sabato 19 gennaio 2013

Passaggio d'Israele, significato della Pasqua e manna nel deserto


La Pasqua ebraica era celebrata a piccoli gruppi di almeno dieci persone e cominciava la sera dopo il tramonto (il 15 di Nisan). L’uccisione degli agnelli pasquali nel cortile interno del tempio, era eseguita dai rappresentanti delle singole comunità partecipanti (ai sacerdoti spettava solamente di aspergere col sangue degli agnelli l’altare dei sacrifici) il pomeriggio precedente (14 di Nisan), e così pure la preparazione dell’agnello pasquale. Il pasto era consumato stando sdraiati su tappeti. All’inizio il capofamiglia, o il padrone di casa, pronunciava una formula di benedizione su un primo calice di vino, dal quale bevevano prima lui e poi tutti i commensali del banchetto pasquale. Seguiva la lavanda delle mani (che per gli Ebrei rivestiva il carattere di purificazione), e si serviva un antipasto: erbe amare intinte in una salsa rossiccia, l’haroset.
Si portava, quindi, a tavola il pasto principale: agnello pasquale, pane azzimo, e vino. Si porgeva, intanto, un secondo calice e la tradizionale lavanda delle mani. Prima di toccare questi cibi, però, si teneva la liturgia pasquale, la cui parte più importante era costituita dalla narrazione (“haggada” in ebraico) pasquale nella quale il capofamiglia raccontava la storia dell’esodo dall’Egitto conforme a Deut. 26, 5-11 e interpretava il significato dei singoli elementi del pasto.
-         Erbe amare: simboleggiavano l’amarezza della schiavitù egiziana.
-         Haroset: indicavano la fabbricazione dei mattoni in terra d’Egitto.
-         Agnello: rimandava la notte della liberazione, quando gli Ebrei col sangue dell’agnello tingevano gli stipiti delle porte.
-         Pane azzimo: era il simbolo della “fretta” della partenza, infatti, le donne non fecero in tempo a far lievitare il pane perché il Faraone aveva ordinato di lasciare subito l’Egitto.
Dopo il simbolismo dei cibi, si cantava insieme il Salmo 113 (prima parte dell’hallel pasquale, chiamato anche “Piccolo Hallel”). Si mangiava poi il pasto principale, senza mangiare, però, l’agnello pasquale, perché offerto a Dio in sacrificio, e una volta distrutto il Tempio non si offrì più alcun sacrifico. Prima di mangiare il pasto il capofamiglia introduceva con una preghiera sul pane azzimo e finiva con un’altra sul terzo calice di vino. Seguiva il tradizionale rito della lavanda delle mani e la conclusione dell’intera celebrazione col canto del Salmo 114 o 115 (seconda parte dell’hallel o “Grande Hallel”), e la benedizione del capofamiglia su un quarto calice. Gesù ha sempre partecipato alla celebrazione della Pasqua ebraica, ma la sua ultima Pasqua ha voluto celebrarla con solennità, in una “sala al piano superiore, grande e addobbata” (Lc. 22,12). Incarica Pietro e Giovanni per i preparativi; i due apostoli comprano l’occorrente per la Cena pasquale: erbe amare, pane azzimo, vino e agnello che portano, com’era consuetudine, al tempio per il sacrificio.
Nell’ora stabilita Gesù siede a tavola e gli Apostoli con lui. Durante la degustazione delle erbe amare (antipasto) avviene lo svelamento del tradimento di Giuda: “Colui che intinge con me nel piatto mi tradirà” (Mc. 14,20), proprio in quel momento Giuda Iscariota stava intingendo le erbe amare nell’haroset. Gesù continua la Cena secondo l’usanza ebraica, introducendo due importanti novità. Sostituisce alla benedizione del pane azzimo la consacrazione dello stesso pane (“Questo è il mio Corpo”).  Alla benedizione del terzo calice della Pasqua ebraica sostituisce la consacrazione del vino (“Questo è il mio sangue”).
Al termine della Cena, “dopo aver cantato l’Inno (il Grande Hallel) si recano verso il monte degli Ulivi”. Il racconto prosegue con la narrazione della Passione e Morte in croce di Gesù.

