17,10 e 24,14. Probabilmente apparteneva alla
classe sacerdotale e la sua discendenza confluì in quella di Aronne, erede del
sacerdozio.
Mosè è ora raffigurato come
il perfetto intercessore: le mani elevate al cielo sono il segno della
preghiera.
Tutto il racconto è
costellato di segni liturgici per ricordare che la vittoria è frutto
dell’azione divina: le mani alzate, il “bastone di Dio” , l’ascesa sul monte sacro,
l’altare eretto e consacrato al Signore, “vessillo” di vittoria per Israele, e
l’oscura formula conclusiva che ha il tono di un inno di guerra col quale si
proclama l’inimicizia che regnerà anche poi tra le tribù di Amalek e Israele. Ricorderemo che Mose’ per seguire la sua
Missione e mettere al sicuro la moglie e i figli permette che rimangano a casa
della famiglia di origine della moglie . Adesso Zippola e i figli Gherson e Eliezer, Ietro, raggiungono
rispettivamente il marito e il padre e
il Genero. Mosè ritrova, dunque, la sua
famiglia. E’ un incontro segnato dalla tenerezza e dal dialogo familiare, pieno
di ricordi e di eventi: “Si informano vicendevolmente sulla salute... Mosè
raccontò tutto quello che il Signore aveva fatto...”. Affiora anche la gioia
“per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele”.
Finito lo scambio delle
notizie, ritrovata la gioia dell’intimità, Ietro sembra ritornare nelle sue
vesti solenni di sacerdote. Nel v. 5 si ricorda che sullo sfondo si erge “il
monte di Dio”, il Sinai-Oreb, che tra poco sarà al centro del racconto. E’ in
questa atmosfera che il sacerdote di Madian si trasforma in un sacerdote
d’Israele. Infatti egli pronunzia una benedizione di taglio tipicamente
biblico, in cui si esalta l’articolo di fede fondamentale, quello della
liberazione dell’esodo, e si professa la fede nell’unico Signore, superiore a
ogni altra divinità adorata dagli uomini: “Benedetto
sia il Signore, che vi ha liberati dalla mano degli Egiziani... so che il
Signore (Jahwè) è più grande di tutti gli dèi” (Es. 18, 10-11).
E’ questo un modo per
esprimere l’unicità di Dio, nello stile di ciò che si affermerà nel primo
comandamento del Decalogo: “Non avrai altri dèi davanti a me” (Es. 20,3).
Alla benedizione segue un
rito sacrificale duplice che comprende l’olocausto (dal greco: “Olon” = “intero” e
dal verbo “kaustòn” = “bruciato”), cioè una vittima interamente bruciata
dal fuoco in onore di Dio, e il sacrificio di comunione, chiamato anche “pacifico” o di “ringraziamento”,
dove la parte della vittima offerta a Dio era bruciata, un’altra parte era
destinata ai sacerdoti, il resto era dell’offerente, che lo mangiava con i
parenti e con altri invitati in segno di amicizia e di comunione non solo tra
loro ma anche con Dio (Es. 18,12). Il
banchetto, infatti, era parte integrante del sacrificio. A quest’ultimo
partecipano anche Aronne e i capi del popolo ebraico, in rappresentanza di
tutto Israele. La mattina successiva Ietro assiste all’esercizio dell’attività
giudiziaria che suo genero Mosè compie nei confronti delle contese che
sorgevano in mezzo al popolo. La sua autorità gli permetteva di essere arbitro
imparziale ma anche di parlare in nome di Dio. Infatti si afferma che il popolo
andava da Mosè per “consultare Dio”, cioè per avere risposte
giuste e definitive su ogni questione, considerandolo perciò come un profeta. In Israele, difatti, la giustizia è
considerata una prerogativa divina. Il
suo pieno esercizio appartiene esclusivamente a Dio e a coloro che egli ha
scelto come intermediari. Per questo era diventato abituale recarsi a
“consultare Dio” presso i profeti nei santuari o nel tempio, per conoscere la
sua volontà (Es. 18,15; 1 Sam. 9,9; 1 Re 22,8; 2 Re 8,8). L’amministrazione della giustizia era la
caratteristica del re ideale (Salmo 72, 1-2: “O Dio, dà al re il tuo giudizio,
al figlio del re la tua giustizia. Regga il tuo popolo con equità, i tuoi
poveri con rettitudine”). Prima
dell’istituzione del regime monarchico, il giudizio era esercitato dai giudici,
secondo le norme stabilite da Mosè in Es. 18, 13-26. Questi giudici erano gli
anziani della tribù o della città. Il libro dei Numeri (11, 10-30), riportando
l’episodio dell’istituzione dei giudici, parla di “settanta uomini scelti tra
gli anziani d’Israele”. Il loro ruolo era molto importante sia nella vita
civile sia religiosa. Il numero 70, poi, conferiva pienezza a questa
istituzione, che anticipava il Sinedrio dei tempi dei giudaismo. Ietro consiglia
a Mosè di creare un grado inferiore di giudizio, affidato a una struttura
politoco-amministrativa di più ampia estensione e di più agile articolazione
nasce cosi’ una specie di senato dei giudici il cui ritratto morale dev’essere
ineccepibile: “Uomini di virtù che temono Dio, uomini integri che odiano
il guadagno”, un vero e
proprio profilo del politico e del giudice giusto. Essi sono ordinati secondo
una gerarchia: alcuni saranno di alto
livello (“capi di migliaia”), altri di livello medio (“capi di centinaia”) e altri ancora di livello inferiore (“capi di cinquantine e decine”). Mosè
sarà quasi una specie di “cassazione”, a cui approderanno in ultima istanza le
cause più gravi. Ai giudici, invece, saranno riservate tutte le altre contese
di minor rilievo e le prime istanze di giudizio. Mosè accetta il suggerimento
del suocero e dà il via a un’istituzione che sarà di nuovo descritta nel libro
dei Numeri (11, 10-30).
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