PASQUA EBRAICA                                    PASQUA CRISTIANA

  Antipasto                                                                       Antipasto

-         I°Calice (benedizione)                                                - I° Calice
-         Lavanda delle mani                                          - Lavanda delle mani
-         Erbe amare                                                              - Tradimento di Giuda
-         Haroset                                                                     - Haroset

Pasto                                                                              Pasto
       
-         II° Calice                                                                  - II° Calice
-         Lavanda delle mani                                          - Lavanda delle mani
-         Simbolismo dei cibi (Deut.26, 5-11)                 - Simbolismo dei cibi
-         Piccolo Hallel (Salmo 113)                               - Piccolo Hallel
-         Agnello                                                                    - Agnello
-         Pane azzimo                                                            - Consacrazione del Pane
-         III° Calice                                                                - Consacrazione del Vino
-         Lavanda delle mani                                          - Lavanda delle mani
-         Grande Hallel (Salmo 114-117)                        - Grande Hallel
-         IV° Calice (conclusione)                                 - IV° Calice


I figli d’Israele partirono da Ramses verso Sukkot (l’attuale città egiziana Tell el-Maskuta) in seicentomila”.  popolo in marcia verso la terra promessa.
Quest’immensa processione d’uomini – nella realtà, molto più modesta ed esigua  –  porta con se i pani azzimi che diventano ora il segno della fuga precipitosa verso la libertà.
Il primo gruppo (coloro che furono espulsi), probabilmente, percorse la via del mare, costeggiando a Nord i territori che portavano fino alla regione dei Filistei, quindi, questi esuli arrivarono a Cades e penetrarono nella Terra Promessa. Il gruppo più significativo fuggì dall’Egitto attraversando la penisola del Sinai.  Nella storia è il Signore che veglia” (v. 42), come ha vegliato in quella notte per guidare il suo popolo verso la libertà. La tradizione giudaica posteriore, distinguerà quattro notti fondamentali nella storia della salvezza. La prima è quella della Creazione (Gen. 1,3). La seconda è la notte dell’Alleanza con Abramo (Gen. 15, 17-18). La terza è quella della liberazione dall’Egitto (Es. 12,42). La quarta e ultima notte sarà quella della venuta del Messia, in altre parole, la liberazione definitiva.
Esodo 12,43 descrive la celebrazione della Pasqua ebraica.
Gli stranieri e coloro che non partecipano a pieno titolo alla famiglia, non mangeranno l’agnello e gli azzimi. Uno straniero che vuole parteciparvi deve prima accettare la circoncisione, segno dell’alleanza tra Dio e Israele. La celebrazione deve avere come sede la casa e come caratteristica precipua l’integrità: le ossa dell’agnello non devono essere spezzate, la carne dev’essere tutta consumata, il resto avanzato sarà bruciato.
Questa prima Pasqua, celebrata in Egitto, è la sorgente di tutte le altre.
Questo testo riporta un’altra legge religiosa di gran rilievo, quella secondo cui ogni primogenito ebreo è automaticamente consacrato e quindi riservato al Signore. La legge funge da contrasto con la vicenda dei primogeniti egiziani: costoro sono consacrati in modo quasi sacrificale alla giustizia divina nella strage notturna; i primogeniti ebrei sono, invece, possesso divino perché salvati da lui. Subito dopo, però, il testo biblico ritorna sulle norme pasquali, da osservare soprattutto quando Israele sarà stanziato nella terra promessa.
La Pasqua sarà una memoria viva e perpetua della liberazione donata da Dio, una memoria da conservare negli occhi (la mente), sulla bocca (la fede), e nelle mani (l’azione). Queste espressioni simboliche verranno in seguito applicate alla Legge (Deut. 6).
In seguito gli Ebrei presero alla lettera queste espressioni d’Es. 13,9 dando origine ai “filatteri” (dal greco “phjlasso” = “custodire”, Mt. 23,5). In altre parole erano piccoli astucci di cuoio o di pergamena, posti sulla fronte e sul braccio sinistro, contenenti dei testi biblici particolarmente significativi (Deut. 6, 4-9; 11, 18-21).La legge dei primogeniti è ora puntualizzata in modo rigoroso. Essa ormai non riguarda solo i figli d’Israele ma anche i primi parti degli animali; poi c’incontreremo con una norma che consacra a Dio anche le primizie dei campi (Levitico 23).
La menzione dell’asino (Es. 13,13) è dovuta al fatto che esso era l’animale più comune per il lavoro agricolo; essendo considerato “impuro”, non poteva essere riservato a Dio ma sostituito con un altro animale, quando non c’era la possibilità economica di riscattarlo con una sostituzione, era ucciso sacrificalmente con un colpo alla nuca, così da evitare spargimento di sangue.  Il sangue era considerato una realtà sacra e intoccabile perché simbolo della vita.
I primogeniti degli animali e degli uomini spettano alla divinità, come unica dispensatrice della vita.
Questa convinzione degli antichi si basava sul fatto che al primogenito era attribuito un particolare carattere sacro. I promogeniti degli uomini, tuttavia, non dovevano essere immolati, ma riscattati con un’offerta sostitutiva (Gen. 22,13; Es. 13,13).
Nella codificazione della legislazione del culto e dei sacrifici, i Leviti (discendenti di Levi) sostituirono i primogeniti d’Israele (Num. 3,12). Nel N.T. anche Gesù ha la dignità e gli obblighi del primo nato e come tale “è offerto al Signore” (Lc. 2, 22-24). Alla radice della legge, comunque, è ribadito l’evento dell’esodo: i primogeniti ebrei furono salvati da Dio e divennero perciò sua proprietà.
Esodo 13, 17-18 presenta un duplice itinerario per l’uscita dall’Egitto.
-         Il primo è quello della “strada della terra dei Filistei”, vale a dire, la strada militare che corre parallela alle coste del Mediterraneo e che gli Egiziani percorrevano per recarsi in Siria
-         Il secondo è quello della “strada del deserto” (Es. 13,18) che Dio stesso indica al popolo, perché meno controllata, quindi, più sicura e tranquilla. Questo percorso era più lungo del primo, perché s’inoltrava nella penisola del deserto del Sinai e poi saliva verso la Palestina, dopo aver superato il Mare delle Canne (di solito tradotto con Mar Rosso), in pratica l’ampia area delle paludi ad oriente del delta del Nilo, nella zona dei Laghi Amari o Salati, una regione oggi trasformata dall’istmo di Suez.
Il percorso così configurato, è visto come voluto da Dio, per impedire ad Israele di lasciarsi tentare dalla nostalgia del ritorno in Egitto di fronte alle prime difficoltà.  Israele marcia di tappa in tappa verso il deserto, accompagnato dalle ossa di Giuseppe – rispettando così un suo esplicito desiderio (Gen. 50,259 – e dal Signore, la cui presenza è simboleggiata dalla nube che ripara dall’ardore del sole durante il giorno e dal fuoco che illumina le tenebre della notte.
Nube e fuoco sono segni del mistero di Dio e della sua provvidenza che guida Israele verso la libertà.
L’itinerario è scandito secondo varie località.
-     da  Sukkot, in ebraico significa “capanne”,. a Baal-Zefon
Rientra ora in scena il Faraone il cui cuore ostinato non è stato piegato neppure dall’irruzione terribile del giudizio di Dio, incarnato nella morte dei primogeniti. Secondo la concezione biblica, Dio stesso combatte per proteggere il suo popolo mostrando la via di uscita.
Infatti Mosè col suo bastone prodigioso dividerà le acque e Israele passerà libero e salvo, mentre l’esercito faraonico scoprirà chi è il vero Signore della storia. La presenza di Dio, come altrove nella Bibbia, è incarnata dall’angelo che - insieme con l’altro simbolo divino della nube – si schiera tra Israele e gli Egiziani quasi ad erigere una cortina di protezione.
Passa, così, una notte d’attesa, cupa per gli Egiziani, luminosa per gli Ebrei che sono rischiarati dalla nube che riflette una luce misteriosa sul loro accampamento.  La Tradizione più antica, quella Jawhista, (X sec. a.C.) descrive il passaggio come una possibilità offerta ad Israele a causa di un forte vento che, soffiando per un’intera notte, prosciuga la laguna (v. 21). Israele passa, gli Egiziani non riescono ad approfittare di quest’occasione e sono ributtati esanimi sulla riva quando le acque si sono nuovamente distese.
Ci sono stati molti tentativi per dimostrare l’attendibilità storica di questa versione. I dati biblici sono così esili da impedire una determinazione precisa dell’evento. L’intervento di Dio libera e salva il suo popolo. Infatti nelle acque che si trasformano in un sepolcro d’acqua per gli Egiziani e in mezzo di salvezza per gli Ebrei, l’autore sacro ha visto il passaggio dall’Israele vecchio e schiavo all’Israele nuovo e libero. E’ sulla base di questo simbolismo (il mare nella Bibbia è segno di male e di morte), che il nostro racconto è diventato un’immagine spirituale nella tradizione successiva. Per il Cristianesimo, poi, si è trasformata in un emblema dell’esperienza pasquale del battezzato (1 Or. 10,2).
 “Cantate al Signore, perché si è mostrato grande: cavallo e cavaliere ha gettato in mare” queste parole d’Esodo 15,21 sembrano la più antica composizione della Bibbia. Veniva cantato col
Tamburello, la lira, l’arpa, con uno strumento simile alla cetra, con dieci corde,Il flauto
Vi erano poi il corno, il corno di ariete e i cembali,
Alle armate faraoniche egli oppone la sua “destra”, che brandisce le forze naturali a lui soggette e il soffio caldo della sua ira che irrompe dalle sue narici, secondo un’immagine biblica legata allo “sbuffare” della collera (v. 8 e 10).
Il riferimento alla “destra vittoriosa” di Dio è il tema portante del canto di Mosè (Es. 15,6), ma è presente anche negli altri libri biblici, nei quali la rivelazione della forza di Dio è descritta con l’immagine espressiva della sua “mano forte” e del suo “braccio teso” a favore del popolo da lui salvato (Salmo 118).
Ira, collera, soffio di Dio, riferiti a Dio,   fanno parte del linguaggio antropomorfico con il quale si attribuisce alla divinità comportamenti e reazioni dell’uomo.
La seconda parte dell’inno” (vv. 13-18) va oltre l’esodo, si distende nel deserto, nella conquista della terra promessa e giunge fino a Gerusalemme. Siamo, quindi, in presenza di un’elaborazione posteriore, quando in Israele è già sorta la monarchia davidica ed è già stato eretto il Tempio. Sfilano innanzi tutto il popolo dell’area attorno e dentro la terra promessa. L’elenco comprende quattro nomi (Filistei, Edom, Moab e Canaan), quasi a intendere i punti cardinali della terra donata da Dio al suo popolo. Essi sono travolti dalla paura, pietrificati anch’essi davanti alla potenza del Signore che stende il suo braccio vittorioso e protettore nei confronti d’Israele.
Il Signore guida Israele fino al monte di proprietà personale di Dio (il “monte della tua eredità”), lo stabilisce perciò in Sion, dove si erge la santa dimora, il santuario preparato dalle mani stesse di Dio.
L’inno di Mosè, si trasforma così, in un Salmo del Tempio di Gerusalemme, tant’è vero che la finale contiene un’antifona liturgica in onore del Signore re: “Il Signore regnerà in eterno e per sempre” (v. 18).
L’obiettivo del narratore ritorna, però, dopo il cantico di Mosè, sulla distesa dei cavalieri egiziani annegati e sulla gioiosa processione degli Ebrei in marcia verso la libertà.
Al canto di Mosè, si associa anche Maria, sua sorella, il cui nome ebraico “Miriam” è stato variamente interpretato: o sulla base dell’egiziano “Mara” = “sazia”, “bella”, “formosa”, o dall’egiziano “Meri”= “amata”, oppure da una radice cananea “rwm” che significa “elevata”.
Il ruolo di Maria sembrerebbe in gran considerazione nella tradizione orale e popolare (Michea 6,4: “Ho mandato avanti a te Mosè, Aronne e Maria), anche se la tradizione scritta è stata tutta incentrata sul ruolo del fratello Mosè. Con Aronne essa fu coinvolta in un episodio di contestazione contro Mosè e fu colpita dalla lebbra (Num. 12, 1-15). Probabilmente essi reclamavano un’autorità simile a quella di Mosè.
Accompagnata dai tamburelli ritmici e dalle danze delle donne ebree, Maria, intona una specie di antifona che è considerata dagli studiosi come il nucleo da cui si è sviluppato il cantico di Mosè appena letto.
Tutti i popoli dell’antico Oriente hanno sempre praticato la danza come manifestazione pubblica di gioia nelle feste religiose, familiari e nazionali. La Bibbia ricorda la danza in onore di Dio (Es. 15,20), del vitello d’oro (Es. 32,19) e soprattutto quella gioiosa di Davide dinanzi all’Arca (2 Sam. 6,14). La danza era parte importante dei festeggiamenti della vittoria in guerra (1 Sam. 18, 6-7), dei matrimoni (Sofonia 3, 16-17) e dei raccolti (Giudici 21,21; Geremia 31, 4-13). Il Salmo 150 invita ogni credente a lodare Dio “con timpani e danze”.
Conclusa l’epopea del passaggio del mare, seguono le distese deserticheDalla zona del Mare dei Giunchi, sappiamo che Mosè condusse il popolo nel deserto di “Sur”, chiamato il deserto di “Etam” in Num. 33,8. La parola ebraica “Sur” significa “muro”: il deserto era così chiamato per la costituzione stepposa nella parte settentrionale della penisola.Al termine d’una marcia di tre giorni, il popolo giunge alla sorgente dal nome eziologico di “Mara”, intravedono uno specchio d’acqua ma è salmastra: ecco spiegato il nome “Mara” che in ebraico significa “amara”.Scatta la protesta d’Israele assetato e sfinito.
Mormorare” nella Bibbia, è un verbo forte, usato per indicare l’opposizione di Israele a Dio e al suo interessamento (Es. 15,24; 16,2.8; Salmo 78,19), un’opposizione aspra e insistente (Esodo 17,7). E’ il verbo che percorre i libri biblici che parlano del cammino di Israele nel deserto, e della sua pretesa di suggerire a Dio come dovrebbe guidare la storia e gliavvenimenti. Le mormorazioni riguardano la sete (Es. 15,24; 17,3), la fame (Es. 16, 2-3; Num. 11, 4-5), i pericoli di guerra (Num. 14, 2-3). Lasciato alla sua sola libertà, l’uomo può compromettere la storia della salvezza pensata da Dio.
Dopo la protesta “Mosè gridò al Signore, che gli mostrò un legno: lo gettò nell’acqua e l’acqua diventò dolce” (v. 25). Questo curioso episodio riflette una convinzione ancora oggi presente presso i beduini, secondo la quale alcuni arbusti sono ritenuti dotati di poteri disinfettanti e purificatori.
Dopo questo episodio, si profila davanti al popolo in marcia. Il cammino è ancora lungo. Bisogna arrivare al deserto di “Sin”. Israele è ormai in marcia da un mese (Es. 16,1), rispetto la notte di Pasqua (Es. 12,18). La resistenza alla salvezza offerta da Dio si manifesta ancora una volta con la protesta del popolo ora affamato. Il passato egiziano è visto con nostalgia: là c’erano pentole piene di carne e si mangiava a sazietà! Si giunge fino al punto di accusare Mosè e Aronne di aver condotto consapevolmente il popolo a morire nel deserto. Questo stravolgimento nasce dalla malafede e dalla ribellione che la Bibbia descrive col verbo ebraico “lwn” = “protestare”, “mormorare”, “recriminare”, usato quasi esclusivamente nei racconti dell’esodo.
In un testo carico di ripetizioni, dovute al concentrarsi delle varie tradizioni, si promette, allora, al popolo un pane che “pioverà dal cielo” ogni giorno, tranne il sabato. Ricordando che il giorno festivo è contrassegnato dal riposo, l’autore biblico fa sì che il venerdì sia offerto da Dio al popolo affamato il doppio del nutrimento necessario così da coprire pure il giorno del riposo. Insieme al pane sarà offerta anche la carne, donata anch’essa dal Signore che si rivela come un padre di famiglia preoccupato per il suo “figlio primogenito” Israele.
La scena grandiosa della manna si apre con un’apparizione della Gloria del Signore avvolta dalla nube.
La Gloria, in ebraico “Kabod”, è la rappresentazione dello svelarsi del mistero divino. Uno svelamento che rimane incompiuto (si noti, infatti, la presenza della nube che cela lo splendore della Gloria), perché l’uomo non può sopportare l’infinito di Dio e la sua luce abbagliante.
Le parole divine annunziano l’intervento per saziare Israele affamato. Alla sera Dio offrirà le quaglie, uccelli migratori, che transitano nella penisola sinaitica due volte l’anno. La bassa quota del loro volo e la stanchezza per la lunga traversata facilitano la cattura di questi uccelli, la cui carne è gustosa. Sulla via dell’esodo un volo di quaglie fu provvidenziale per gli Israeliti stanchi e affamati (Es. 16,13). In Numeri 11, 31-33 un altro volo di quaglie si trasformò in castigo.
Al mattino sarà offerto, invece, un cibo “fine, granuloso e minuto come la brina”. Il riferimento va alla “manna” (in ebraico “man è pronome interrogativo affine al “che cosa?”; hu” significa invece “questo”)
Ancora oggi i beduini del deserto chiamano “man” il frutto di una pianta conosciuta come “tamarix mannifera”, che cresce soprattutto sulla costa occidentale della penisola sinaitica; essi la raccolgono, la spalmano sul pane, la usano in pasticceria e persino la distillano. Il colore della manna è bianco come granelli di una pianta, il coriandolo (Es. 16, 31), i cui semi aromatici sono adoperati per dare sapore. La pianta, ombrellifera, è alta circa 50 cm. e produce fiori bianchi. Il coriandolo è tipico dei paesi mediterranei ed è usato anche in profumeria e in farmacia.
Il sapore della manna è simile al miele e il popolo doveva prendere un “homer” a testa. L’homer e l’efa, sono due unità di misura. L’homer equivale a circa 2,2 litri, l’efa a circa 22 litri.
In tutta la tradizione biblica appare sempre il carattere straordinario di questo cibo che acquista significati spirituali.
In Deut. 8,3 si legge: “Il Signore ti ha fatto mangiare la manna che tu non conoscevi, per insegnarti che non di solo pane vive l’uomo, ma di tutto ciò che esce dalla bocca di Dio”.
Il libro della Sapienza 16, 20-21 commenta: “Nutristi il tuo popolo con il cibo degli angeli e preparasti per loro dal cielo un pane già pronto, senza fatica, capace di procurare ogni delizia e di soddisfare ogni gusto. Veramente quel tuo sostentamento manifestava la tua dolcezza per i figli”.
Lo sviluppo ultimo del simbolismo della manna, si avrà nel discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Giovanni 6), dove essa diventa figura dell’eucarestia.
Com’è annunziato, giunti alla vigilia del sabato, la manna raddoppia in quantità per permettere ad Israele di osservare in pienezza il riposo sabbatico. Così gli Ebrei raccolgono la manna e la fanno cuocere (c’è una piccola contraddizione con quanto si diceva nel v. 21 a proposito dell’incapacità della manna di resistere al calore del sole) e la conservano per il giorno successivo. Pertanto il miracolo della manna sta nel modo abbondante di produzione, come nella moltiplicazione dei pani operata da Gesù.
Notiamo inoltre come gli Ebrei non si cibarono soltanto di manna. Il testo sacro lascia supporre che avendo con se del bestiame, si cibano pure di latte e di carne. In Deut. 2,6 si prevede l’acquisto di viveri nel passaggio lungo la frontiera del paese degli Edomiti; e Giosuè 1,11 dà disposizioni per gli approvvigionamenti. La manna era dunque destinata ad integrare altri generi alimentari, necessariamente scarsi in una steppa. La manna serve pure da memoriale: un’urna speciale doveva contenere una certa misura ed essere posta davanti alla Testimonianza (cioè alle tavole della Legge conservate nell’arca), per ricordare alle generazioni future, un amore durato per tutti i 40 anni del viaggio d’Israele nel deserto. La manna, infatti, cesserà alle soglie della terra promessa.
Nella marcia d’Israele nel deserto si riaffaccia l’incubo della sete e, con essa, la tentazione alla ribellione contro Mosè e il Signore. Siamo sempre nel deserto di “Sin”, situato nel sud della penisola del Sinai; inizia il paesaggio arido e spoglio che fa da sfondo al cammino degli Israeliti verso la terra promessa.
Mosè, consapevole della durezza della prova a cui è sottoposto il suo popolo assetato e della sua esasperazione che lo può spingere a reazioni inconsulte, si rivolge a Dio, il quale risponde ancora una volta col suo amore.
Il bastone di Mosè, farà sprizzare una sorgente dalla roccia così da dissetare Israele. E’ curioso notare che Paolo, riprendendo una tradizione giudaica, immagina che questa rupe da cui era scaturita l’acqua, accompagni Israele nel suo pellegrinaggio nel deserto: essa era per l’Apostolo simbolo di Cristo, fonte d’acqua viva (1 Or. 10,4).
L’evento clamoroso dell’acqua sgorgata dalla roccia termina con una delle numerose spiegazioni di nomi di località che abbiamo incontrato nella Bibbia. Quel luogo si chiamerà “Massa” (in ebraica «prova”, “tentazione”) ed è inteso nel senso che gli Ebrei “misero alla prova il Signore dicendo: “Il Signore è in mezzo a noi o no?” (Es. 17,7).
Meriba” (dall’ebraico “rib” = “discutere”, “contendere”), nasce a motivo della “contesa dei figli d’Israele” (Es. 17, 2.7) con il Signore e con Mosè.
Per la gravità dell’atteggiamento assunto dagli Ebrei verso Dio, queste due località, sono ricordate dalla tradizione biblica in modo negativo, con l’esortazione a non ripetere più una tale esperienza (Salmo 95,8: “Non indurite il vostro cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto...). La crisi a Meriba in Numeri 20, 2-13 è considerata, da alcuni, occasione della famosa colpa di Mosè, per la quale egli non poté poi entrare nella terra promessa.
Si profila, ora, all’orizzonte un altro ostacolo alla salvezza: l’ostilità delle tribù beduine del deserto. Si tratta d’Amalek, una popolazione che diventerà quasi un simbolo dei nemici d’Israele anche nella storia successiva (Deut. 25, 17-19).
Gli Amaleciti facevano parte di una federazione di nomadi del deserto insieme con i Madianiti e i Keniti. Nel deserto era facile venire a conflitto con queste tribù a motivo soprattutto del diritto di usare le sorgenti d’acqua presso le oasi. Questo conflitto può costituire il retroscena della battaglia d’Israele con Amalek, com’è descritta in questo testo di Esodo 17, 1-16.
Per la prima volta accanto a Mosè appare Giosuè, che sarà il futuro condottiero d’Israele nella terra promessa. E’ lui a dirigere i combattimenti ebrei contro Amalek. Cur che appare insieme con Mosè e Aronne è un personaggio citato solo in Es. 17,10 e 24,14. Probabilmente apparteneva alla classe sacerdotale e la sua discendenza confluì in quella di Aronne, erede del sacerdozio.
Mosè è ora raffigurato come il perfetto intercessore: le mani elevate al cielo sono il segno della preghiera.
Tutto il racconto è costellato di segni liturgici per ricordare che la vittoria è frutto dell’azione divina: le mani alzate, il “bastone di Dio” , l’ascesa sul monte sacro, l’altare eretto e consacrato al Signore, “vessillo” di vittoria per Israele, e l’oscura formula conclusiva che ha il tono di un inno di guerra col quale si proclama l’inimicizia che regnerà anche poi tra le tribù di Amalek e Israele.  Ricorderemo che Mose’ per seguire la sua Missione e mettere al sicuro la moglie e i figli permette che rimangano a casa della famiglia di origine della moglie . Adesso  Zippola e i figli Gherson e  Eliezer, Ietro, raggiungono rispettivamente  il marito e il padre e il Genero.  Mosè ritrova, dunque, la sua famiglia. E’ un incontro segnato dalla tenerezza e dal dialogo familiare, pieno di ricordi e di eventi: “Si informano vicendevolmente sulla salute... Mosè raccontò tutto quello che il Signore aveva fatto...”. Affiora anche la gioia “per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele”.
Finito lo scambio delle notizie, ritrovata la gioia dell’intimità, Ietro sembra ritornare nelle sue vesti solenni di sacerdote. Nel v. 5 si ricorda che sullo sfondo si erge “il monte di Dio”, il Sinai-Oreb, che tra poco sarà al centro del racconto. E’ in questa atmosfera che il sacerdote di Madian si trasforma in un sacerdote d’Israele. Infatti egli pronunzia una benedizione di taglio tipicamente biblico, in cui si esalta l’articolo di fede fondamentale, quello della liberazione dell’esodo, e si professa la fede nell’unico Signore, superiore a ogni altra divinità adorata dagli uomini: “Benedetto sia il Signore, che vi ha liberati dalla mano degli Egiziani... so che il Signore (Jahwè) è più grande di tutti gli dèi” (Es. 18, 10-11).
E’ questo un modo per esprimere l’unicità di Dio, nello stile di ciò che si affermerà nel primo comandamento del Decalogo: “Non avrai altri dèi davanti a me” (Es. 20,3).
Alla benedizione segue un rito sacrificale duplice che comprende l’olocausto (dal greco: “Olon” = “intero” e dal verbo “kaustòn” = “bruciato”), cioè una vittima interamente bruciata dal fuoco in onore di Dio, e il sacrificio di comunione, chiamato anche “pacifico” o di “ringraziamento”, dove la parte della vittima offerta a Dio era bruciata, un’altra parte era destinata ai sacerdoti, il resto era dell’offerente, che lo mangiava con i parenti e con altri invitati in segno di amicizia e di comunione non solo tra loro ma anche con Dio (Es. 18,12).  Il banchetto, infatti, era parte integrante del sacrificio. A quest’ultimo partecipano anche Aronne e i capi del popolo ebraico, in rappresentanza di tutto Israele. La mattina successiva Ietro assiste all’esercizio dell’attività giudiziaria che suo genero Mosè compie nei confronti delle contese che sorgevano in mezzo al popolo. La sua autorità gli permetteva di essere arbitro imparziale ma anche di parlare in nome di Dio. Infatti si afferma che il popolo andava da Mosè per “consultare Dio”, cioè per avere risposte giuste e definitive su ogni questione, considerandolo perciò come un profeta. In Israele, difatti, la giustizia è considerata una prerogativa divina.  Il suo pieno esercizio appartiene esclusivamente a Dio e a coloro che egli ha scelto come intermediari. Per questo era diventato abituale recarsi a “consultare Dio” presso i profeti nei santuari o nel tempio, per conoscere la sua volontà (Es. 18,15; 1 Sam. 9,9; 1 Re 22,8; 2 Re 8,8). L’amministrazione della giustizia era la caratteristica del re ideale (Salmo 72, 1-2: O Dio, dà al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia. Regga il tuo popolo con equità, i tuoi poveri con rettitudine”). Prima dell’istituzione del regime monarchico, il giudizio era esercitato dai giudici, secondo le norme stabilite da Mosè in Es. 18, 13-26. Questi giudici erano gli anziani della tribù o della città. Il libro dei Numeri (11, 10-30), riportando l’episodio dell’istituzione dei giudici, parla di “settanta uomini scelti tra gli anziani d’Israele”. Il loro ruolo era molto importante sia nella vita civile sia religiosa. Il numero 70, poi, conferiva pienezza a questa istituzione, che anticipava il Sinedrio dei tempi dei giudaismo. Ietro consiglia a Mosè di creare un grado inferiore di giudizio, affidato a una struttura politoco-amministrativa di più ampia estensione e di più agile articolazione nasce cosi’ una specie di senato dei giudici il cui ritratto morale dev’essere ineccepibile: “Uomini di virtù che temono Dio, uomini integri che odiano il guadagno”, un vero e proprio profilo del politico e del giudice giusto. Essi sono ordinati secondo una gerarchia: alcuni saranno di alto livello (“capi di migliaia”), altri di livello medio (“capi di centinaia”) e altri ancora di livello inferiore (“capi di cinquantine e decine”). Mosè sarà quasi una specie di “cassazione”, a cui approderanno in ultima istanza le cause più gravi. Ai giudici, invece, saranno riservate tutte le altre contese di minor rilievo e le prime istanze di giudizio. Mosè accetta il suggerimento del suocero e dà il via a un’istituzione che sarà di nuovo descritta nel libro dei Numeri (11, 10-30).

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